In Egitto, la missione archeologica egiziana che opera nel governatorato di Beheira, una zona nordoccidentale del Delta del Nilo, ha scoperto i resti di un grande laboratorio di ceramica, risalente all’epoca greco-romana.
Il Dr. Mustafa Waziri, Segretario Generale del Supremo Consiglio delle Antichità, ha dichiarato che si tratta di un laboratorio con alcuni edifici risalenti al periodo compreso tra il III secolo a.C. e il I secolo d.C.. Ha spiegato che ci sono diverse aree divise in base alla funzionalità: dall’area per modellare l’argilla a quella per farla asciugare, momento in cui il vasellame veniva esposto al sole. La missione di ricerca, guidata da Ibrahim Sobhy, ha infatti portato alla luce l’area in cui l’argilla veniva lavorata, con l’aggiunta di additivi per predisporre le fasi di lavoro successive. All’interno dei resti murari del laboratorio, inoltre, sono stati rinvenuti alcuni strumenti utilizzati per la produzione ceramica, come utensili in metallo, frammenti del tornio e alcuni frammenti di vasi di terracotta.
Alcuni dei manufatti rinvenuti nel laboratorio di produzione ceramica risalenti al periodo greco-romano
Alcuni dei manufatti rinvenuti nel laboratorio di produzione ceramica del periodo greco-romano
Alcuni dei manufatti rinvenuti nel laboratorio di produzione ceramica del periodo greco-romano
I forni per la produzione ceramica
Il dott. Ayman Ashmawy, capo del settore delle antichità egiziane presso il Consiglio supremo delle antichità, ha sottolineato che le fornaci hanno fori di aerazione superiori, a corrente ascensionale. Queste sono state realizzate con mattoni rossi e circondate da spesse pareti di mattoni di fango per resistere alla pressione risultante dal processo di combustione. Tra i resti, anche frammenti di stoviglie incombuste e altre materie prime.
Forno a combustione a corrente ascensionale
Un insediamento a lungo frequentato
Da parte sua, il professor Sobhy ha affermato che la stessa ha portato in luce anche la porzione di un abitato con costruzioni in mattoni di fango. In alcune di queste erano presenti vasellame ceramico per l’uso quotidiano, forni di cottura, silos di stoccaggio e alcune proto-monete in bronzo. L’area presenta inoltre un gruppo di sepolture in mattoni crudi in cui sono presenti vasi funerari in ceramica, alabastro e rame.
Alcune delle sepolture rinvenute
Alcuni oggetti del recente rinvenimento
Secondo il professor Sobhy queste sepolture risalirebbero al periodoprotodinastico. Gli antichi egizi, sempre secondo Sobhy, si erano stabiliti in quella zona dai tempi storici fino all’epoca romana. Materiali del periodo protodinastico, uniti a elementi di epoca greco-romana, secondo il professor Sobhy testimonierebbero una continuità abitativa dell’insediamento.
Immagini in testo e copertina: fonte Ministero delle Antichità Egiziano.
Negli ultimi decenni le teorie complottistiche hanno trovato terreno fertile per la propria proliferazione. Tra queste ritorna ricorrente quella che in inglese viene definita Moon Hoax, frottola lunare. Le missioni del programma Apollo, secondo le teorie complottiste, non avrebbero davvero portato gli astronauti a compiere l’allunaggio. Infatti, i complottisti ritengono che tutte le missioni non siano altro che falsi ideati dalla NASA in combutta con il governo statunitense. Insomma, sarebbero tutte balle spaziali e complotti al chiaro di Luna!
Come nasce una teoria complottista?
Quando il 21 luglio del 1969 l’uomo sbarca per la prima volta sulla luna, il mondo rimane con il fiato sospeso e gli occhi sognanti. Già ai tempi dell’Apollo 8, nel 1968, si iniziava a parlare di complotti governativi. Complotti che, alla luce di un uomo che letteralmente cammina sulla Luna, si sono fatti sempre più presenti e insinuanti. Nel 1976, infatti, fa la sua comparsa per la prima volta in tv il libro We Never Went to the Moon (Non siamo mai andati sulla Luna), degli americani Bill Kaysing e Rendy Reid.
Il libro di Bill Kaysing
Kaysing, ex ufficiale della marina statunitense, riteneva che la tecnologia a lui contemporanea non fosse avanzata al punto di realizzare un allunaggio. Affermava ciò in virtù di una sua carriera lavorativa presso Rocketdyne, azienda produttrice di motori a razzo per la NASA per le missioni Apollo, per cui, però, si occupava di supervisionare la stesura dei manuali tecnici.
Rocketdyne
Nonostante la sua carriera all’interno dell’azienda fosse terminata nel 1963 e, soprattutto, non fosse proprio la sua area di competenza all’interno della Rocketdyne, Kaysing si sentiva convinto di poter dichiarare che l’America non aveva le tecnologie necessarie per mandare l’uomo sulla Luna. Secondo Kaysing, infatti, lo sbarco sulla Luna non sarebbe altro che un film realizzato dalla NASA con il supporto tecnico del regista Stanley Kubrick. Ad avvalorare questa teoria, secondo Kaysing, c’era proprio l’esperienza cinematografica del regista di cui, nel 1968, era uscito nelle sale il capolavoro 2001: Odissea nello spazio.
2001: Odissea nello spazio (immagine via MyMovies)
Kaysing affermava con una certa sicurezza che Kubrick fosse stato costretto a realizzare i video dell’allunaggio negli ambienti della Norton Air Force Base di San Bernardino; il governo avrebbe minacciato il regista di rendere noto un legame del fratello Raul con il terrore del momento, il partito comunista. A nulla valeva far leva sulla ragione: Stanley, infatti, non ha un fratello di nome Raul, ma solo una sorella, Barbara Mary.
Complotti al chiaro di Luna
Quella di Kaysing si configura come la prima teoria di complotto in relazione all’allunaggio ad essere stata espressa in un libro. Si tratta di una teoria, tra l’altro, che sin da subito ha raccolto numerosi seguaci.
Alcuni ritengono che i filmati dell’allunaggio non siano altro che una messa in scena ideata dal governo americano per distogliere l’attenzione dalle morti in Vietnam. La maggior parte dei complottisti, invece, propende per la teoria secondo la quale gli Stati Uniti, nel pieno della guerra fredda con l’Unione Sovietica, cercavano di accaparrarsi il primato “Luna” prima degli avversari. L’Unione Sovietica, infatti, era stata la prima a mandare un satellite artificiale in orbita (lo Sputnik 1), a fotografare l’altra faccia della luna e, soprattutto, a inviare un uomo nello spazio.
Sputnik 1, il primo satellite in orbita
Per queste ragioni, secondo i complottisti, il governo americano era stato costretto a girare un finto filmato che mostrasse al mondo il primo uomo a camminare sulla Luna.
Balle spaziali
Proprio questo “camminare”, tra l’altro, è oggetto di grande dibattito tra i complottisti. La divisa da astronauta di Neil Armstrong, conservata allo Smithsonian’s National Air and Space Museum, mostra degli stivali con la suola liscia, incompatibile con le famose impronte lasciate sulla superficie lunare.
Una delle immagini che i complottisti usano a sostegno delle proprie teorie
“Am I missing something?“, si legge in molte immagini del genere in rete. Sì, ti sta sfuggendo qualcosa. Il fatto che gli astronauti, una volta approdati sulla luna, abbiano indossato, per la passeggiata, dei copri-stivali rimovibili, visibili sia nelle nuove scansioni delle foto originali, sia proprio in museo come parte della tuta da astronauta.
Ma non è tutto, ovviamente. Anche la foto della bandiera che sembra mossa dal vento ha fatto storcere il naso a chi non crede che l’uomo sia stato sulla Luna. Sulla Luna, com’è ovvio, non c’è spostamento d’aria. La bandiera che sembra ondulata, allora, è solo frutto del fatto che non sia stata stesa completamente da Armstrong e Aldrin. E vorrei ben vedere, con i guantoni del completino spaziale in quanti avrebbero adeguata manualità in una situazione non proprio normale!
La bandiera americana sulla Luna
Anche la presenza delle ombre ha dato spunto, nel corso dei decenni, a numerose teorie complottiste. Secondo i sedicenti scienziati amatoriali, infatti, le ombre sembrerebbero essere colpite da svariate fonti di luce, compatibili con un set cinematografico.
Le presunte ombre divergenti sulla Luna
E, ancora, anche la mancanza di stelle sullo sfondo è stata interpretata come un segno che la NASA stesse cercando di nascondere la realtà. Secondo i complottisti, infatti, la presenza delle stelle avrebbe rivelato la reale posizione nello spazio da cui veniva scattata la foto. Per questo la NASA le avrebbe eliminate dallo sfondo. In verità, per la particolare condizione di luminosità e la mancanza di atmosfera le stelle apparivano talmente flebili da non essere catturate in foto.
Nessuna stella all’orizzonte!
Selfie sulla Luna
Un’altra obiezione dei complottisti alla presenza umana sulla luna è legata a una delle fotografie più famose di tutti i tempi: Armstrong scatta una foto ad Aldrin catturando anche il proprio riflesso sul casco del collega Si tratta della foto AS11-40-5903 e i complottisti ritengono sia falsa a causa del fatto che Armstrong non tiene alcuna macchina fotografica in mano. Anche qui la spiegazione è semplicissima, poiché le telecamere sono posizionate sul petto degli astronauti per facilitarne i movimenti.
Teorie, tutte, smontate ad una ad una dalla scienza. Forse non si giungerà mai a una visione universalmente accettata e i complottisti esisteranno sempre. Ma la scienza, puntualmente, continuerà a fare il proprio lavoro, progredendo, andando avanti e, magari, spostando il “set cinematografico” su un altro corpo celeste!
Non mi stupisco di quelli che negano l’allunaggio, visto che c’è ancora chi sostiene che la Terra è piatta – Piero Angela
Un recente studio pubblicato sulla rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America(PNAS) ha come oggetto l’analisi del DNA di un batterio per ricostruire gli spostamenti dell’Homo Sapiens. Si tratta di uno studio realizzato da un team internazionale di scienziati, tra cui Silvia Ghirotto e Andrea Brunelli del Dipartimento di Scienze della Vita e Biotecnologie di Unife. Il batterio, l’Helicobacter pylori, è uno dei batteri più studiati in gastroenterologia, responsabile di alcuni casi di ulcera gastrica e di rari tumori allo stomaco. Grazie a questo studio, l’Helicobacter pylori, un parassita presente nello stomaco di due terzi della popolazione mondiale, potrebbe diventare anche insolito testimone della storia evolutiva dell’umanità. Il team di ricercatori è riuscito a studiare i processi evolutivi e demografici umani analizzando il DNA batterico di H. pylori. Unendo, così, la medicina e l’archeologia, Unife segue le orme di un batterio.
Silvia Ghirotto
Andrea Brunelli
<<Il legame tra questo batterio e la nostra specie è molto antico>>, racconta Silvia Ghirotto, <<La prima infezione documentata infatti è avvenuta in Africa circa centomila anni fa, prima che i nostri antenati lasciassero il continente per colonizzare il resto del mondo. Il batterio è stato quindi presente nei nostri stomaci durante tutta la nostra storia evolutiva, e durante tutte le migrazioni e interazioni tra popolazioni che hanno visto protagonista la nostra specie. Come conseguenza di questa straordinaria e antica relazione fra ospite e parassita, abbiamo che la variabilità genetica del batterio riflette quella del suo ospite. La struttura e la diversità genetica di H. pylori, infatti, mima quella umana che si evidenzia studiando il nostro DNA>>.
Una ricerca d’eccezione: Unife sulle orme del batterio
Lo studio si basa sull’analisi di più di 500 campioni di Helicobacter pylori provenienti da biopsie gastriche di individui da 16 diverse popolazioni asiatiche e americane.
<<Sfruttare il DNA batterico come marcatore genetico della storia evolutiva umana>>, spiega Andrea Brunelli, <<oltre a essere affascinante, può rivelarsi fondamentale per la ricostruzione del nostro passato in tutte le quelle situazioni in cui il DNA umano non abbia un sufficiente potere risolutivo. Come nel caso dell’America, in cui la storia recente di conquista e migrazione dall’Europa e dall’Africa rende difficoltoso lo studio genetico dei processi evolutivi che hanno riguardato le popolazioni native>>.
Seguendo le orme di H.pylori, in questo studio, gli scienziati hanno dunque aggiunto importanti tasselli a due grandi migrazioni del passato, quelle che hanno portato i nostri antenati a popolare rispettivamente l’Asia e l’America circa 13000 anni fa. Informazioni preziose che sono in accordo con i dati raccolti fino a oggi con gli studi di archeologia.
Variazione genetica del batterio in alcune popolazioni prese in esame (fonte PNAS)
Una nuova popolazione batterica?
<<Studiando le sequenze di H. pylori provenienti da popolazioni siberiane abbiamo notato come fossero diverse da qualsiasi altra popolazione batterica conosciuta fino a questo momento>>, spiega la prof.ssa Ghirotto. <<Ci siamo resi conto di aver identificato una popolazione nuova, che abbiamo chiamato hpSiberia. Tale popolazione ha un’origine recente, dovuta a fenomeni di mescolamento genetico tra due popolazioni batteriche differenti, una tipica dell’Asia Centrale, e l’altra del Sudest Asiatico. I nostri modelli statistici hanno evidenziato che tale fenomeno può essere accaduto durante l’ultima glaciazione, quando le popolazioni umane si sono ritirate in quelli che vengono chiamati “rifugi glaciali”, ristrette aree geografiche rimaste accessibili durante la glaciazione. Durante questo contatto tra diverse popolazioni è plausibilmente avvenuta la formazione di questa nuova popolazione batterica, che oggi è diffusa in tutta l’Asia Centrale e la Siberia>>.
Grafico illustrativo degli spostamenti e dell’evoluzione in base all’analisi di H. pylori (fonte PNAS)
Gli stessi modelli statistici sono poi stati applicati allo studio del processo di colonizzazione dell’America, evidenziando che le attuali popolazioni del Nord e Sud America derivano da un singolo processo di colonizzazione, avvenuto circa 13.000 anni fa, quando lo stretto di Bering era libero dai ghiacci e quindi poteva essere attraversato dall’uomo. <<Per la prima volta in questo studio sono stati applicati dei modelli statistici di inferenza demografica all’analisi del DNA di un parassita per studiare la storia evolutiva del suo ospite. Questo approccio potrà essere esteso ad altri sistemi biologici che coevolvono con la nostra specie, permettendo di fare chiarezza su aspetti cruciali che riguardano il nostro passato>>, conclude la professoressa Ghirotto.
Era il 15 luglio 1799 quando Pierre-François Bouchard, capitano durante la campagna napoleonica in Egitto, ritrovò la stele nera destinata a divenire uno dei reperti più famosi al mondo. La Stele di Rosetta, in granito nero, deve il suo nome alla località in cui fu rinvenuta, Rosetta, nome latinizzato di Rashid, nel governatorato di Buhayra, nel Delta del Nilo. A lungo contesa tra Francia e Inghilterra, la stele raggiunse la sua attuale sede già nel 1802, divenendo una delle attrazioni principali del British Museum.
LA Stele di Rosetta al British Museum (immagine via Cultura – Biografieonline)
Il rinvenimento
La lastra granitica, di dimensioni decisamente notevoli (112,3×75,7×28,4 cm), ritornò alla luce durante dei lavori per la riparazione del forte di Rosetta, Fort Julien, da parte dei francesi. Il rinvenimento è, solitamente, attribuito al capitano Bouchard. Tuttavia, fu un soldato ignoto a tirarla fuori durante i lavori. Si deve però proprio a Bouchard l’intuizione che si trattasse di qualcosa di importante. Il capitano, infatti, la mostrò e consegno al generale Jacques François Menou con cui, ad agosto, arrivò ad Alessandria.
Fort Julien in un disegno del 1803 (fonte Wikimedia Commons)
Nel 1801 i francesi furono costretti ad arrendersi agli inglesi. Di conseguenza, la maggior parte dei reperti egizi partì per l’Europa su navi inglesi e, tra questi, anche la stele diretta a Londra.
Un passo verso la decifrazione dei geroglifici
La fama della stele risiede nel suo fondamentale ruolo nella decifrazione dei geroglifici. Nonostante l’ampia porzione di testo mancante, la stele contiene un testo riportato in tre diverse grafie su tre registri: geroglifico, demotico e greco. Sebbene geroglifico e demotico fossero la stessa lingua, si tratta di due grafie differenti destinate ad ambienti differenti.
Possibile ricostruzione della parte mancante della stele (fonte Wikimedia Commons)
Il geroglifico, infatti, è la scrittura sacra, usata dai faraoni e dai sacerdoti per rivolgersi, principalmente, alle divinità. I templi, infatti, ne sono pieni, così come anche molti monumenti. È la scrittura monumentale, quella delle comunicazioni solenni. Il demotico, d’atro canto, è la “scrittura del popolo”, quella corsiva e sbrigativa, utilizzata per le lettere, per il commercio e per gli affari. Nell’Epoca Tarda, inoltre, il demotico veniva anche usato per i testi ufficiali a causa della conoscenza dei geroglifici oramai limitati alla sola classe sacerdotale
Scrittura geroglifica
Scrittura demotica
La parte in greco, invece, si cala perfettamente nel tempo a cui appartiene la stele. Su essa, infatti, è riportato un decreto tolemaico del 196 a.C. per un’assemblea sacerdotale in onore del faraone Tolomeo V Epifane, allora tredicenne, in occasione del primo anniversario della sua incoronazione, un decreto destinato a raggiungere tutti. Secondo l’iscrizione, inoltre, analoghi testi del decreto dovevano comparire in ognuno dei principali templi egizi.
La stele di Rosetta (fonte Wikimedia Commons)
La stele, unitamente allo studio di testi di epoche precedenti, garantì al mondo degli studiosi un nuovo punto di partenza fondamentale per il lavoro di decifrazione dei geroglifici compiuto, nel 1822, da Jean-François Champollion.
Ed è proprio nella città natale di Champollion, Figeac, che l’artista Joseph Kosuth ha realizzato una riproduzione ingrandita (14mx7,9m) della stele, scolpita in granito nero dello Zimbabwe, in omaggio dello studioso e della sua impresa.
Riproduzione della stele di Rosetta a Figeac, opera di Joseph Kosuth (fonte Wikimedia Commons)
Archeologia dei Nebrodi è la nuova mostra inaugurata a Santo Stefano di Camastra (ME) che, grazie al recupero di numerosi reperti, comprende un arco temporale che va dalla Preistoria al Medioevo. La mostra nasce grazie alla collaborazione tra la Soprintendenza di Messina, il Parco dei Nebrodi e il Comune di Santo Stefano di Camastra. Il complesso architettonico di Palazzo Trabia, già sede del Museo Civico della Ceramica, è la sede della nuova mostra.
L’inaugurazione della mostra
In una sezione sono ospitati i materiali provenienti da Santo Stefano di Camastra. I reperti, in parte donazioni di privati, offrono evidenza di scoperte avvenute sia in area urbana che nel territorio, confermando una frequentazione già a partire dall’età arcaica. Un’altra porzione dell’esposizione, invece, presenta i reperti più significativi provenienti da altre località nebroidee. Reperti provengono dunque da San Marco D’Alunzio (antica Alontion/Haluntium), Caronia (antica Kalè Aktè), San Fratello (antica Apollonia), Mistretta, Militello Rosmarino (Monte Scurzi), Sant’Agata di Militello e Alcara Li Fusi.
I reperti in mostra
«Abbiamo selezionato i migliori reperti rinvenuti», spiega la Soprintendente di Messina, Mirella Vinci. «Molti di essi sono assolutamente inediti, tra i quali una statua marmorea di togato del I sec. a.C. e 130 monete provenienti da scavi sistematici e da recuperi condotti a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso».
La mostra rimarrà visitabile dal 9 luglio al 31 dicembre 2021, da martedì a domenica, dalle ore 10-13 e dalle 16-20.
L’assessore Samonà e la soprintendente Vinci in un momento dell’inaugurazione
Un’inaugurazione d’eccezione
La mostra, inaugurata venerdì 9 luglio, si compone di 550 reperti recuperati nel corso di numerose campagne di scavo. All’inaugurazione erano presenti l’assessore Alberto Samonà, il sindaco di Santo Stefano di Camastra, Francesco Re, il presidente del Parco dei Nebrodi, DomenicoBarbuzza, e la soprintendente di Messina, Mirella Vinci. Insieme ad essi, inoltre, erano presenti anche i direttori del Parco Archeologico di Naxos Taormina e di Tindari, Gabriella Tigano e Domenico Targia.
Samonà, Re, Barbuzza e Vinci inaugurano la mostra
«I Nebrodi sono monti che custodiscono millenni di storia, identità, vicende di popoli che li hanno vissuti e antichi culti». Così afferma Samonà. «Questa esposizione è importante perché affronta un arco temporale molto ampio; nonché mette in luce per la prima volta importanti ritrovamenti archeologici avvenuti in una vasta porzione dei Nebrodi, con particolare riferimento alla loro parte settentrionale. Si tratta, dunque, di un’iniziativa che favorisce il processo di riconoscimento e identificazione delle comunità locali. Le fa sentire parte di un unico processo di recupero della memoria storico-identitaria».
Nella sua prima edizione, un festival di arte contemporanea diffusa è arrivato a Monsano (AN) dal 26 giugno fino al primo agosto 2021. Il MoCa feast (Monsano Conteporary Art Feast), con il titolo di “Existence is Co-Existence“, occuperà gli spazi comuni del paese con quattro esibizioni di diversi artisti.
Il nome della rassegna, MoCa Feast, è pensato come unione tra festival e feast, banchetto, un invito a cibarsi di arte contemporanea, a dare all’animo il proprio nutrimento artistico. Piazza dei Caduti, i giardini di Piazza Mazzini e il parco di via XXV Aprile ospiteranno tre installazioni ambientali dell’artista Paola Tassetti per l’esibizione DisseminAzioni.
Una delle esibizioni di Paola Tassetti (immagine via Artribune)
Nelle ex cucine del castello Deborah Napolitano, Giorgia Mascitti, Laura Paoletti e Iacopo Pinelli presentano la loro Come colui che nove cose assaggia, ispirato da un verso dell’Inferno dantesco.
Una delle installazioni di Iacopo Pinelli (immagine della mostra via Artribune)
Matteo Costanzo, invece, occuperà lo spazio del santuario Santa Maria Fuori Monsano con l’installazione Imago ergo sum. Infine, le sculture di Marco Cingolani e Ado Brandimarte occuperanno l’unica navata della chiesa Santa Maria degli Aròli con un’esibizione dal titolo Past and Present.
In occasione del MoCa, alcune serate di luglio saranno dedicate a diverse rassegne, talk, incontri artistici e approfondimenti culturali.
L’evento ha il patrocinio del TOMAV, il centro d’arte marchigiano diretto da Andrea Giusti, sotto la cura di Antonello Tolve.
Il sindaco, Roberto Campelli, molto orgoglioso dell’iniziativa, spera che il MoCa Feast possa essere un’occasione di visibilità per gli artisti emergenti.
Dopo la prima edizione, risalente al 2006 e replicata per i quattro anni successivi, Milazzo (ME) vede il ritorno di un festival cinematografico d’eccezione. Il “Milazzo Film Festival“, dopo 11 anni di silenzio, ritornerà attivo e si svolgerà dal 15 al 18 luglio 2021.
«L’ispirazione per un Film Festival» – dichiara l’organizzazione – «venne in occasione di un cineforum organizzato dall’Associazione L’Altra Milazzo nel 2005 nel salone parrocchiale del Duomo di Milazzo; nacque tutto da un’esigenza semplice: rendere viva la piazza antistante il Duomo stesso». Tra le location selezionate per l’evento, infatti, il posto d’onore spetta alla piazza del Duomo, affiancata da Villa Vaccarino, una residenza Liberty del 1929, e alle suggestioni panoramiche di Capo Milazzo.
Villa Vaccarino
Capo Milazzo (immagine via 98.zero)
I cortometraggi in concorso
Il 15 maggio 2021 si sono chiuse le candidature per l’iscrizione a concorso dei cortometraggi indipendenti. Sono stati ammessi tutti i generi (fiction, documentario, animazione, sperimentazione e videoclip), con una durata massima di 20 minuti. Il regolamento prevedeva, inoltre, la possibilità di candidatura anche per i cortometraggi internazionali. Dei 15 finalisti, infatti, 5 sono internazionali: due dall’India, uno dall’Ucraina, uno dal Regno Unito e uno dall’Iran.
«Il concorso intende offrire spazi espressivi a videomaker indipendenti; gli artisti, partendo da ispirazioni e riflessioni personali, devono saper esplorare nuove visioni sulla contemporaneità», si legge sul sito dell’evento.
Oltre ai cortometraggi in gara, verranno proiettati anche lungometraggi e documentari d’eccezione, come Stromboli 1949, a cura del Museo del Cinema di Stromboli, Stromboli – Terra di Dio (1950) di Roberto Rossellini, La ragazza con la pistola (1968) di Mario Monicelli. E, ancora, presentazioni di libri e omaggi ai grandi protagonisti del cinema in tutte le sue forme, come quello previsto in onore del maestro Ennio Morricone.
Una delle locandine dell’evento (courtesy MFF)
Le proiezioni sono previste per i giorni del 15, 16 e 17, mentre la serata del 18 sarà dedicata alle premiazioni.
In programma per il 18 luglio sono previste le premiazione per il miglior cortometraggio (Premio “Scarabeo d’Argento”) e per il miglior cortometraggio realizzato da autori under 35 nati o residenti in Sicilia (Premio “Il Giovinetto”). Oltre al trofeo, i vincitori di queste due categorie riceveranno anche un premio in denaro. Per l’edizione 2021 del Concorso, inoltre, è stato istituito un premio speciale, “Posidonia”, assegnato dal Consorzio Area Marina Protetta Capo Milazzo, Partner Istituzionale del Festival, al cortometraggio che meglio di tutti promuoverà la tutela dell’ambiente marino e terrestre.
I premi in concorso (courtesy MFF)
Le premiazioni per i migliori cortometraggi, inoltre, avranno una Giuria Tecnica d’eccezione, composta da personalità di spicco del mondo della cultura, del cinema e del giornalismo:
Gli agenti del Nucleo investigativo del Corpo forestale e della Stazione forestale di Dolianova (Sud della Sardegna) hanno recuperato un migliaio di reperti archeologici illegalmente acquisiti. L’operazione “Thesaurus” ha portato le indagini alla scoperta di un vero e proprio tesoro. Autori di questo magazzino di reperti casalingo sono due pensionati colti sul fatto in località Isca Bardella (CA) mentre sondavano le campagne di Dolianova con un metal detector. Uno di loro, tra l’altro, è stato presidente, negli anni passati, dell’Archeoclub di Dolianova (CA). Sui due “tombaroli” adesso gravano le accuse di scavo archeologico clandestino, impossessamento e detenzione illegale di reperti archeologici (di proprietà dello Stato), ricettazione e riciclaggio, reati per i quali sono previste pene sino a 12 anni di reclusione.
Navicella nuragica bronzea (immagine via Ansa)
Medaglione in bronzo (immagine via Ansa)
I reperti
Il tesoretto che i due avevano messo su comprende diverse tipologie di reperti, per un totale di oltre 1000, con una datazione molto ampia, dal Neolitico all’Alto Medioevo. Tra questi si trovano oggetti di fine pregio tra cui: due navicelle nuragiche in bronzo con protomi taurine (elementi decorativi costituiti dalla testa); una protome nuragica d’ariete in bronzo, frammento di una navicella.
Navicelle nuragiche e altri frammenti bronzei
E ancora, asce e mazze litiche di epoca neolitica e nuragica (VI-II millennio a.C.); una collana in osso con vaghi a disco e a botticella di epoca neolitica–eneolitica (VI-III Millennio a.C.); un busto di guerriero nuragico in bronzo, armato di pugnale; una figurina umana in bronzo; un medaglione in bronzo con decorazioni a forma di foglie e uccelli.
Di particolare interesse la collezione di 550 monete in bronzo e alcune in argento, di epoca punica, romana repubblicana e imperiale, basso medioevale.
Le monete e alcuni dei reperti recuperati (immagine via Ansa)
Tra queste spiccano una serie di emissioni puniche di zecca sarda (III sec. a.C), un asse romano c.d. del Sardus Pater (I sec. a.C.) e un tremisse in oro di epoca bizantina (VII-VIII secolo) verosimilmente di zecca sarda. E, inoltre, gioielli di rara bellezza come un anello aureo a forma di serpente.
Anelli a forma di serpente (immagine via Ansa)
Stando alle indagini, i reperti sarebbero stati destinati alla vendita clandestina sul mercato nero.
Pontecagnano Faiano (SA) è stato protagonista, nei giorni scorsi, di una scoperta archeologica che conferma l’eccezionale popolosità dell’insediamento etrusco-campano. È stata rinvenuta, infatti, la sepoltura numero 10.000 in una zona occupata, senza soluzione di continuità, dagli inizi del IX secolo a.C. fino all’età romana.
La sepoltura numero 10.000 di Pontecagnano (immagine via CilentoNotizie)
Presenti sul cantiere di scavo: il Soprintendente arch. Francesca Casule, il sindaco di Pontecagnano Faiano Giuseppe Lanzara, il funzionario archeologo direttore del Museo di Pontecagnano Luigina Tomay, la prof.ssa Antonia Serritella dell’Università di Salerno e il dott. Bruno Baglivo, archeologo responsabile dei lavori.
L’arch. Casule ha sottolineato come la capillare attività di tutela messa in campo dalla Soprintendenza abbia consentito di raggiungere risultati importantissimi sul piano della conoscenza e della valorizzazione dell’insediamento antico di Pontecagnano.
La scoperta della sepoltura n° 10.000
La sepoltura n° 10000
L’ultimo rinvenimento fa parte di un’ampia necropoli, con datazione dalla fine del V secolo a.C. fino alle prime fasi dell’insediamento romano. La necropoli presenta la maggior parte delle sepolture con datazione al periodo sannitico (fine V – metà III secolo a.C.). Fornisce un’utile immagine delle usanze funerarie del periodo, con sostanziali differenze riconducibili allo stato sociale, al genere e alla classe d’età dei defunti.
L’area di scavo – Pontecagnano (SA), foto: Salerno Notizie
La tomba 10.000 si caratterizza principalmente per la tipologia sepolcrale. Si tratta infatti di una tomba a cassa litica, molto frequente nella necropoli. La particolarità, tuttavia, risiede nel materiale di costruzione impiegato: al posto dell’abituale travertino, pietra locale di facile reperimento, è stato impiegato tufo grigio campano, sicuramente importato. Anche la lavorazione della cassa e della copertura attestano la ricercatezza e la cura nella messa in opera della tomba. Tre blocchi in tufo modanati costituivano la copertura della cassa, realizzata con blocchi perfettamente squadrati.
Blocchi in tufo grigio (immagine via Gazzetta del Sud)
Il corredo
Il proprietario della sepoltura è, con ogni probabilità, un adolescente (a giudicare dalla lunghezza dello scheletro e dalle dimensioni delle ossa). Sebbene si conservi perfettamente la parte inferiore, dal bacino ai piedi, la parte superiore presenta un grave danneggiamento a causa delle infiltrazioni di radici e di attività animali. Nel corredo funerario spiccano un grande cinturone di bronzo e due coppe a vernice nera collocate ai piedi, di cui una con anse (coppa destinata al consumo del vino, skyphos). Il cinturone bronzeo sembra ricondurre alla sfera guerriera oltre a configurarsi come simbolo dello status sociale. Tuttavia, manca nel corredo l’arma da lancio (giavellotto o lancia), peculiare dei maschi adulti della comunità.
Frammenti del cinturone ancora indossato dal defunto (immagine via Gazzetta del Sud)
Il Treno di Dante ha percorso il suo viaggio inaugurale il 3 luglio 2021. Intorno alle 9 è partito dalla stazione Santa Maria Novella di Firenze diretto a Ravenna, ripercorrendo le terre del sommo poeta nell’anno del 700esimo anniversario della sua morte. Dalla sua natia Firenze, fino al luogo della sua sepoltura ravennate, passando per le terre che hanno contrassegnato parte della sua vita, sull’antica ferrovia Faentina, a bordo di un convoglio storico. Il treno, infatti, si compone di tre carrozze del modello “100 porte”, realizzato ai primi del ‘900, a cui si aggiungono la motrice diesel D445, il vagone postale (visitabile) e il vagone-deposito per le biciclette. Un treno già di per sé molto suggestivo, con gli interni in legno, che riporta il viaggiatore in un’altra epoca.
Una delle carrozze con interni in legno (fonte Treno di Dante)
A far da cornice, inoltre, anche la tratta storica di una linea ferroviaria che, inaugurata nel 1893, finalmente collegava Adriatico e Tirreno. Proprio su questo storico percorso, il Treno di Dante accompagnerà i viaggiatori lungo un itinerario d’eccezione. Dopo la partenza da Firenze, prevista alle 8.50, il treno fermerà a Borgo San Lorenzo, a Marradi, Brisighella e Faenza con arrivo a Ravenna intorno alle 12.20.
Il treno porterà i viaggiatori sulle orme di Dante tutti i weekend fino al 10 ottobre 2021. Vengono offerte, inoltre, diverse soluzioni d’acquisto del biglietto, tra le quali una che dà diritto alla visita gratuita, nei comuni delle fermate, ad alcuni luoghi del patrimonio storico-artistico.
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