Nel pieno delle guerra civile siriana, l’avanzata islamica si abbatteva anche sui siti archeologici, seminando morte e distruzione della memoria storica. Il 21 maggio 2015 l’ISIS (l’auto-proclamato Stato Islamico) dichiara la cattura della città Palmira e del suo sito archeologico.
La distruzione della Sposa del Deserto
Nei primi mesi del 2015, la Siria vede l’avanzata dello Stato Islamico pronto a conquistare e distruggere quanto riusciva a trovare sulla sua strada. Il 21 maggio 2015 l’ISIS arriva, così, a Palmira, la Sposa del Deserto, città siriana ricca di cultura e memoria storica
Importante snodo carovaniero, dal 19 d.C. Palmira diventava provincia romana. La città raggiunse infatti il suo momento di massima importanza commerciale tra il I e il III sec. d.C., divenendo, seppur per breve tempo, capitale del Regno Indipendente di Palmira, durante il governo della regina Zenobia (seconda metà del III sec. d.C.). Dal IV secolo iniziarono via via a diradarsi le notizie sulla città. Nel 634, Palmira venne conquistata dagli arabi di Khalid ibn al-Walid, detto “la spada dell’Islam”.
Quando, nel maggio del 2015, lo stato islamico occupava la città, lo faceva con tutte le intenzioni di depredare e distruggere il più possibile la storia e la cultura della città. Già il 23 maggio 2015, lo Stato Islamico operava la distruzione della statua colossale del Leone di Al-lāt, proveniente dall’omonimo tempio dedicato alla divinità pre-islamica. Nei mesi seguenti, tra violente lotte e riconquiste da parte del popolo siriano, l’ISIS distruggerà un gran numero di luoghi storici: tra gli altri, il tempio di Baal Shamin (I se. d.C.), il tempio di Baal (I sec. d.C.), l’Arco monumentale di Settimio Severo, il Museo di Palmira e il Teatro Romano.
La morte della memoria
Prima dell’arrivo dei miliziani dello Stato Islamico, l’archeologo siriano Khaled al-Asaad, aveva nascosto diversi reperti, i tesori romani di Palmira, per sottrarli alla barbarie jihadista. A 82 anni era stato catturato e torturato per quattro settimane di fila, con lo scopo di ottenere informazioni sul nascondiglio dei reperti. La sua morte avvenne per decapitazione proprio in uno dei luoghi della memoria di cui al-Asaad era stato direttore e custode, l’anfiteatro Romano, profanato dalla barbarie dello Stato Islamico. Questo luogo era stato scelto dai miliziani dell’ISIS come luogo delle pubbliche esecuzioni. Un forte messaggio da parte degli jihadisti, il massimo sfregio alla cultura e alla storia, la distruzione della memoria del passato: di fronte allo Stato Islamico, neppure la storia si sarebbe salvata.
(Immagine di copertina via ISPI, Istituto per Studi di Politica Internazionale)
Per il prof. Stefano Vittori le lingue antiche non hanno segreti e, soprattutto, sono più attuali che mai. Il suo amore per il latino, il greco, l’antico egiziano, fa sì che queste lingue rinascano sotto nuove forme, divenendo contemporanee e divertenti! In un’intervista alla nostra redazione, Stefano Vittori ci racconta del suo amore per le lingue antiche e di come siano diventate la sua quotidianità e si siano trasformate in qualcosa di inaspettato.
Una vita da linguista
La lingua latina antica, lingua dell’Impero Romano e degli antenati d’Italia, nell’immaginario collettivo è considerata, a torto, una lingua morta, che si è evoluta nel corso dei secoli per lasciare il posto al volgare e all’italiano. L’italiano contemporaneo, però, deriva proprio dal latino popolare ed è una lingua ricca di contaminazioni linguistiche avvenute grazie ai contatti con i molteplici popoli che si sono succeduti sul territorio peninsulare nel corso dei secoli.
Ma il latino è una lingua morta? Non per il prof. Vittori! Lavorare all’assottigliamento del distacco tra la lingua latina dell’antica Roma e l’italiano contemporaneo è tra le attività di Stefano Vittori, docente, oltre che di italiano, greco e geostoria, proprio di latino. Il prof. Vittori è, a tutti gli effetti, un linguista che, nel corso del suo percorso accademico, si è rapportato con un panorama linguistico abbastanza ampio: dalle lingue indoeuropee, con una laurea in lettere classiche e una tesi sulla metrica latina, al dottorato in Egittologia, con una tesi in linguistica storica.
“Per quello che sento io, – dichiara il prof. Vittori, – appartengo a entrambi i mondi. Non sento divisi i due territori”.
L’incontro con Marina Garanin
Alla domanda su quale sia la lingua che più gli appartiene, Stefano risponde: “Da quando ho potuto conoscere il latino, essa è diventata la lingua più adatta a vestire il mio pensiero“.
Il latino, tuttavia, per lui è anche la lingua d’uso con la sua compagna, Marina Garanin, dottoranda in lingua latina presso l’università di Heidelberg. “Con Marina non parliamo in latino per una qualche pretesa snob. C’è una rete internazionale di latinofoni, molto presente sui social, in cui ci sono le nostre amicizie comuni: noi ci siamo conosciuti lì, e lì abbiamo iniziato a scriverci nella lingua che ci aveva fatto conoscere: il latino. Semplicemente ci verrebbe meno naturale parlare tra di noi in altre lingue”.
Il latino fa tendenza!
Come molti in questa rete internazionale, anche Stefano e Marina operano nell’ambito della divulgazione della lingua latina, in un modo tutto innovativo, che coniuga antichità e cultura con le nuove tecnologie. Attraverso i loro canali social (rispettivamente con i nomi di Rumake Musa Pedestris su Youtube e Instagram), il latino è a portata di click! Ma com’è nata la decisione di iniziare un percorso social per la divulgazione della lingua latina?
“Per quanto riguarda il parlare in latino è stato Luke Ranieri, mio amico dal 2006, il quale da molto tempo ha un canale Youtube seguitissimo (ScorpioMartianus). Ci eravamo conosciuti, ai tempi, attraverso un forum in cui si faceva pratica di conversazione in latino. Qualche anno fa, attraverso i social, Luke mi scriveva nuovamente invitandomi a partecipare ai suoi acroamata, podcast in latino sulla fonologia storica. Tutto l’elemento parlato e di recitazione delle opere latine è nato dal riallacciamento dell’amicizia con Luke e dall’incontro con Marina”.
L’unione con il mondo Disney… e non solo!
Ma, oltre a dialoghi contemporanei e recitazioni di opere antiche, l’attività social si arricchisce anche di una sezione del tutto particolare: traduzioni e riadattamenti di canzoni di film d’animazione!
“Il tutto è nato durante un’ora di supplenza, in cui di fatto stai lì a fare la guardia! Stavo lì seduto, mentre i ragazzi chiacchieravano tra loro e non sapevo che fare. E mi viene in mente la canzone di Scar Sarò Re, da Il re leone. Guarda che anapesti che ha questa canzone!, mi sono detto, Quasi quasi la rendo in latino. Ora, perché proprio la Disney? Tutto in realtà parte dalla metrica. Nella canzone di Scar ci sono questi anapesti (ndr. in metrica classica, è il piede composto da due sillabe brevi e una lunga) bellissimi. Forse per le canzoni dei film d’animazione, essendo destinate ad un pubblico meno adulto, c’è necessità di una musicalità più chiara, più distinta… Sta di fatto che la metrica delle canzoni Disney si adatta molto bene alla metrica dei piedi classici”.
“E contemporaneamente, -continua Stefano -, è partita la fantasia su come fosse caratterialmente Scar calato nella civiltà romana. Scar è chiaramente un epicureo e quindi quale poteva essere il latino adoperato da Scar in questo testo? È un latino tutto improntato sul modello del De Rerum Natura di Lucrezio o, quantomeno, con un bel po’ di influenze lucreziane. Si tratta di un personaggio che manifesta un certo snobbismo, quindi ho pensato che doveva essere un latino lucreziano, arcaizzante, molto elevato. E quindi così, durante l’ora di supplenza, ho iniziato a pensare ai primi versi, completati nei giorni successivi. Ho contattato Luke per proporgli di cantarla e ne è stato subito entusiasta. È nata così Duce mē. Visto il discreto successo, siamo andati avanti con altre canzoni come L’amore è nell’aria stasera (Nocte amica amantibus), sempre da Il Re Leone, Fiamme dell’Inferno (In Igni) da Il Gobbo di Notre-Dame, Principe Alì (Triumphus Aladdini) da Aladdin, Tranquilla! (Et nil est) da Oceania o, anche, La Canzone di Sally (Regillae Carmen) e Questo è Halloween (Mundus Pateat) da Nightmare Before Christmas”.
Le difficoltà di traduzione
Il lavoro di traduzione di un testo contemporaneo in una lingua antica, mostra, tuttavia, alcuni ostacoli. Stefano ci parla di quello che, inizialmente, può essere il più rilevante:
“Alcune canzoni vogliono, per come le sento io, una traduzione, come nel caso di Scar e il latino lucreziano. Si va a tradurre il personaggio, non il pezzo. Il pezzo sarà semplicemente una conseguenza, una traduzione delle sue parole come le penserebbe un parlante latino che viva nell’epoca, e che abbia il carattere, che più si adatta a quel personaggio. Frollo, ad esempio, un prelato, parla un latino medievale di registro alto”.
“Quando invece percepisco che il testo possa essere più propenso all’adattamento di un testo antico, – continua Stefano, – cerco nella mia mente il testo antico più adatto ad esprimere le sensazioni del testo contemporaneo a cui sto lavorando, chiedendomi quale testo antico avrebbe potuto dare al fruitore antico la stessa sensazione che dà a me il testo contemporaneo in questione. È proprio la canzone che te lo dice se è meglio tradurla o se è meglio adattare un testo antico a quella canzone”. Ed è questo il caso del riadattamento di Wellerman a cui Stefano ha pensato di abbinare il testo de Il racconto del naufrago, un testo letterario dell’Antico Egitto datato al Medio Regno.
Stefano, inoltre, ha sempre in cantiere nuovi progetti linguistici, dalle traduzioni e riadattamenti delle canzoni, anche contemporanee come appunto Wellerman o anche My Bonnie lies over the ocean, alle dirette in cui conversa sul conflitto in Ucraina in latino. Insieme a Marina, di recente, ha dato vita a una serie di video-lezioni di egiziano antico, AegyptianUS, in latino!
Le lingue antiche, nel mondo proposto dal prof. Vittori, sono dunque tutt’altro che morte: sono portatrici di memi (atteggiamenti antropologici, filosofici, esistenziali) cui il mondo attuale è estremamente ricettivo, forse anche più che in passato. E lo vedremo ancora meglio, ci anticipa il professore, nei progetti futuri attualmente in lavorazione, in uscita sui canali social!
La missione archeologica egiziana, operante nel cimitero degli Animali Sacri nell’area della necropoli di Saqqara, ha riportato alla luce il primo e più grande deposito del sito risalente al periodo tardo. Il deposito comprende 150 statuette bronzee di divinità e circa 250 sarcofagi lignei dipinti.
Le 150 statue bronzee
Il dott. Mustafa Waziri, Segretario Generale del Consiglio Supremo delle Antichità e capo della missione, ha affermato che il deposito scoperto include appunto 150 statue bronzee di varie dimensioni. Le statuette rappresenterebbero diverse divinità antico-egiziane, tra cui Anubi, Amon-Min, Osiri, Iside, Nefertum, Bastet e Hathor.
Insieme alle statuette, sono stati rinvenuti un gruppo di vasi in bronzo legati ai rituali della dea Iside euna statua in bronzo, acefala, dell’ingegnere Imhotep, che si distingue per l’ottima qualità dell’esecuzione.
I sarcofagi dipinti
I ricercatori egiziani, alla quarta missione nell’area, hanno individuato un nuovo gruppo di pozzi funerari. Da questi, sono stati riportati alla luce circa 250 sarcofagi in legno colorato del periodo tardo (VII-IV sec. a.C.), risalenti al 500 a.C. circa. I sarcofagi presentano al loro interno delle mummie in buono stato di conservazione. Sono stati rinvenuti, inoltre, anche amuleti, scatole di legno dipinte e statue lignee, alcune delle quali con il volto dorato. Dallo scavo di uno dei pozzi funerari è stato rinvenuto, inoltre, un sarcofago in buono stato di conservazione che sembrerebbe contenere capitoli del Libro dei Morti, prontamente trasferito nei laboratori di restauro del Museo Egizio di Piazza Tahrir, al Cairo.
L’indagine dell’area
La missione archeologica egiziana ha iniziato suoi lavori nell’area nel 2018. Era state rinvenute la sepoltura di un sacerdote della V Dinastia e, anche, sette tombe rupestri, quattro dell’Antico Regno e tre del Nuovo Regno. Questa stessa indagine, inoltre, aveva recuperato oltre un migliaio di amuleti di maiolica, decine di statue lignee di gatti e gatti mummificati.
Nel 2020, poi, la missione aveva già ritrovato oltre 100 sarcofagi ancora sigillati e in perfetto stato di conservazione, risalenti al Periodo Tardo e Periodo Tolemaico. Questa scoperta era stata corredata anche dal ritrovamento di circa 40 statue della divinità della necropoli di Saqqara Ptah-Sokar, che presentavano parti dorate, e 20 scatole lignee del dio Horus.
Sabato 14 maggio, in occasione della “Notte Europea dei Musei”, i luoghi della cultura siciliani rimarranno aperti con l’ingresso simbolico di 1€. Una nuova straordinaria opportunità di visitare i beni culturali siciliani! La Regione Siciliana, su indicazione dell’Assessore dei Beni culturali e dell’Identità siciliana, Alberto Samonà, ha aderito alla Notte Europea dei Musei, l’appuntamento annuale che si svolge contemporaneamente nei musei di tutt’Europa.
A partire dalle 19 e fino alle 23 (in alcuni siti alle 24) sarà possibile visitare, quindi, i principali musei regionali della Sicilia, molti dei quali, per l’occasione, proporranno visite guidate e allestimenti particolari.
La Notte dei Musei promuove la cultura e invita, soprattutto le famiglie, ad avvicinarsi all’arte e coltivare la bellezza. Occasioni come la notte europea e le prime domeniche del mese con ingresso gratuito, costituiscono un forte incentivo alla conoscenza del nostro ricchissimo patrimonio di opere d’arte. Avvicinarsi ai luoghi della Cultura, scoprendo la storia della nostra Isola e di coloro che la abitarono, portare anche i più piccoli al Museo, è il modo migliore per conoscere la Sicilia, la sua identità, la sua dimensione universale. È il modo migliore per tornare a essere consapevoli della nostra Sicilia, una Terra unica al mondo, nonostante le tante, troppe, ferite subite.
Per celebrare la serata, molti dei musei siciliani hanno programmato iniziative speciali. Per una maggiore certezza dell’orario di apertura e delle proposte di visita è sempre consigliabile consultare le pagine web o Fb delle singole strutture museali.
Gli eventi in programma nell’isola
In particolare si segnalano:
AGRIGENTO – Il Museo archeologico Griffo di Agrigento sarà aperto dalle 19 alle 22 con il seguente programma: alle 19 nel giardino del Museo concerto della U.S. Naval Forces Europe and Africa Band; alle 20 e alle 20.45 visita guidata all’itinerario tematico “L’etica della guerra nel mondo greco antico”, alle 20.30 e alle 21.45 nella Sala Zeus Gaetano Aronica legge “Omero, Iliade” di Alessandro Baricco.
CATANIA – In provincia di Catania aperti dalle 20 alle 22: il Museo di Adrano e le Mura Dionigiane. Il Museo della Ceramica di Caltagirone sarà visitabile dalle 18.30 alle 21.00.
ENNA – Il Parco archeologico di Piazza Armerina e della Villa Romana del Casale propone la visita della Villa Romana, del Museo di Palazzo Trigona ad Aidone e del Museo Regionale di Aidone. Inoltre, alle Terme della Villa del Casale alle 21.00 si terrà una conversazione per illustrare il mosaico pavimentale del Tepidarium con resti di scena di ludi, tra cui la corsa con le fiaccole. La conversazione sarà tenuta dal Prof. Paolo Barresi dell’Università Kore di Enna e dal Dott. Rosario Patanè, responsabile delle attività di valorizzazione del Parco archeologico.
MESSINA – Al MuMe – Museo Interdisciplinare di Messina (apertura dalle 20 alle 24) sarà allestita una piccola sezione espositiva e didascalica del culto mariano della Lettera, patrona di Messina, la cui festività ricorre il 3 giugno. Alle opere già esposte nel circuito museale del primo piano si aggiungerà una trascrizione in cinese del XVII secolo della lettera della Madonna ai messinesi (42 d.C.) e alcune opere artistiche tra cui due Cartagloria del XVII secolo in argento bulinato e sbalzato. Durante la serata le guide turistiche della provincia di Messina effettueranno visite guidate approfondite con gratuità per i giovani fino a 18 anni di età.
Sempre in provincia di Messina aperto (dalle 20 alle 24) il Parco archeologico di Tindari dove sarà possibile visitare: l’Antiquarium di Milazzo e la possibilità di visitare la cittadella fortificata, a Tusa l’area archeologica di Halaesa Arconidea limitatamente all’Antiquarium, al Lapidariume alla Chiesa di Santa Maria delle Palate. A Patti negli stessi orari aperta l’area archeologica e l’Antiquarium di Tindari e la Villa romana. A Capo d’Orlando ingresso libero dalle 20 alle 24 per l’area archeologica di Bagnoli.
A Taormina, dalle 20 alle 23 sarà aperto il Teatro Antico e a Giardini Naxos apertura, sempre dalle 20 alle 23, per il Museo Archeologico.
Nell’Isola di Lipari il Museo archeologico Eoliano Bernabò Brea resterà aperto alle visite dalle 20 alle 23.
PALERMO – Al Museo di Arte Moderna di Palazzo Riso (chiusura alle ore 24.00, ultimo ingresso ore 23.30) è l’ultimo giorno utile per visitare “Seductions”, la mostra del fotografo tedesco Uli Weber a cura di Daniela Brignone. Al Museo archeologico regionaleA. Salinas apertura fino a mezzanotte. Con un sovrapprezzo è possibile prenotare la visita guidata alla collezione del Museo e alla statua di Athena, proveniente dal museo dell’Acropoli di Atene, e gustare un calice di vino. Al Museo Regionale di Palazzo Abatellis apertura dalle 20 alle 24: Notturno a Palazzo Abatellis “Umanità del MedioEvo nel Trionfo della Morte” e “Umanità del Rinascimento in Laurana e Gagini”.
RAGUSA – Aperto dalle19 alle 22 il Convento della Croce a Scicli.
SIRACUSA – Alla Galleria regionale di Palazzo Bellomo in mostra “Le figure del presepe” in collaborazione con il Liceo artistico Gagini di Siracusa. Aperti anche l’Ipogeo di Piazza Duomo (dalle 20 alle 24) e il Museo Archeologico Paolo Orsi (dalle 19 alle 23). Aperto anche il Castello Maniace (dalle 20 alle 24) dove, nella Sala Ipostila, si potrà ammirare la mostra “Passi” di Alfredo Pirri.
A Palazzolo Acreide dalle 19 alle 23 si può visitare Palazzo Cappellani. A Lentini, dalle 16 alle 22, visitabile con un euro l’area archeologica di Monte San Basilio – San Mauro e il Parco archeologico di Leontinoi che resterà aperto fino alle 22.00.
TRAPANI – L’area monumentale del Parco archeologico di Selinunte resta aperta dalle 19 alle 24. Stesso orario per il Museo del Satiro che si trova nella nella chiesa di S. Egidio a Mazara del Vallo. Al Parco archeologico di Segesta apertura straordinaria dalle 20.00 alle 24.00. A Marsala restano aperti 19.30 alle 22.30 il Parco archeologico Lilibeo e il Museo archeologico di Baglio Anselmi.
Il 12 Gennaio del 1848 Palermo si sveglia diversa, con la voglia, caratteristica del popolo siciliano, di sottrarsi al dominio straniero e tirannico. Così la città di Palermo, quella mattina, vede una folla di gente in rivolta contro la dominazione napoletana, contro le truppe regie di Ferdinando II. L’obiettivo era quello di proclamare il Nuovo Regno di Sicilia, indipendente e autonomo dal potere borbonico.
Il 12 Gennaio 1848, l’epoca gloriosa della universale rigenerazione
Nei giorni che precedevano i moti, diversi manifesti circolavano sui muri di Palermo, chiamando a gran voce i cittadini all’insurrezione. In uno dei manifesti, riportato interamente in un’opera del 1863 di Felice Venosta, si poteva leggere:
Siciliani! Il tempo delle preghiere inutilmente passò, inutili le proteste, le suppliche, le pacifiche dimostrazioni. Ferdinando tutto ha spezzato. E noi popolo nato libero, ridotto fra catene e nella miseria, ardiremo ancora a riconquistare i legittimi diritti. All’armi figli della Sicilia! La forza dei popoli è onnipossente: l’unirsi dei popoli è la caduta dei re. Il giorno 12 gennaio, all’alba, segnerà l’epoca gloriosa della universale rigenerazione. […] Chi sarà mancante di mezzi ne sarà provveduto. Con questi principi il cielo seconderà la giustissima impresa. Sicilia, all’armi!
Con queste parole, i palermitani, organizzavano la rivolta proprio nel giorno del compleanno di Ferdinando II di Borbone, nato a Palermo proprio il 12 Gennaio 1910. L’insurrezione era capeggiata dal mazziniano Rosolino Pilo e promossa insieme a Giuseppe La Masa.
La sera stessa del 12 gennaio veniva istituito un “Comitato provvisorio” che chiedeva il recupero della Costituzione del 1812, incentrata sui principi della democrazia rappresentativa e sulla centralità del Parlamento. Nel frattempo, il 15 Gennaio, sbarcavano a Palermo i rinforzi borbonici che bombardarono le strade piene di rivoltosi. Il 22 gennaio Ferdinando II negava le richieste siciliane. Il 23 gennaio, il Comitato provvisorio si trasformava nel nuovo “Comitato Generale”, avente come presidente Ruggero Settimo e come segretario il patriota Mariano Stabile. Lo stesso 23 gennaio il “Comitato generale” dichiarava decaduta la monarchia borbonica. Il 25 gennaio 1848 le truppe borboniche evacuavano il Palazzo Reale.
La Sicilia insorge
Palermo era stata la prima di molte città a ribellarsi. Di lì a poco, nel giro di qualche mese, molte altre città del Regno borbonico ne seguirono l’esempio. Il 22 gennaio anche Girgenti (Agrigento) intraprende la via della rivolta seguito, il 29 gennaio, da Catania, Messina e Caltanissetta nella stessa giornata. Il 30 gennaio è il turno di Trapani e il 4 febbraio quello di Noto.
Il primo Governo del Nuovo Regno venne presentato il 27 marzo, con la nomina dei ministri: figure liberali come Mariano Stabile, il barone Pietro Riso, lo storico Michele Amari, il principe di Butera Pietro Lanza e il futuro primo ministro del neonato regno italiano Francesco Crispi.
Già nel settembre dello stesso anno, però, l’esercito borbonico riconquista Messina. Da qui, l’Esercito delle Due Sicilie si mosse per la riconquista del resto dell’isola.
L’assedio di Messina
Il 1° Settembre del 1487 già la città di Messina aveva manifestato comportamenti rivoltosi nei confronti dei Borbone. Quell’insurrezione improvvisata era stata sedata nel giro di poche ore. Ma era bastata a scatenare una scintilla rivoluzionaria tra i messinesi, e non solo, al punto di ricordarla in una lapide commemorativa, posta oggi proprio in via I Settembre.
Nel 1848 erano riprese le rivolte, stavolta più dure e, soprattutto, durevoli. Tuttavia, lo sforzo messinese, perpetrato per mesi non fu sufficiente. Il dominio borbonico, scacciato con le rivolte da tutta la Sicilia, manteneva infatti un suo presidio nella Cittadella di Messina, ben difesa e ben equipaggiata per la riconquista dei territori (contava infatti circa 300 cannoni).
L’esercito borbonico sbarcò a Messina il 3 settembre 1848, guidato dal tenente Carlo Filangieri, principe di Satriano. Un esercito composto da circa 24.500 uomini si scagliò sulla cittàadoperando un totale di 450 cannoni. I bombardamenti colpirono tanto i rivoltosi (che potevano contare su un corpo armato di soli 6.000 uomini) quanto i civili, distruggendo e radendo al suolo interi quartieri. Nel frattempo, sul fronte sud di Messina, Filangieri guidava un ulteriore bombardamento navale. Il bombardamento di Messina, durato per cinque giorni ininterrotti, fece storcere il naso all’Europa intera che guardò ancora con più astio Ferdinando II che, con quell’attacco, ottenne il soprannome di “re bomba”.
Messina, in quei giorni di settembre 1848, cadeva sotto il peso e la crudeltà dell’esercito borbonico. Le forze siciliane chiedevano così la tregua, concessa il 18 settembre.
Nei primi mesi del 1849 anche Catania capitolava sotto la pressione dell’esercito borbonico. Palermo, invece, cadde il 14 maggio 1849 e con essa caddero, per il momento, anche le speranze di uno stato siciliano indipendente.
La “Primavera dei Popoli”
Palermo era stata, inoltre, la città a ispirare moti rivoluzionari in tutta Europa, dando il via alla cosiddetta “Primavera dei Popoli”, periodo in cui la borghesia europea decideva di ribellarsi. Napoli seguì l’esempio palermitano già il 27 gennaio 1848; a Parigi tra il 22 e il 24 marzo dello stesso anno Luigi Filippo fu costretto ad abdicare, favorendo così la nascita della “Quarta Repubblica francese”; anche Berlino ebbe i suoi moti rivoluzionari proprio a Marzo. E, ancora, tra il 18 e il 24 marzo anche Milano si ribellò agli austriaci. Una stagione rivoluzionaria che si conclude con l’insorgere della stessa Roma, con la nascita della “Repubblica Romana”.
Il popolo palermitano aveva, nel suo piccolo, dato il via ai moti rivoluzionari del ’48, necessari per la futura spinta rivoluzionaria europea. Fu l’inizio del Risorgimento.
Giovedì 25, alle ore 17, presso il foyer del Palacultura “Antonello da Messina”, patrocinata dal Comune di Messina – Assessorato alla Cultura, prenderà il via la mostra La Divina Commedia in punta di penna dell’artista Giovanni Guglielmo.
L’inaugurazione, alla presenza dell’Assessore alla Cultura Enzo Caruso, sarà inoltre preceduta dagli interventi della dott.ssa Silvia Freiles e dell’autore Giovanni Guglielmo nella Sala Palumbo del Palacultura.
La mostra che celebra Dante
La mostra, aperta al pubblico fino a venerdì 10 dicembre, è quindi inserita nel contesto delle celebrazioni del 700° Anniversario della morte di Dante. Questa si snoda in una avvincente lettura grafica della Divina Commedia, con 70 tavole grafiche a china, che con tratto e stile originale, illustrano i 100 canti dell’opera ed è completata da un grande polittico ad olio su tela, raffigurante Inferno, Paradiso e Purgatorio.
L’esposizione dei disegni sarà ospitata presso il Foyer del Palacultura e sarà visitabile da lunedì al venerdì dalle 9 alle 13, il martedì ed il giovedì dalle 15 alle 17 e il sabato e la domenica dalle 18 alle 20 (8 dicembre chiuso).
<<In un mondo globalizzato, dove l’immagine predomina sulla lettura – dichiara l’Assessore Caruso – questa mostra cattura la curiosità e suscita emozioni, che stimolano all’approfondimento del testo dantesco. Mi auguro che gli studenti, guidati dai loro insegnanti, colgano questa straordinaria opportunità offerta alla collettività dall’estro del M° Giovanni Guglielmo>>.
Le parole dell’artista
Come ha raccontato l’artista Giovanni Guglielmo “l’idea è nata in una giornata dell’aprile 2020, quando, chiuso in casa, non potevo nemmeno raggiungere il mio studio. Eliminati incontri con parenti e amici, cancellata la quotidiana passeggiata in riva al mare, cercavo qualcosa per riempire il tempo. Stavo leggendo Se questo è un uomo di Primo Levi. Essendone molto colpito, ho buttato giù dei bozzetti ispirati al campo di concentramento. Era un inferno. Quasi insensibilmente quei bozzetti sono diventati un progetto di illustrazione grafica della Divina Commedia. C’era una risma di cartoncino, le boccette di inchiostro di China seppia, i vecchi pennini e anche una stanza libera in casa. Era l’inizio del mio viaggio con Dante. Finite le 70 tavole grafiche, che illustrano i cento canti della Divina Commedia, ho voluto realizzare anche un polittico ad olio di grandi dimensioni”.
Chi è Giovanni Guglielmo, artista messinese
Nato a Messina il 22 agosto 1947, Giovanni Guglielmo si diploma presso l’Istituto d’arte di Messina, sotto la guida di Salvatore Castagna, come “Maestro d’arte in oreficeria” e presso l’Istituto d’arte di Milazzo come “Designer di architettura ed arredamento”. Consegue l’abilitazione all’insegnamento in discipline pittoriche, plastiche e disegno e storia dell’arte, e insegna così presso l’istituto d’arte “E. Basile” ed il Liceo scientifico “Archimede” di Messina.
Lo sviluppo artistico prende il via nel 1960, data a partire dalla quale parteciperà a moltissime mostre e concorsi di pittura e scultura, conseguendo molti premi e riconoscimenti.
Oltre che nella provincia di Messina, le sue opere sono state esposte in importanti mostre a Roma, Torino, Palermo, Catania, Imperia e Venezia. Nel 1990 è stato premiato con il Tindari d’oro e nel 2009 con il premio Dicearco, ed inserito nel 12° Vol. di Arte italiana nel mondo e Artisti del XX secolo. La sua attività non si limita alla pittura, ma si estende anche alla ceramica, alla grafica e alla scultura. Oltre a molte opere realizzate per privati, ha realizzato monumenti per committenti pubblici, vincendo nel 2008 il concorso per il monumento che ricorda il centenario del terremoto di Messina del 1908.
Conclusa la quinta campagna di scavo della missione archeologica dell’Ateneo friulano. In cinque anni individuati 120 siti in Libano.
La quinta campagna della missione archeologica in Libano settentrionae si è svolta sotto la direzione di Marco Iamoni (Università di Udine) e May Haider (Università Libanese – Third Branch di Tripoli), con la partecipazione dell’Institut Français du Proche Orient di Beirut.
I fenici sulle coste libanesi
Il risultato più importante riguarda il ritrovamento di materiali ascrivibili al periodo fenicio nella fascia costiera settentrionale, indice della presenza di siti fenici. La scoperta – spiega Iamoni – amplia l’area delle regioni finora considerate chiave per lo studio del mondo fenicio-punico. Le scoperte di siti fenici nella fascia costiera arricchiscono il quadro dei ritrovamenti rilevati in cinque anni dalla campagna italo-libanese, che a oggi ammontano a un totale di 120 siti individuati.
Quest’anno la missione si è concentrata nei settori a ridosso della costa, indagando anche l’area di Qalhat, un importante crocevia fra fascia costiera e pianura interna. Il rinvenimento di numerosi siti nella zona confermerebbe il ruolo strategico di Qalhat all’interno dell’area interna di Koura. Tale zona, infatti, sarebbe stata un’area fiorente in epoca tardo antica/bizantina. Vi sono tracce di un massiccio insediamento umano presente in maniera stabile già dal III millennio a.C., con importanti attestazioni in epoca preclassica e classica/tardo antica.
Le indagini archeologiche si sono svolte grazie al permesso rilasciato dalla Direzione Generale delle Antichità libanesi e a finanziamenti forniti dall’Università di Udine e dal Ministero degli Affari esteri e della Cooperazione (Maeci). Si prevede, inoltre, una nuova campagna per il 2022, mirata a estendere le ricerche nell’area di Koura.
Una missione archeologica egiziana, lavorando nel territorio dell’antica Buto, nel Governatorato di Kafr El-Sheikh, ha riportato in luce alcuni strumenti utilizzati nei rituali religiosi templari. La missione si colloca nell’ambito del programma di scavi archeologici promosso dal Consiglio Supremo delle Antichità.
Si tratta di un’importante scoperta, come afferma il dott. Mustafa Waziri, segretario generale del Consiglio supremo delle antichità. Gli strumenti rinvenuti, infatti, venivano utilizzati durante lo svolgimento dei rituali giornalieri in onore della dea Hathor. Secondo quanto dichiarato dal dott. Waziri, sembra che gli strumenti siano stati collocati in maniera rapida sotto blocchi di pietra disposti regolarmente in cima a una collina di sabbia a sud del tempio della dea Uadjet, protettrice del sovrano e personificazione del Basso Egitto, a Tel Al-Faraeen (Buto).
I rinvenimenti
Nel frattempo, il capo del settore delle antichità egiziane Ayman Ashmawy aggiunge che di questa scoperta fanno parte un pilastro di calcare nella forma della dea Hathor, un gruppo di brucia incensi in faïence, uno dei quali con la testa del dio Horus, e un gruppo di oggetti in argilla utilizzati nei rituali religiosi e cerimoniali della dea Hathor.
Dei rinvenimenti, inoltre, fanno parte anche: una collezione di statuette raffiguranti le divinità Thot e Tauret, una piccola sedia per la maternità (di cui Tauret è divinità protettrice), un grande porta offerte, un occhio di Horus in oro. Precedentemente la missione aveva riportato alla luce un meraviglioso gruppo in avorio con scene di donne che portano offerte, scene della vita quotidiana, rappresentazioni di piante, uccelli e animali. Inoltre, avevano ritrovato un grande architrave in pietra calcarea con testi geroglifici in rilievo, e parte di un pittura reale di un sovrano che esegue rituali religiosi nel tempio Buto.
Importante, tra i rinvenimenti, la presenza di iscrizioni geroglifiche recanti i nomi di tre sovrani della XXVI dinastia, Psammetico I, Wha Ip-Ra e Amasis.
L’edificio
Hossam Ghoneim, capo della Missione archeologica, da parte sua annuncia la scoperta dei resti di un edificio in pietra calcarea legigata dall’interno. Si tratterebbe di un enorme pozzo per l’acqua sacra utilizzata nei rituali quotidiani.
Nel 1480 il sultano Maometto II guidava la sua flotta contro i cavalieri di Rodi, prima, per poi dirigere la sua azione bellicosa sul regno di Napoli. La flotta turca, infatti, aveva fatto rotta su Rodi solo come diversivo, per concentrare l’esercito vero e proprio contro un inconsapevole regno di Napoli. Maometto II, con il pretesto di rivendicare un qualche diritto turco sull’eredità dei principi di Taranto, si diresse a Brindisi, deciso a colpire Ferrante di Napoli. Il re, infatti, aveva inviato aiuti ai cavalieri di Rodi per contrastare l’attacco del sultano turco.
Il 28 luglio 1480 Maometto II si trovava di fronte al porto di Otranto, pronto all’assalto.
La notte del 28 luglio 1480
A causa di un imponente vento di tramontana, l’attraversamento del canale di Otranto da parte dell’esercito turco-ottomano condusse quest’ultimo proprio di fronte a Otranto nella notte del 28 luglio 1480. Otranto si presentava come una città portuale molto ricca, ma con un’importante carenza nella fortificazione. Per i turchi era, così, un luogo facile da espugnare e più vicino alla costa albanese.
In un’Italia attraversata dalla crisi, con gli Stati divisi, l’armata turco-ottomana si ritrovò via libera senza alcun vero e proprio ostacolo, né politico né militare. In questo contesto, nella zona dei laghi Alimini, oggi denominata baia dei Turchi, sbarcarono ben 16.000 uomini dell’esercito di Maometto II.
L’armata turca era guidata dal comandante Gedik Ahmet Pascià che, nella giornata del 28 luglio, aveva inviato due messaggeri all’interno delle fortificazioni otrantine per convincerli alla resa senza battaglia. La clausola principale, però, era costituita dalla pretesa che gli abitanti di Otranto si convertissero a nuova fede, rinunciando, pubblicamente, alla fede in Cristo. Il primo messaggero venne scacciato in malo modo. Il secondo venne ucciso alle porte della città, senza essere riuscito a entrare. Ahmet, a questo punto, fece sbarcare le artiglierie e diede il via all’assedio.
L’assalto e il massacro
Otranto era difesa solo da una manciata di uomini capitanati da Francesco Zurlo e Giovanni Antonio Delli Falconi, circa 2.000 contro i 16.000 turchi. Già da subito gli abitanti abbandonarono il borgo per rifugiarsi nella cittadella. Il borgo, infatti, passò subito in mano ai turchi. L’artiglieria ottomana, nel giro di pochi giorni aveva già messo in ginocchio la città di Otranto che, contro ogni previsione continuava a resistere. Dovette però capitolare quando, dopo 15 giorni d’assedio, l’11 agosto 1480, Ahmet diede il via all’assalto finale, riuscendo a sfondare. I Turchi entrarono a Otranto dalla “Porticella”, l’ingresso più piccolo sul lato nord orientale delle mura. Il divario numerico delle forze impiegate, unito alla situazione di assedio subito, fecero capitolare gli otrantini in breve tempo. I turchi-ottomani, inoltre, avevano ucciso tutti i maschi maggiori di quindici anni e avevano catturato donne e bambini come schiavi.
Il giorno seguente, 12 agosto 1480, l’esercito turco irruppe nella cattedrale dove si erano rifugiati i superstiti e il clero. Ahmet imponeva loro di rinnegare la fede cristiana. Al loro rifiuto ne ordinò il massacro, per un totale di circa 800 martiri.
Il 14 agosto, Ahmet fece legare e condurre i superstiti della cattedrale sul vicino colle della Minerva. Qui ordinò la decapitazione di almeno 800 individui, riconosciuti come martiri dalla Chiesa e venerati come beati martiri idruntini.
La città di Otranto, devastata dall’azione dei turchi, rimase sotto il loro totale controllo per quasi un anno, fino al maggio 1481, quando iniziò la campagna di liberazione grazie anche all’arrivo della flotta cristiana. Dopo vari scontri e assedi, solo nel settembre dello stesso anno i turchi abbandonavano la città ormai ridotta a un cumulo di macerie di cui sopravvissero solo 300 abitanti.
Era il 26 luglio del 1866 in quel della periferia di Versa (GO) quando poco dopo mezzogiorno le truppe italiane si scontrarono con quelle austriache. Si stava combattendo la Terza guerra d’indipendenza, nell’ambito della Campagna di unificazione italiana.
Alle porte di Versa, nel Friuli in provincia di Gorizia, si consuma infatti, su un ponte sul torrente Torre, quella che passa alla storia come Battaglia di Versa. Le truppe italiane, provenienti da Palmanova come avanguardia della spedizione di Cialdini, si trovarono a scontrarsi sul ponte con le truppe austriache per cercare di avvicinarsi al raggiungimento dell’unità d’Italia.
Lo scontro e la vittoria italiana
Le truppe italiane, guidate da Alberto Carlo Gilberto De la Foreste de Divonne, contavano 400 cavalieri, 1600 uomini e la 5ª batteria dell’8° Reggimento d’artiglieria. L’Australia schierava, invece, 300 cavalieri, 2500 uomini e la 7ª batteria del 7° Reggimento d’artiglieria. Furono le forze italiane a vincere il combattimento, strappando la città di Versa all’Austria e riportandola all’Italia. Il 12 agosto seguente avvenne la stipula dell’armistizio, fino a giungere alla pace di Vienna il 3 ottobre dello stesso anno.
L’inutilità della Battaglia di Versa
Ma nel giro di poco tempo Versa era passata dall’Austria all’Italia, per poi ritornare di nuovo all’Austria con la Pace di Vienna. Con quest’ultima, infatti, l’Austria cedeva il Veneto al Regno d’Italia, fissando però la linea di confine Italia-Austria con la sponda destra del torrente Torre. In questo modo, di fatto, Versa ritornava all’Austria, pur essendo stata vinta dal Regno d’Italia. La città dovrà poi attendere la fine della Prima guerra mondiale per ritornare ad essere parte dell’Italia.
Le vicende della Battaglia di Versa sono esaustivamente descritte nel saggio di Massimo Portelli, “La Campagna del 1866 nel Friuli Orientale”. Nel 2016, inoltre, sono state rinvenute sul greto del torrente alcune sepolture di soldati caduti durante la battaglia.
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