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ATTUALITÀ | Brusca “U Scannacristiani”: torna libero uno dei più spietati killer di Cosa Nostra

«Ho ucciso Giovanni Falcone. Ma non era la prima volta (ndr. che uccidevo così): avevo già adoperato l’auto bomba per uccidere il giudice Rocco Chinnici e gli uomini della sua scorta. Sono responsabile del sequestro e della morte del piccolo Giuseppe Di Matteo, che aveva tredici anni quando fu rapito e quindici quando fu ammazzato. Ho commesso e ordinato personalmente oltre centocinquanta delitti. Ancora oggi non riesco a ricordare tutti, uno per uno, i nomi di quelli che ho ucciso. Molti più di cento, di sicuro meno di duecento». Con questa dichiarazione dal libro Ho ucciso Giovanni Falcone, di Saverio Lodato, Giovanni Brusca presenta se stesso.

Giovanni Brusca
La “guerra” contro lo Stato Italiano

Capo del mandamento di San Giuseppe Jato ed esponente dei Corleonesi, Brusca è stato uno dei membri più attivi, a livello delittuoso, di Cosa Nostra. Già a 19 anni, Giovanni Brusca entrò nella cosca del padre per diventare, in breve tempo, uno dei più spietati killer al servizio di Totò Riina. Questa sua indole particolarmente feroce gli valse i soprannomi di Scannacristiani e u Verru (“il porco”); lui stesso, in una dichiarazione in relazione all’elevato numero di omicidi, si definì «un animale». Nel 1977 prese parte all’omicidio del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo; nel 1983 si occupò di preparare l’autobomba che uccise il giudice Rocco Chinnici e nello stesso anno uccise il capitano dei carabinieri Mario d’Aleo, in un agguato in cui rimasero coinvolti anche i colleghi Giuseppe Bommarito e Pietro Morici.

Uccisione di Rocco Chinnici, 23 luglio 1983

Nonostante il soggiorno obbligato a Linosa, a seguito di mandato per associazione mafiosa dopo le dichiarazioni di Buscetta, Brusca diventò latitante e nel 1991 riprese in mano le redini della “Famiglia” di San Giuseppe Jato. Di lì a breve, nel 1992, sarebbe diventato una figura chiave nella guerra che la mafia stava facendo allo Stato. Brusca si dedicò, così, all’attentato omicida che avrebbe scosso profondamente la legalità italiana: la strage di Capaci. Infatti, fu proprio Brusca a organizzare l’attentato dinamitardo e, soprattutto, ad azionare il radiocomando responsabile dell’esplosione in cui morirono Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta. Brusca continuò, così, la strategia degli attentati dinamitardi, insieme ai boss Leoluca Bagarella, Matteo Messina Denaro e ai fratelli Filippo e Giuseppe Graviano. Nell’estate del ’93, diversi attentati colpirono alcune città italiane, tra cui Roma, Firenze e Milano, provocando una decina di morti e più di cento feriti.

Una vita di vendette e violenza

Giovanni Brusca è noto anche per aver intrapreso diverse spedizioni punitive nei confronti di coloro che, in seno a Cosa Nostra, diventavano collaboratori di giustizia o si sottraevano al volere della “Famiglia”. Fu il caso di Vincenzo Milazzo, capo della “famiglia” di Alcamo che si era opposto al volere di Riina, ucciso da Brusca per aver detto no, tra le altre cose, alla strage di Via d’Amelio. Pochi mesi dopo anche la sua compagna, Antonella Bonomo, venne barbaramente strangolata mentre era incinta di tre mesi.

Ma la spedizione punitiva più clamorosa e discussa fu, sicuramente, quella nei confronti di Santino Di Matteo, ex mafioso, pentito e collaboratore di giustizia. Il 23 novembre 1993, Giovanni Brusca ordinò il rapimento del figlio, Giuseppe di Matteo, che aveva solo 12 anni, nel tentativo di far cessare la collaborazione di Santino con la giustizia.

Il piccolo Giuseppe di Matteo

«Tappaci la bocca» aveva scritto in un biglietto recapitato alla moglie di Santino, che avrebbe denunciato la scomparsa del figlio solo a metà dicembre. Per tutto il 1994 Giuseppe venne trasferito da un posto a un altro fino a quanto, nell’estate del ’95 venne rinchiuso in un vano sotto al pavimento in un casolare-bunker nei pressi di San Giuseppe Jato. Nel frattempo, Brusca latitante era stato condannato all’ergastolo e Santino Di Matteo aveva deciso di continuare la collaborazione di giustizia. Il piccolo Giuseppe era rimasto rinchiuso per 180 giorni, fino a quando Giovanni Brusca, insieme al fratello Enzo e a Monticciolo, lo strangolarono prima di scioglierlo nell’acido. I dettagli agghiaccianti dell’uccisione sono stati resi noti dallo stesso Giovanni in occasione dell’udienza del 28 luglio 1998. «Mi dispiace», aveva detto Monticciolo al piccolo mentre lo uccideva «tuo papà ha fatto il cornuto».

L’arresto e la scarcerazione

Nel ’96, alcuni sui stretti collaboratori, tra cui Monticciolo, vennero arrestati e decisero di collaborare per l’individuazione dello stesso Brusca ancora latitante. Venne così individuato il casolare-bunker dell’uccisione del piccolo Di Matteo, in cui era presente un vero e proprio arsenale. Il 20 maggio del 1996, Giovanni Brusca venne arrestato in una frazione di Agrigento.

Arresto di Giovanni Brusca (Immagine via Palermo Today)

Già nel giugno dello stesso anno gli viene riconosciuto lo status di collaboratore di giustizia. E così, in virtù di una legge voluta, tra gli altri dallo stesso Falcone, la pena viene notevolmente ridotta. Dall’ergastolo iniziale, la sentenza prevede che Brusca debba scontare 25 anni. Così, il 31 maggio 2021 Brusca, dopo soli 25 anni in carcere, è tornato in libertà per aver scontato la sua pena. Rimarrà, adesso, sottoposto a libertà vigilata per ulteriori quattro anni, secondo quanto stabilito dalla Corte d’Appello di Milano.

L’indignazione dei parenti delle vittime

L’indignazione per la notizia della scarcerazione è stata tanta. La sorella di Falcone, Maria, ha dichiarato: «Umanamente è una notizia che mi addolora, ma questa è la legge, una legge che peraltro ha voluto mio fratello e quindi va rispettata. Mi auguro solo che magistratura e le forze dell’ordine vigilino con estrema attenzione in modo da scongiurare il pericolo che torni a delinquere, visto che stiamo parlando di un soggetto che ha avuto un percorso di collaborazione con la giustizia assai tortuoso. A restare in carcere devono essere i boss che non collaborano. Ogni altro commento mi pare del tutto inopportuno».

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Maria Falcone

Sebbene, quindi, l’iter legislativo abbia fatto il suo corso, il malcontento generale si fa sentire, in virtù anche del fatto che Brusca non si sia dimostrato sempre chiaro e diretto nelle sue collaborazioni. E rimane, innegabilmente, la rabbia per le atrocità commesse, imperdonabili.

Le parole dure della famiglia del piccolo Giuseppe di Matteo

In questi giorni, la madre di Giuseppe di Matteo ha infatti dichiarato: «Rispettiamo le leggi e le sentenze dello Stato. Ma Giovanni Brusca non potrò mai perdonarlo. Mi ha ucciso il figlio che conosceva bene e con cui ha giocato a casa. Nel mio cuore come posso perdonarlo?». Ma è il padre, Santino di Matteo, che, con tutt’altro carattere, ha apertamente minacciato Brusca: «Sciolse mio figlio nell’acido, se lo trovo per strada non so che succede. Non trovo le parole per spiegare l’amarezza, lo Stato si è fatto fregare».

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Santino Di Matteo

Santino Di Matteo continua a prendere parte a processi come collaboratore di giustizia: «Io vado per dire quello che so. Ma a che cosa serve se poi lo stesso Stato si lascia fregare da un imbroglione, da un depistatore? La legge non può essere uguale per questa gente. Brusca non merita niente. Oltre a mio figlio, ha pure ucciso una ragazza di 23 anni, incinta, Antonella Bonomo, dopo aver strangolato il fidanzato. Strangolata, senza motivo, senza che sapesse niente di affari e cosacce loro. Questa gente non fa parte dell’umanità». Si rammarica Santino per la libertà ottenuta da un uomo che, a parere di molti, non avrebbe mai dovuto lasciare il carcere.

Il deputato Francesco D’Uva, espressosi in merito alla vicenda, si augura che le cose cambino perché «La magistratura ha fatto la sua parte applicando la legge. Un conto, però, è concedere sconti di pena con chi collabora con la giustizia. Diverso è far uscire, dopo 25 anni, chi ha sciolto nell’acido un bambino e ha materialmente fatto saltare in aria un’autostrada uccidendo Falcone, la moglie Francesca e la sua scorta». D’Uva ha inoltre dichiarato: «Allo Stato tocca vigilare attentamente su chi, oggi, riacquista la libertà e valutare una riforma complessiva sull’entità delle pene e sui benefici per i reati mafiosi».

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Francesco D’Uva