Ieri, domenica 20 giugno 2021, è stata inaugurata, all’interno del Parco archeologico dei Campi Flegrei, la mostra Kême. L’evento ha preso il via in occasione dell’apertura al pubblico del Macellum di Pozzuoli-Tempio di Serapide. La mostra è presentata dalla Scuola di Scultura dell’Accademia di Belle Arti di Napoli in collaborazione con Aporema onlus nell’ambito dell’ATI Macellum.
L’inaugurazione del Macellum di Pozzuoli (NA) il 9 giugno 2021 – foto: Parco Archeologico dei Campi Flegrei
Il progetto espositivo, studiato per coniugare il linguaggio contemporaneo e l’archeologia, è realizzato in collaborazione con il Parco Archeologico dei Campi Flegrei. Il taglio moderno della mostra e la tematica, volta a scardinare dall’immaginario collettivo quel senso di antiquato solitamente legato al mondo umanistico, sono frutto della mente di 14 studenti. Questi ultimi sono stati selezionati attraverso un concorso tematico, che chiedeva specificamente di trovare una chiave adatta a far dialogare il mondo storico-archeologico e il modo di espressione contemporaneo. La mostra sarà visitabile fino al 30 settembre 2021.
Il progetto della mostra dei Campi Flegrei
La location, così come il titolo quindi, non sono frutto di una scelta casuale e richiamano direttamente l’intento della mostra: come Serapide, divinità egizia nata per favorire la fusione tra due civiltà, il termine egiziano Kême (= terra nera, materia prima) in arabo diventa al-kimya, alchimia, disciplina finalizzata alla trasformazione della materia tramite il fuoco. Inoltre, la citazione di Terra e Fuoco come elementi primordiali della trasformazione richiama alla mente il Parco Archeologico dei Campi Flegrei: sono elementi caratteristici di quella terra. Concludendo, per rispondere alla collocazione integratasite-specific, gli allievi hanno prodotto sculture in terracotta e/o ceramica. Quindi, sono riusciti a dar vita a un percorso espositivo funzionale alla comprensione e all’evoluzione del concetto cui si ispira.
Il Macellum-Tempio di Serapide – foto: Parco Archeologico dei Campi Flegrei
Infine, all’inaugurazione sono intervenuti Fabio Pagano, direttore del Parco archeologico dei Campi Flegrei; nonché Antonio Manzoni, presidente di Aporema onlus, partner dell’ATI Macellum; Renato Lori, direttore dell’Accademia di Belle Arti; Valter De Bartolomeis, dirigente Scolastico Istituto Caselli De Sanctis; Rosaria Iazzetta, coordinatrice di Scultura dell’Accademia e Nello Antonio Valentino, docente di Formatura, tecnologia e tipologia dei nuovi materiali, dell’Accademia.
Il Museo Civico di Crocetta di Montello e la cooperativa ISTHAR chiedono aiuto al web affinchè non si chiuda questa straordinaria realtà culturale.
Grazie all’idea di Daniela Paolillo, membro della cooperativa ISTHAR e organizzatrice di numerose iniziative all’interno del museo, è partita una raccolta fondi sulla piattaforma GoFundMe. Il fine ultimo è quello di permettere a queste due istituzioni di proseguire con le loro importanti attività.
Queste due realtà locali da anni si occupano di divulgazione culturale nel territorio trevigiano; tuttavia, come è già successo a tanti altri poli culturali, anche queste istituzioni hanno risentito delle chiusure dovute alle normative anti covid. L’accorato appello di Daniela è lo specchio di quello che stanno vivendo tante realtà culturali del nostro territorio: In questo 2020 per la prima volta ci troviamo in grande difficoltà che rischia di mettere a repentaglio la duratura operatività nella gestione del Museo Civico “La Terra e l’Uomo” di Crocetta del Montello e i suoi progetti ormai conosciuti.
La cooperativa ISTHAR
Da anni la cooperativa ISTHAR si occupa di divulgazione culturale rivolta a tutte le età, ma dedicando particolare attenzione a bambini e ragazzi perché possano divertirsi a capire la storia e non solo. Infatti, dopo un’esperienza decennale in ambito didattico culturale, la cooperativa ha realizzato un nuovo progetto, “ISTHAR EDITRICE”, con lo scopo di creare uno strumento divulgativo delle proprie attività in ambito naturalistico, archeologico, antropologico e geografico.
Chiunque volesse fare una donazione potrà partecipare gratuitamente a una visita online del Museo, grazie all’iniziativa Museo in diretta.
L’appello è dunque quello di sostenere, di dare un piccolo contributo concreto in modo da aiutare la sopravvivenza di queste piccole ma fondamentali realtà: “perché la cultura non si fermi”.
Come donare
Di seguito, l’indirizzo di riferimento e le coordinate bancarie per poter effettuare una donazione:
Lo storico eoliano Pino La Greca ha scoperto una lettera finora inedita che Garibaldi inviò ai cittadini di Lipari nel 1860. Nino Saltalamacchia, Presidente del Centro Studi eoliano (che quest’anno compie 40 anni dalla fondazione), rende nota questa stupefacente notizia.
La lettera inedita di Garibaldi
La lettera, come riporta il testo, è stata inviata il 23 luglio di 160 anni fa, dal comando generale di Milazzo dell’Esercito nazionale in Sicilia. Garibaldi ringrazia i cittadini di Lipari “per la generosa risoluzione: “Proclamate il governo italiano di Vittorio Emanuele ed eleggetevi un governatore alla maggioranza dei voti, al quale io conferisco temporaneamente poteri illimitati. Mantenetevi in corrispondenza col Prodittatore in Palermo per via di Milazzo, e con me, mentre soggiornerò in quest’isola. Vostro Giuseppe Garibaldi”.
La storia
Nonostante le parole scritte sulla lettera, noi sappiamo che Garibaldi, dopo la vittoria di Milazzo, partì per Messina. Prima di fare ciò, però, aveva dato disposizioni per l’occupazione di Lipari e delle isole dell’arcipelago a un gruppo di eoliani che avevano combattuto a Milazzo. Tale gruppo era guidato dal maggiore Giovanni Canale, che fu nominato governatore dallo stesso Garibaldi, fino all’esito delle nuove elezioni comunali.
Il notaio eoliano Don Rosario Rodriguez trascrisse e conservò la lettera che oggi fa parte dei documenti del fascicolo relativo alle indagini sull’omicidio dell’ex sindaco borbonico Giuseppe Policastro, avvenuto nell’autunno del 1860, che lo stesso Pino La Greca sta studiando.
L’espressione di potenza di Akràgas, il Tempio della Concordia, è il tempio greco più famoso della Sicilia. Gli abitanti dell’antica Agrigento edificarono ben 10 templi nel corso del V secolo a.C., in un’accanita sfida all’ultimo capitello contro Siracusa. Il cosiddetto Tempio della Concordia, in particolare, fu costruito nel 430 a.C. e oggi si trova all’interno della famosa Valle dei Templi di Agrigento. Il monumento deve il nome Concordia all’interpretazione che lo storico Tommaso Fazello fece di una epigrafe latina rinvenuta nelle vicinanze, ma che, in realtà, nulla ha a che fare con il tempio.
Pianta del Tempio della Concordia
Si tratta di un periptero esastilo in stile dorico: un quadrilatero con sei colonne sulla fronte e tredici sui lati lunghi (segue, dunque, il canone classico, che vuole che le colonne dei lati lunghi siano il doppio più uno rispetto a quelle sulla fronte). La peristasi perfettamente conservata poggia direttamente su un crepidomacomposto di quattro gradini e si compone di sole colonne doriche: fusto non particolarmente slanciato e terminante in un capitello dalla forma semplice. Ogni colonna è dotata di venti scanalature e, verso i 2/3 dell’altezza, presenta un’armoniosa entasi. La peristasi sostiene una trabeazione composta da architrave, fregio decorato a metope e triglifi e un timpano non scolpito.
Pianta, prospetto e foto del tempio della Concordia
Il naos interno (la cella), accessibile attraverso un gradino, è preceduto da un pronao in antis (inquadrato tra due colonne) ed è seguito da un altro vestibolo. Questo secondo spazio, denominato opistodomo, era solitamente adibito alla custodia del tesoro, dei donativi e dell’archivio del tempio. Di notevole interesse è la presenza, ai lati del pronao, di piloni con scale d’accesso al tetto. Allo stesso modo, sulla sommità delle pareti della cella e nei blocchi della trabeazione della peristasi, sono ben visibili gli incassi per la travatura lignea di copertura. Gli studi hanno dimostrato che l’esterno e l’interno del tempio erano rivestiti di stucco policromo. L’ipotesi cromatica fatta dagli esperti ha ipotizzato un rivestimento in stucco bianco candido per tutta la struttura, a eccezione del fregio e del timpano che, invece, dovevano essere colorati di rosso e blu.
Da Tempio a Chiesa
Alla fine del VI secolo d.C., il Tempio della Concordia fu trasformato in una basilica cristiana dal vescovo Gregorio II e dedicata ai santi Pietro e Paolo. Tale metamorfosi comportò una serie di cambiamenti, che contribuirono alla sopravvivenza della struttura fino ai giorni nostri: il rovesciamento dell’orientamento antico, l’abbattimento del muro dell’opistodomo, la chiusura degli intercolumni e la realizzazione di dodici aperture arcuate nelle pareti della cella; tutto ciò permise di costituire le tre navate canoniche. Le fosse, invece, che si trovano all’interno e all’esterno della chiesa, si riferiscono a sepolture alto-medievali. Nel 1748 il tempio tornò alle sue forme antiche, con la riapertura del colonnato, e smise di essere utilizzato per il culto.
Con uno dei simboli dell’arte classica di Sicilia si chiude la prima fase di vita di questa rubrica dal sapore siculo. Dal 2021, infatti, la rubrica Archeologia Sicilia cambierà “location” e verrà pubblicata sulla rivista di ArcheoMe. Non potevamo certo ridurre la storia della nostra terra a poche righe: l’archeologia siciliana ha ancora tanto da raccontare e io continueró a essere la sua umile portavoce. A presto!
Storico greco siciliano, Timèo nacque verosimilmente nel 356 a.C. da Andromaco, tiranno fondatore di Tauromenio, antico nome di Taormina.Nel 316 a.C., quando la città fu conquistata da Agatocle, tiranno di Siracusa, Timèo fu esiliato e visse dapprima ad Agrigento e poi ad Atene, dove stette per circa cinquant’anni e dove seguì le lezioni di retorica di un allievo di Isocrate.Nonostante le scarse notizie biografiche, con molta probabilità Timèo tornò a Siracusa dopo la morte di Agatocle (269 a.C.) e passò gli ultimi anni della sua lunga vita (circa 96 anni) sotto il tiranno Gerone II: morì a Siracusa intorno al 260 a.C.
Fu il primo ad elaborare e utilizzare una cronologia universale basata sulla comparazione fra cronologia olimpica, liste di magistrati eponimi e altre liste locali.
Timèo, nonostante la lontananza dalla terra natia, non si dimenticò mai di essa e sempre si tenne aggiornato sugli avvenimenti, tanto che fu autore di un’opera storiografica che aveva per protagonisti siciliani e italioti. L’opera, intitolata Storie SicilianeoSikelikà,di cui ci restano circa 160 frammenti, era divisa in 38 libri e trattava dell’Occidente greco, delineandone una storia dalle origini mitiche alla morte del suo nemico Agatocle, avvenuta nel 289 a.C.
Dallo studio dei frammenti rimasti si ricava che l’opera si componeva di un’introduzione generale di 5 libri, in cui Timèo offre una descrizione geografica dell’isola ed introduce la complessa storia mitologica delle fondazioni di città per mano di celebri eroi, come gli Argonauti, Eracle o i guerrieri dell’impresa troiana. A questi seguivano i libri narranti la storia siciliana fino al 406 a.C., anno dell’ascesa al potere di Dioniso I di Siracusa, per poi proseguire fino alla morte di Agatocle. Solo in un secondo momento,Timèo aggiunse un’appendice di altri 5 libri, in cui narra le vicende storiche dalle guerre di Pirro contro Roma fino al 264 a.C., data d’inizio della prima guerra punica.
L’accuratezza delle notizie valse allo storico siciliano una grandissima popolarità, che durò fino al III secolo d.C.; infatti, sebbene l’opera trattasse dei Greci che avevano colonizzato l’Italia, essa riscosse un maggiore interesse tra i Romani che non tra i Greci, grazie alle notizie che offriva sia su Roma e su tutte le altre città dell’Italia, sia sui Cartaginesi e sull’Occidente barbaro.
Lo storico siciliano fu considerato il continuatore della storiografia politico-retorica iniziata da Isocrate e la sua opera venne largamente utilizzata da altri scrittori, tra cui i famosi Diodoro Siculo e Polibio. Quest’ultimo, che pure asseriva di voler continuare l’opera di Timèo, non perse l’occasione di criticare l’interesse etnografico del predecessore; nella sua polemica, tuttavia, si dovranno riconoscere anche motivi di gelosia verso un altro storico, la cui eco risuonava a Roma persino tanto tempo dopo la sua morte.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:
Timeo di Tauromenio, Testimonianze e Frammenti, a cura di Ignazio Concordia, Storiografia Siceliota Frammentaria IV, Youcanprint, Tricase (Lecce) 2017.
Bertini, G. 1829, “Giudizi degli Antichi intorno alle opere di Timeo da Taormina, storico del III secolo innanzi l’Era Volgare colle Notizie biografiche e i frammenti della Storia del medesimo“, in Giornale di Scienze, Lettere e Arti per la Sicilia, VII/t. 27.
Pearson, L. 1987,The GreekHistorians of the West. Timaeus and His Predecessors, Atlanta.
La Grotta Sant’Angelo è la più grande tomba a tholos protostorica di Sicilia. Nel 1931, Paolo Orsi scopre un gruppo di grandi tombe a tholos poste sulle pendici del colle di Sant’Angelo Muxaro, nella valle del Platani, in provincia di Agrigento. I ricchi corredi funebri impongono, fin da subito, il sito come uno dei più importanti e degni di attenzione della Sicilia protostorica. Tra di esse, la più grande è la cosiddetta “Tomba del Principe” o “Grotta Sant’Angelo”. Il secondo nome viene dal santo protettore che avrebbe scelto la grotta per il suo eremitaggio dopo averla liberata dal demonio. Secondo la tradizione, infatti, la grotta fu abbandonata a causa della forte umidità delle pareti e perché infestata da molteplici spiriti maligni. Un giorno, dal mare, giunse un sant’uomo, Angelo, che invocando un terremoto da Dio cacciò gli spiriti e vi si stabilì.
La struttura della Grotta Sant’Angelo
La camera più interna della Grotta Sant’Angelo
La Grotta Sant’Angelo è costituita da due grandi camere pressoché circolari e comunicanti tra loro. La più ampia presenta un diametro di 8,8 metri e un’altezza di 3,5 metri ed è dotata di una banchina che gira tutt’intorno alle pareti. La camera più interna, invece, sebbene di dimensioni più ridotte, presenta una cupola a forma di calotta. L’ingresso, non in asse con quello precedente, conduce in uno spazio, al centro del quale si trova un lettuccio funebre intagliato nella roccia. All’interno della tomba si trova tutta una serie di petroglifi che Paolo Orsi attribuisce erroneamente al periodo Bizantino. In realtà, essi sono di origine sikana e testimoniano come l’intero gruppo di tombe sia da ascrivere al mondo sikano.
L’interpretazione
Questa tomba fu chiamata da Paolo Orsi “Tomba del Principe”, poiché doveva essere il “mausoleo del principe della anonima cittadina sicula di Muxaro“. Secondo lo studioso, al principe, alla consorte e ai congiunti fu riservata la cella interna; mente, in quella esterna, sulla banchina che gira tutt’intorno alle pareti “erano disposti, in origine, a banchetto, gli addetti e i servi della casa del principe“.
Panarea, l’antica Euònymos, dal punto di vista geologico, è la più antica tra le Eolie. È anche l’isola più piccola e la meno elevata dell’arcipelago eoliano. Comprende tutta una serie di isolotti (Basiluzzo, Spinazzola, Lisca Bianca, Dattilo, Bottaro, Lisca Nera e gli scogli dei Panarelli e delle Formiche) che, insieme, costituiscono un micro-arcipelago posto fra le isole di Lipari e Stromboli.
La storia di Panarea
Le più antiche testimonianze di vita su quest’isola risalgono alla fine del Neolitico. I reperti appartengono alla cultura di Diana (fine IV millennio a.C.) e si trovano in località Calcara e su Piano Cardosi, nonché su Lisca Bianca. È solo durante l’Eneolitico che ha sede il primo villaggio, a Piano Quartara, località da cui prende il nome la cultura che caratterizza il periodo finale dell’Eneolitico eoliano.
L’età del Bronzo Antico, rappresentata dalla cultura di Capo Graziano, ha lasciato le sue tracce in una serie di pozzi scavati nella zona fumarolica: si tratta di pozzetti votivi, relativi al culto per una divinità legata al potere salutare delle fumarole. Recentemente, grazie a sporadici rinvenimenti sulla punta di Peppa Maria, gli archeologi hanno pensato che qui ci fosse un piccolo insediamento stabile. Tuttavia, il più importante intervento preistorico è sicuramente il villaggio del Bronzo Medio di Punta Milazzese. Gli abitanti di questo villaggio, come dei villaggi coevi sulle altre isole, erano dediti al controllo delle rotte marittime commerciali. Dopo il decadimento della cultura di Thapsos-Milazzese, l’isola diventa meta di scorrerie etrusche ma rimane disabitata fino al V secolo a.C.
Della Panarea di età classica si conosce poco. L’unica notizia certa è che, durante l’età imperiale, l’isolotto di Basiluzzo fu scelto come sede di una villa. Sempre a questo periodo appartiene il molo che, a causa di fenomeni geologici, oggi si trova quattro metri sotto il livello del mare. Come testimoniato da un frammento di mensa di altare cristiana, Panarea, deve essere stata abitata almeno fino al periodo bizantino.
Il Museo
Panarea è sede di una sezione distaccata del Museo Archeologico Regionale Eoliano. Inaugurato nel 2006, ha sede in due locali contigui appartenenti alla Chiesa di S. Pietro. La prima sala presenta la vita dell’isola sotto diversi aspetti: geologici, vulcanici e naturalistici. Inoltre, sono esposte le testimonianze della cultura materiale databili tra il Neolitico Superiore e il Bronzo Antico. La seconda sala, invece, espone i materiali di età classica. Per lo più, si tratta di frammenti ceramici a vernice nera e in terra sigillata africana, provenienti dai contesti funerari di Drautto. L’esposizione è completata da una serie di reperti provenienti dai contesti subacquei: anfore greco-italiche, Dressel e Cretesi, nonché ceramica a vernice nera appartenuti ai carichi del Relitto di Dattilo e del Relitto Alberti.
Il Monte Sabucina si trova a circa 10 Km a nord-est di Caltanissetta. Dichiarato ufficialmente Parco Archeologico Regionale mediante decreto del 2001, insieme al vicino Monte di Capodarso, la montagna costituisce un unico sistema che domina, sulla vallata del fiume Salso, l’antica Himera. Il suo pianoro, a 720 m s.l.m., ha costituito nel tempo un importante punto di controllo e di dominio delle vie commerciali che si insinuano nel territorio dell’antica Sikania. Questa sua caratteristica non è sfuggita alle popolazioni che hanno abitato questo territorio dal Bronzo Antico fino all’età romana. Le prime indagini archeologiche risalgono agli anni ’60 del secolo scorso a opera di Piero Orlandini.
L’Età del Bronzo
Il primissimo sito del Bronzo Antico, ai piedi del Monte Sabucina, è composto da diversi villaggi corrispondenti alla cultura preistorica di Castelluccio. Successivamente, intorno al XIII secolo a.C., l’abitato si sposta sui pendii collinari, probabilmente per motivi difensivi. Tra il XIII e il X secolo l’abitato, ascrivibile alla facies di Pentalica Nord, si evolve. Questo unico grande abitato è costituito da capanne circolari, poste sia sulla piattaforma sia sul pendio del colle. Tra le capanne, inoltre, vi sono degli ipogei scavati nella roccia, utilizzati come luoghi di sepoltura, come depositi o ricoveri per animali. Infine, alcune capanne restituiscono matrici e oggetti ceramici che indicano la loro funzione come officine metallurgiche e botteghe ceramiche. Durante il X e il IX secolo a.C., le capanne vengono costruite con muri a secco e l’abitato è di più modeste dimensioni. Inoltre, il sito, dotato di terrazzamenti e canalette, rientra nell’orizzonte culturale di Cassibile.
Il Monte Sabucina nell’Età del Ferro
Tra l’VIII e il VII secolo a.C. un nuovo abitato si impianta sulla sommità e sulle pendici del Monte Sabucina. Le abitazioni sono a pianta rettangolare e l’abitato sembra organizzato in aree specializzate. Nell’area di culto si individuano due sacelli, forse dedicati alle divinità ctonie, che sono stati ampliati e modificati nel corso del tempo. Di notevole interesse è una delle celle, la quale si presenta orientata a Est. Si tratta di una cella circolare, costruita con pietre irregolari e rinforzata alla base da un secondo anello che ne raddoppia lo spessore murario. I resti ci dicono che si tratta di una struttura in antis (due colonne sulla fronte): questo testimonia i contatti tra il mondo indigeno e quello greco. Dall’area sacra proviene anche il famoso Sacello di Sabucina: un modellino fittile su alto piede di tempietto in antis a pianta rettangolare, il cui tetto spiovente è sormontato da figure di cavalieri e ornato in fronte da due gorgoni.
Il volto classico di Sabucina
Area archeologica di Sabucina
Il processo di ellenizzazione, testimoniato dal Sacello di Sabucina, termina intorno al VI secolo a.C., con l’arrivo di coloni rodio-cretesi da Gela. L’abitato, seppur dotato di mura di fortificazione alla maniera greca, manca di un impianto urbanistico regolare. Esso, infatti, si presenta come un agglomerato di strade e stradine irregolari. Questa polis viene violentemente distrutta da Ducezio nel V secolo a.C., nell’ambito della rivolta delle città sicule contro i Greci. Nel corso del IV secolo, così come tante altre città dell’Isola, anche Sabucina si ripopola con nuovi coloni per opera di Timoleonte. La città viene anche ricostruita e protetta con possenti mura fortificate e dotate di torri rettangolari e semicircolari. Dopo il 310 a. C. il sito è stato abbandonato e la popolazione ritorna ad abitare i piedi della montagna.
Durante l’epoca romana, soprattutto in età imperiale, gli abitanti continuano a vivere in ville e abitazioni che si estendono ai piedi del Monte Sabucina. Il centro abitativo di Piano della Clesia e la necropoli in contrada Lannari, dove è stato ritrovato il busto in marmo dell’imperatore Geta (209 – 212 d. C.), testimoniano la continuità di vita del sito.
Il Museo Archeologico Regionale Eoliano Luigi Bernabò Brea, nato da un precedente Antiquarium e posto sull’altopiano conosciuto come “il Castello”, fu inaugurato nel 1954. La sua sistemazione fu fortemente voluta dallo studioso Bernabò Brea, a cui è stato successivamente dedicato, e dalla celebre Madeleine Cavalier. Quest’ultima, dopo aver condotto scavi e ricerche di stampo preistorico sul territorio ligure, fu sua collaboratrice fin dal 1951, quando assunse la direzione scientifica degli scavi a Lipari e di tutta l’attività archeologica nelle isole Eolie. La collaborazione tra i due ha significativamente ampliato la precedente collezione museale, tanto che si è resa necessaria l’apertura di nuovi poli. Oggi il Museo Archeologico di Lipari si articola in ben 6 sezioni – Preistoria, Epigrafia, Isole Minori, Età Classica, Vulcanologia e Paleontologia del Quaternario – che hanno sede in altrettanti edifici. L’esposizione si avvale di un esaustivo apparato didattico, composto da pannelli nelle lingue italiano e inglese. Essa documenta lo sviluppo degli insediamenti umani e delle civiltà che si sono succedute nel tempo nell’Arcipelago Eoliano.
La Sezione Preistorica
La Sezione Preistorica si trova in un edificio del XVIII secolo che, sorto sui ruderi del monastero normanno, fu sede del Palazzo Vescovile. I reperti in esso conservati mostrano il susseguirsi delle culture dall’età Neolitica (fine V millennio a.C.) al Tardo Bronzo (XI-X secolo a.C.). I materiali provengono dagli scavi condotti nell’area del Castello e nelle zone che hanno dato nome alle culture susseguitesi. Da Piano Conte, ad esempio, ci arrivano le ceramiche tipiche dell’omonima cultura dell’Eneolitico Medio; da Castellaro Vecchio, invece, provengono le tracce dei più antichi insediamenti neolitici. A questi, si aggiungono i manufatti rinvenuti a Contrada Diana e Spatarella. In tale sezione, per l’Età del Bronzo, sono esposti anche i reperti provenienti dagli insediamenti della cultura di Capo Graziano (Filicudi) e della cultura del Milazzese (Panarea).
Il percorso espositivo della Sezione Preistorica del Museo continua con le testimonianze dell’Ausonio I e dell’Ausonio II, i cui tipi ceramici sembrano analoghi a quelli del Tardo-Appenninico e alla cultura Protovillanoviana della penisola italiana. Infine, il percorso termina con le interessanti offerte votive, rinvenute all’interno del bòthros dedicato a Eolo, risalenti alla fondazione cnidia di Lipàra (580/576 a.C.).
La Sezione Epigrafica del Museo
La Sezione Epigrafica del Museo Archeologico di Lipari trova anch’essa posto nell’ex Palazzo Vescovile, all’interno della Sala X. Questa espone numerosi cippi e stele funerarie di età greca e romana, rinvenuti nell’area archeologica di Contrada Diana. Le iscrizioni recano i nomi dei defunti a cui, alle volte, si aggiungono formule dedicatorie o benauguranti. Il grande numero di reperti ha reso necessario la collocazione delle numerose stele anche nell’attiguo giardino, dove sono accompagnate da numerosi sarcofagi provenienti dalla stessa necropoli.
La Sezione delle Isole Minori
La Sezione delle Isole Minori del Museo Archeologico di Lipari, invece, è ubicata in un piccolo edificio di fronte alla Sezione Preistorica. All’interno delle sue vetrine, trovano posto numerosi reperti, provenienti dai contesti archeologici delle isole minori e databili tra il Neolitico Superiore e il Bronzo Medio. Punto saliente di questo percorso espositivo è la ricostruzione di una capanna dell’Età del Bronzo. Tale riproduzione, che occupa la zona centrale del padiglione dedicato all’Archeologia delle isole minori, è stata possibile mediante lo studio congiunto da parte di archeologi e archeobotanici.
La Sezione Classica del Museo
Sala XIX con ricostruzione della trincea di scavo della necropoli dell’età del Bronzo
La Sezione Classica è, sicuramente, la più corposa e occupa il maggior numero di stanze all’interno del principale edificio novecentesco del Museo. Attraverso i tre piani a essa dedicati, i reperti sono esposti in modo da ricostruire il ricco quadro storico-culturale della città greco-romana. Oltre la Sala XX, in cui sono esemplificati i diversi tipi di sepoltura (sarcofagi e vasi di medie e grosse dimensioni), si segnala la Sala XIX, che propone una fedele ricostruzione della trincea di scavo della necropoli dell’Età del Bronzo, posta al di sotto dell’ex Piazza Monfalcone. Ai piani superiori si trovano esposti i numerosi reperti provenienti dai ricchi corredi funebri, tra i quali figurano le magnifiche maschere, suddivise per epoca e per tipo: si tratta di maschere della commedia e della tragedia greca e romana. Altri spazi espositivi sono dedicati alla collezione numismatica e agli oggetti di oreficeria.
La grande piramide delle anfore del Relitto A Roghi esposta nella sala XXVII
Da ultimo, fa parte della grande Sezione Classica l’ampia sala dedicata all’Archeologia subacquea. In questa sala troviamo esposti i carichi delle navi greche e romane disgraziatamente naufragate nelle acque dell’Arcipelago, nonché materiali di varie epoche, provenienti da discariche portuali in aree d’approdo oggi scomparse. Il visitatore è subito attratto dall’esposizione a piramide delle anfore del Relitto A Roghi di Capo Graziano, che occupa il centro della Sala XXVII. Successivamente, il visitatore prosegue il percorso espositivo attraverso i reperti di diverse epoche, magistralmente esposti in ordine cronologico.
La Sezione Vulcanologica
La Sezione Vulcanologica ha sede in un edificio del XIV secolo, accanto alla Sezione delle Isole Minori, che fu successivamente ampliato nel XVII secolo. La collezione è intitolata al grande vulcanologo Alfred Rittmann e mette in mostra la geomorfologia di origine vulcanica dell’arcipelago eoliano. Il percorso espositivo porta il visitatore ad osservare una serie di campioni geologici – tra cui la famosa ossidiana – e le ricostruzioni plastiche, che hanno lo scopo didattico di metterlo in contatto con gli aspetti produttivi ed economici dei diversi insediamenti umani che si sono succeduti sulle isole.
La Sezione Paleontologia del Quaternario
La Sezione di Paleontologia del Quaternario, infine, occupa attualmente una saletta posta nel settore sud-occidentale del Castello. La collezione prevede una serie di sedimenti e di fossili che dovevano essere presenti sulle diverse isole dell’Arcipelago Eoliano nel corso del Quaternario. Di notevole interesse è un frammento dello scudo di una tartaruga terrestre, inglobato nelle piroclasti di Valle Pera di Lipari e risalente a un periodo temporale compreso fra i 127.000 e i 104.000 anni fa.
Il Parco Archeologico di Contrada Diana si trova a Lipari, nell’area pianeggiante a sud del Vallone Ponte e a nord del Vallone S. Lucia. All’area del Parco appartengono l’ampia zona recintata nei pressi del Palazzo Vescovile, delimitata a sud dall’ex via Diana (ora via G. Marconi), e altre piccole aree archeologiche adiacenti. L’intera area archeologica è stata istituita nel 1971 dalla allora Soprintendenza delle Antichità della Sicilia Orientale. Nel 1987, invece, a seguito della nascita della Soprintendenza dei Beni Culturali a Messina, è diventata patrimonio archeologico della provincia di Messina.
Area del Parco Archeologico di Contrada Diana e Castello di Lipari
Scavi archeologici sistematici sono stati condotti fin dal 1948. Per circa un ventennio, a partire dal 1954, le indagini furono condotte da Luigi Bernabò Brea e Madeleine Cavalier, i quali contribuirono a fondare il Parco e, soprattutto, il Museo Archeologico. L’intera area del Parco conserva memoria di tutta la storia dell’isola e ha restituito testimonianze di età preistorica, greca e romana. Tra queste, di particolare interesse sono la necropoli greco-romana e i resti delle cinte murarie, cui si aggiungono due complessi termali.
La necropoli di Contrada Diana
Il cuore del Parco Archeologico di Contrada Diana è costituito dalla grande necropoli. Primo sito a essere scavato, in oltre sessant’anni di scavo ha restituito quasi 3000 sepolture. Le tombe erano disposte ordinatamente, in filari, e sovrappose su più ordini: le più recenti, infatti, si trovano al di sopra di quelle più antiche. Tutte le sepolture hanno orientamento N-S e ognuna di esse era accompagnata da un corredo interno e da uno esterno. Sono state identificate ben otto tipologie di sepoltura: si tratta, prevalentemente, di sepolture in sarcofagi, più raramente all’interno di anfore defunzionalizzate. Il corredo esterno, prima posto entro un grande vaso, a partire dalla metà del IV secolo a.C. viene inserito all’interno di un involucro di argilla cruda. In età imperiale, dal I al V secolo d.C., oltre al riutilizzo di vecchie sepolture greche le tombe assumono anche forma monumentale con recinti e ipogei familiari.
Il rito funebre era misto e prevedeva sia l’inumazione che l’incinerazione, con una netta prevalenza della prima sulla seconda. I ricchi corredi funebri, conservati all’interno del Museo Archeologico Regionale Eoliano, erano composti di ceramica figurata e non, gioielli e oggetti in metallo, statuette e maschere in terracotta, che riproducono personaggi della commedia e della tragedia greche e romane.
La cinta muraria
Gli scavi archeologici hanno portato alla luce i resti di due cinte murarie, una risalente al periodo della prima fondazione e l’altra al rifacimento della metà del IV secolo a.C. Le mura più antiche sono state rinvenute nel 1954, sotto quella che oggi è piazza Luigi Salvatore d’Austria. Si tratta di mura in opera poligonale, con grandi blocchi di pietra lavica perfettamente sbozzati, costruite con l’intento di proteggere il nucleo abitativo greco, che si estendeva tra la collina della Civita e il Castello.
Ciò che è visibile a Contrada Diana è il rifacimento della prima metà del IV secolo a.C.: si tratta di un tratto lungo 50 m, che evidenzia la presenza di torri quadrate di protezione. La nuova e più ampia cortina si adattava all’espansione dell’abitato greco. Questa seconda tecnica di costruzione prevedeva un riempimento di pietrame compatto, foderato, su entrambe le facce, da blocchi isodomi in pietra proveniente dal Monte Rosa di Lipari.
Con l’arrivo dei Romani, la città greca viene distrutta e obliterata dai resti della rioccupazione di epoca romana. Nella seconda metà del I secolo a.C., i cittadini edificano una nuova parallela linea di fortificazione, che dista 6,50 m dalla precedente: si tratta dell’aggere di Sesto Pompeo, opera dalla forma irregolare, composta di solo pietrame a secco e blocchi di spoglio. Le nuove mura facevano parte delle fortificazioni volute da Sesto Pompeo in occasione della guerra civile del 36 a.C. contro Ottaviano. Le mura, così come la necropoli, sono impiantate in un’area che era stata sede del villaggio preistorico, afferente alla cultura di Capo Graziano: esse, infatti, tagliano i resti di antiche capanne a pianta ovale, costruite con la tecnica del muro a secco.
I complessi termali
A tutto questo si aggiungono i complessi termali di via Mons. Bernardino Re e di via Franza. Il primo si trova quasi di fronte al Palazzo Vescovile e mostra resti di ambienti a carattere pubblico, con mosaici pavimentali e canalette di scarico, databili all’età imperiale. Sono ben visibili, inoltre, i resti di una vasca a ferro di cavallo, il frigidarium, e alcuni spazi adiacenti interpretati come tepidarium e calidarium. In via Franza, incastonato in quello che gli studiosi interpretano come un quartiere lavorativo, vi è un più modesto edificio termale. Questo, risulta essere composto da tre vani, dotati di pavimento in cocciopesto, uno dei quali, per la presenza delle caratteristiche colonnine in mattonelle sotto il piano pavimentale, è stato riconosciuto come calidarium. Questo secondo edificio termale risale alla tarda età imperiale.
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