vulcano

News

NEWS | “Etna 1669”, la mostra di SopriCT a 350 anni dalla grande eruzione

L’Etna è il vulcano più alto d’Europa, ma anche uno dei più attivi al mondo da sempre. La Soprintendenza per i Beni Culturali e Ambientali di Catania ha infatti organizzato una mostra sull’eruzione del 1669. Etna 1669. Storie di lava a 350 anni dalla grande eruzione sarà inaugurata il 28 giugno, alle ore 18, al Palazzo Centrale dell’Università di Catania e sarà visitabile fino al 30 ottobre 2021.

1699

La tremenda eruzione del 1669

L’eruzione dell’Etna nel 1669 costituisce uno degli eventi più importanti di tutta la storia vulcanologica italiana. Un enorme fiume di lava distrusse la pendice meridionale dell’Etna e i paesi che sorgevano a valle. Frequenti scosse sismiche si aggiunsero al panorama generale di devastazione aprendo delle fenditure eruttive.

La colata del 1669 illustrata da Giacinto Platania, testimone oculare dell’eruzione

Dopo il collasso del grande cratere centrale, il fiume si ramificò in tre bracci e prese così la direzione di Catania. Il 23 aprile del 1669 il fuoco raggiunse il litorale e abbracciò il Castello Ursino, ampliando pian piano la linea di costa con oltre un chilometro di lava. Per una ventina di giorni Catania fu invasa dal fiume di fuoco: molti cittadini rimasero senza tetto e, poco a poco, la città si spopolò. La devastazione di 16 chilometri di colata lavica durò complessivamente ben 122 giorni.

1699
Particolare della colata lavica al Monastero dei Benedettini di San Nicolò l’Arena a Catania, ricostruito dal 1702 – immagine da INGVvulcani, foto S. Branca

Non è la prima volta, però, in cui Catania fa i conti con la potenza smisurata dell’Etna, ma questa è stata l’unica eruzione in grado di distruggerla, insieme ad altri quindici paesi etnei.

1669
Il corso del fiume di lava dell’eruzione del 1669 ricostruito da Branca et al. (2013) – immagine da INGVvulcani
News

NEWS | Etna nel mirino, il tremendo vulcano in bianco e nero

Il Vulcano più alto d’Europa in eruzione è stato il protagonista indiscusso del lockdown natalizio. La sua potenza e la sua bellezza, però, non passano inosservate anche se in stato di quiete: lo dimostra il reportage della fotografa Giulia De Marchi. Il progetto della giovane trentenne esplora l’Etna in ogni suo piccolo scorcio e in tutti i suoi grandi panorami; le fotografie, digitali e analogiche, pongono tutto in risalto: dai sentieri più corti all’orizzonte più lontana.

La serie dal titolo “Vulcano” è stata pubblicata in diverse riviste di fotografia come another place e Fotoform Magazine.

vulcano

Umani, sagome sulla nera terra rovente

Gli scatti in bianco e nero esaltano ancora di più la nera sabbia vulcanica che copre le depressioni della grande “Muntagna”. C’è quiete tutt’intorno, poche le figure umane che si intravedono. Non sono il soggetto delle fotografie e non pretendono di esserlo, ma solo “sagome“, “figure che gironzolano“, così le descrive la giovane fotografa. Come se fossero immersi nelle solite discussioni quotidiane ammirando il panorama: come sarà il tempo domani, cosa si mangerà a cena. Quasi quasi chi ammira le foto riesce a sentirli.

Il Vulcano tra le righe di Patrick Brydone

La fotografa ha ispirato il reportage ad alcune righe di A Tour Through Sicily and Malta: In a Series of Letters to William Beckford del viaggiatore scozzese Patrick Brydone.

Ci sono dei luoghi che senza dubbio si possono dire di più incantevoli della  terra; se l’Etna di dentro somiglia all’inferno, si può dire a ragione che di  fuori somigli al paradiso. 
È curioso pensare che questo monte riunisce in sé tutte le bellezze e tutti gli orrori. Qui si può osservare una voragine che un tempo ha eruttato torrenti di fuoco verdeggiare ora delle piante più belle. Si possono cogliere i frutti più squisiti nati su quella che fino a poco fa non era che roccia arida e nera. Qui il suolo è ricoperto di tutti i fiori immaginabili, e noi stessi ci aggiriamo in un mondo di meraviglia e contempliamo questo intrico di dolcezza senza pensare che sotto i nostri piedi c’è l’inferno con tutti i suoi terrori, e che soltanto poche iarde ci separano da laghi di fuoco liquido e di zolfo”.

News

NEWS | Stromboli, ricerca italiana mette in guardia dal rischio di eruzioni

Un nuovo studio, coordinato dal prof. Marco Viccaro del Dipartimento di Scienze Biologiche Geologiche e Ambientali dell’Università di Catania, presenta dati all’avanguardia sulle eruzioni vulcaniche a Stromboli.

La necessità di nuovi interventi per incrementare il livello di allerta sull’isola

Lo studio, pubblicato oggi sulla prestigiosa rivista Scientific Reports del gruppo Nature, ha definito i processi e i tempi di innesco delle eruzioni parossistiche, altamente esplosive, del vulcano Stromboli nell’estate del 2019. Al tempo stesso suggerisce la necessità di nuovi interventi per incrementare il livello di allerta sull’isola, per mitigare i rischi associati ai fenomeni eruttivi.

La ricerca, dal titolo Shallow conduit dynamics fuel the unexpected paroxysms of Stromboli volcano during the summer 2019, è coordinata da Marco Viccaro, docente di Geochimica e Vulcanologia al Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’ateneo catanese. L’analisi è stata sviluppata in collaborazione con un team di ricercatori dell’Università di Catania, dell’Università della Calabria, dell’Università di Perugia e dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia.

L’elaborazione dei dati micro-analitici alla base della ricerca

Alla base della ricerca l’elaborazione di dati micro-analitici d’avanguardia, ottenuti su cristalli portati alla luce e inclusi nei prodotti piroclastici emessi nel corso della straordinaria attività eruttiva dello Stromboli del 3 luglio e del 28 agosto 2019. Le informazioni sono state integrate anche con dati geofisici relativi alle deformazioni dei fianchi del vulcano registrate nei minuti precedenti le eruzioni parossistiche.

L’interesse della vulcanologia moderna verso questa tipologia di attività deriva dal carattere spiccatamente inaspettato di queste fenomenologie eruttive, che incrementa esponenzialmente i rischi per la popolazione e per le attività antropiche, specialmente turistiche, sull’isola, in quanto risulta pressoché “invisibile” agli attuali strumenti di early warning propedeutici per la mitigazione dei rischi stessi, ha spiegato il prof. Marco Viccaro.

“Attraverso modelli di diffusione intra-cristallina avanzati, capaci di estrarre i tempi di movimento di specifici elementi volatili contenuti all’interno dei cristalli, e l’integrazione delle informazioni relative alle deformazioni del suolo, il gruppo di ricerca ha ricostruito i meccanismi e i tempi che portano all’escalation di fenomeni in grado di scatenare simili eruzioni parossistiche allo Stromboli“, continua il docente dell’ateneo catanese. “Finora la letteratura scientifica ha attribuito le cause primarie per lo sviluppo delle eruzioni parossistiche a processi bottom up, ovvero a ricariche veloci di magmi ricchi in gas, provenienti dai livelli più profondi del sistema di alimentazione del vulcano. L’innovazione apportata con il presente studio si basa sul fatto che l’innesco di eruzioni parossistiche sia, invece, da attribuire a processi top down del tutto accidentali, dovuti ad esempio a repentine modifiche della geometria delle parti più superficiali dei condotti, oppure a ostruzioni transienti degli stessi. Ne consegue che le tempistiche per l’attivazione dei fenomeni eruttivi dell’estate 2019 a Stromboli siano risultate estremamente rapide, ovvero comprese in un range da poche decine di secondi e fino a 2-3 minuti”.

Le implicazioni emergenti da questo studio – conclude il prof. Marco Viccaro – sono rilevanti poiché mettono di fronte alla comunità scientifica vulcanologica e alle autorità preposte alla protezione civile un quadro di sostanziale incapacità, dell’attuale sistema di early warning presente sull’isola, di anticipare con sufficiente preavviso eventi eruttivi di questa portata, stimolando dunque la ricerca di nuovi parametri e segnali precursori utili per incrementare il livello di allerta a preludio di queste fenomenologie.

 

News

NEWS | Etna, 1.055 le specie floristiche sul gigante d’Europa

L’Etna ospita un patrimonio floristico di ben 1.055 specie, di cui 92 endemiche, cioè esclusive del fertile territorio vulcanico. Il Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’Università di Catania e i docenti Gianpietro Giusso Del Galdo, Pietro Minissale e Saverio Sciandrello hanno condotto la ricerca.

I risultati della ricerca sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista scientifica PeerJ con il titolo: Vascular plant species diversity of Mt. Etna (Sicily): endemicity, insularity and spatial patterns along the altitudinal gradient of the highest active volcano in Europe.

Il metodo per gestire un migliaio di specie in vent’anni

Tante fonti sono state messe in gioco, tra cui letteratura, erbari e raccolte di semi, al fine di suddividere il territorio etneo in 33 fasce, ognuna della larghezza di 100 metri. Le fasce consentono di capire quali specie crescono a una determinata altitudine. La loro distribuzione e visualizzazione d’insieme è adesso chiarissima grazie all’operazione “Optimized Hot Spot Analysis” della suite ArcGIS di Esri Italia.

Un’area dell’Etna indagata con l’analisi hotspot (dall’articolo sulla rivista PeerJ)

I risultati: cosa cresce sull’Etna

Delle 1.055 specie 92 sono endemiche, di cui 29 sono endemiche strette (EE) del Monte; altre 27 sono endemiche della Sicilia (ES) e 35 d’Italia (EI). La più alta ricchezza endemica si registra dai 2.000 ai 2.800 m s.l.m.: le specie più rappresentate sono le emicriptofite, piante perenni le cui gemme crescono vicine al suolo; le piante annuali crescono invece a quote più basse. Inoltre, le analisi hotspot permettono di visualizzare le fasce che contengono più specie ad alta priorità di conservazione e alcune di queste piante crescono sugli strati vulcanici più antichi.

News

ARCHEOLOGIA | Vulcano: l’Isola dei Morti, dello zolfo e dell’allume

Il nostro viaggio alla scoperta delle Eolie comincia con l’isola più vicina alla Sicilia, Vulcano, che, tra tutte, è quella che più rimanda a un ideale rapporto dell’uomo col primordiale: qui, infatti, è possibile sentirsi perfettamente parte di una natura che ha in sé tutto ciò che serve per il benessere psicofisico. A testimonianza di tale equilibrio, nel corso dei secoli, gli interventi dell’uomo si sono, infatti, limitati a plasmare ciò che la natura offriva, senza danneggiare in alcun modo flora e fauna locali, e a sfruttarne le materie prime.

Geografia

Vulcano (20,87 km² di superficie) ha avuto origine da una serie di attività vulcaniche, che hanno portato, tra gli altri fenomeni, alla nascita della Caldera del Piano (80.000 anni fa circa), alla formazione del settore sud della caldera, La Fossa (50.000 anni fa), e a una grande esplosione (15.000 anni fa) che ha determinato il collasso della parte occidentale della caldera La Fossa, all’interno della quale si è accresciuto, a partire da 6.000 anni fa, l’attuale centro eruttivo, il Cono di La Fossa. La genesi dell’isolotto di Vulcanello è iniziata, invece, intorno al II secolo a.C.: la formazione si è, poi, collegata a Vulcano intorno al 1550 d.C. Vulcano è caratterizzata da un particolare stile eruttivo che, legato all’incontro del magma con le acque freatiche, genera esplosioni a moderata magnitudo. Queste, a loro volta, generano modeste colonne eruttive con emissione di lave a elevata viscosità e lanci di blocchi e bombe. Sebbene l’ultima eruzione sia avvenuta nel 1888 – 1890, il vulcano non ha mai cessato di dare prova della propria vitalità e, ancora oggi, è possibile osservare diversi fenomeni che testimoniano il suo stato di quiescenza.

Cenni storici

Nessuna fra le fonti storiche a noi pervenute riporta notizie di insediamenti stabili e duraturi su quest’isola. Sappiamo, però, con certezza che sia divenuta base navale cartaginese nel 218 a.C. e, in seguito, nel 36 a.C., base romana.  Essa, inoltre, dopo la parentesi proto-imperiale, a causa della sua intensa attività vulcanica, sarebbe rimasta disabitata per secoli, fino al 510 d.C., quando re Teodorico vi relegò, per punizione, il curiale Iovino. Un secondo salto cronologico ci porta fino al normanno Ruggero I, conte di Sicilia che, intorno all’anno 1083, fece donazione dell’Isola, insieme ad altre dell’arcipelago, al Monastero di San Bartolomeo dei monaci benedettini di Lipari tramite il suo Abate Ambrogio. A seguito di ciò, per secoli, i pochi abitanti di quest’isola rimasero sotto il dominio della Chiesa di Lipari. All’inizio del 1800, per i meriti conseguiti nelle battaglie contro Napoleone, Ferdinando I, re delle Due Sicilie, diede come feudo l’isola di Vulcano al generale Don Vito Nunziante, sottraendola al potere religioso. Nel 1878 gli eredi del generale Nunziante cedettero i loro diritti agli scozzesi Stevenson, che già controllavano a Lipari l’industria della pomice. Nel centro abitato dell’isola è ancora visibile il loro palazzo con torri e merli (il “Piccolo Castello” o il “Castello Scozzese”), che fu parzialmente distrutto dall’eruzione del 1888. Gli Stevenson, durante la loro permanenza alle Eolie, misero insieme un’importante collezione di antichità eoliane, tra cui un tesoretto di monete in argento, interrato alla metà del III secolo a.C., con monete di Taranto e Reggio, oggi conservate tra il Museo del Parco di Kelvingrove di Glasgow e l’Ashmolean Museum di Oxford.

L’allume

Comune a tutti i “proprietari” dell’isola è lo sfruttamento dei giacimenti di zolfo e allume. Il generale Nunziante, ad esempio, impiegò come operai i “coatti”, gente relegata sulle Eolie dal governo borbonico, che abitava le piccole spelonche adiacenti alla Grotta dell’Allume. Si trattava di una cavità artificiale molto ampia, profonda 34m e provvista di quattro aperture, da cui si estraeva ogni giorno il sale alluminoso sericeo, staccandolo dalle pareti della grotta stessa, entro cui ribolliva acqua sulfurea. Dalla combinazione dei vapori umidi e solforosi dell’acqua con la base argillosa delle lave, che ricoprivano la grotta, nasceva, infatti, l’allume. Fin dall’antichità, questo materiale ha costituito una vera e propria fonte di ricchezza per tutte le isole dell’arcipelago e, come testimoniato da Plinio, veniva utilizzato per tingere le lane e pulire l’oro. I Romani, inoltre, estraevano l’allume e, tramite anfore fabbricate a Lipari, lo trasportavano insieme a zolfo e capperi.

L’Isola dei Morti

Alcuni studi archeologici e antropologici portano a identificare il sito come Isola dei Morti: sembra, infatti, che qui confluissero numerosi defunti provenienti dalle altre isole e, considerata la presenza di ushabti all’interno di diverse sepolture, addirittura dall’Egitto; scopo di tale viaggio era quello di sottoporre la salma a una serie di riti di purificazione. Gli archeologi, in verità, analizzando le fonti a proposito di questa pratica, si sarebbero aspettati un numero molto maggiore di sepolture, rispetto alle 130 effettivamente rinvenute. Il mancato ritrovamento di cadaveri ha fatto supporre che, alla fine dei riti, gran parte di essi venisse nuovamente trasportata e sepolta nei luoghi di provenienza. Diversamente, altri sostengono che i cadaveri venissero seppelliti sull’isola, ma che la natura vulcanica del terreno abbia cancellato molte tracce al riguardo, sebbene, morfologicamente, le numerose e antichissime grotte artificiali dell’isola, richiamando il tipo delle tombe a grotticella adibite a sepolture in Sicilia durante l’età preistorica, sembrerebbero essere legate ai suddetti riti funerari; tuttavia, nessuna testimonianza archeologica è stata rinvenuta all’interno di esse, né nei dintorni.

ARCHAEOLOGY | Vulcano: the Island of the Dead, of sulphur and alum

Our journey to discover the Aeolian Islands begins with the island closest to Sicily, Vulcano, which is among all the one that most refers to an ideal relationship between man and the primordial: here, in fact, it is possible to feel perfectly part of a nature that offers everything you need for psychophysical well-being. As evidence of this balance, over the centuries human interventions have, in fact, limited themselves to shaping what nature offered, without damaging in any way the local flora and fauna, and to exploiting raw materials.

Geography

Vulcano (20.87 km² in area) was originated from a series of volcanic activities, which led, among other phenomena, to the creation of the Piano caldera (approximately 80,000 years ago), to the formation of the southern sector of the caldera, the Fossa (50,000 years ago), and to a large explosion (15,000 years ago) which resulted in the collapse of the western part of the caldera, within which, starting 6,000 years ago, the current eruptive centre of the Fossa, the Cone, has grown. The genesis of the islet of Vulcanello began, however, around the second century BC: this was later connected to Vulcano around 1550 AD. Vulcano is characterized by a particular eruptive style which, linked to the encounter of magma with groundwater, generates explosions of moderate magnitude. These, in turn, generate modest eruptive columns emitting highly viscous lavas and hurling blocks and bombs. Although the last eruption took place in 1888-1890, the volcano has never ceased to prove its vitality, and even today it is possible to observe various phenomena that confirm its dormant state.

Historical background

None of the historical sources survived up to this day reports news of stable and lasting settlements on this island. However, it is known for a fact that it became a Carthaginian naval base in 218 BC and later, in 36 BC, a Roman base. Moreover, after the proto-imperial interlude, due to its intense volcanic activity it would have stayed uninhabited for centuries, until in 510 AD King Theodoric sent there the curial Iovino as a punishment. A second chronological gap takes us to approximately 1083, when Roger I, Norman count of Sicily, donated this island and others of the archipelago to the Benedictine monastery of San Bartolomeo of Lipari through his Abbot Ambrose. As a result, the few inhabitants of this island had remained for centuries under the dominion of the Church of Lipari. At the beginning of 1800, Ferdinand I, king of the Two Sicilies, gave the island of Vulcano as a fiefdom to the general Don Vito Nunziante for the merits he achieved in the battles against Napoleon, withdrawing it from the Church domain. In 1878 the heirs of general Nunziante gave up their rights to the Scottish Stevensons, who already controlled the pumice industry in Lipari. In the inhabited centre of the island you can still see their palace with its towers and battlements (the ‘Little Castle’ or ‘Scottish Castle’), which was partially destroyed by the eruption of 1888. During their stay in the Aeolian Islands, the Stevensons put together an important collection of Aeolian antiquities, including a treasure trove of silver coins, buried in the middle of the third century BC with coins from Taranto and Reggio, which are now preserved in the Kelvingrove Art Gallery and Museum in Glasgow and in the Ashmolean Museum in Oxford.

The alum

The exploitation of sulphur and alum deposits is common to all the ‘owners’ of the island. General Nunziante, for example, employed as labourers the coatti, people who were banished to the Aeolian Islands by the Bourbon government and lived in the small caves adjacent to the Alum cave. It was a very large artificial cavity, 34 metres deep and provided with four openings, from which the sericeous aluminium salt was extracted every day, detaching it from the walls of the cave itself, within which sulphurous water boiled. In fact, alum was born combining the moist and sulphurous vapours of the water with the clayey base of the lavas that covered the cave. Since ancient times this material has been a real source of wealth for every island of the archipelago and, as witnessed by Pliny, it was used to dye wool and clean gold. Also, the Romans extracted alum and transported it together with sulphur and capers using amphorae manufactured in Lipari.

The Island of the Dead

Some archaeological and anthropological studies have resulted in identifying the site as Island of the Dead: it seems, in fact, that numerous corpses coming from other islands and even from Egypt, considering the presence of the ushabti inside various burials, converged there; the purpose of this expedition was to go through a series of body purification rituals. Actually, in analysing the sources of this practice, archaeologists would have expected a much greater number of burials, compared to the 130 that were actually found. This lack of corpses has led to the assumption, on the one hand, that at the end of the rituals most of them were transported back and buried in their places of origin; on the other, that corpses were buried on the island, but that the volcanic nature of the soil has erased many of these traces, although, morphologically speaking, the numerous ancient artificial caves of the island, which recall the type of Sicilian rock-cut tombs of the Prehistoric age, seem to be linked to the aforementioned funerary rites; however, no archaeological evidence has been found inside them, nor in the surroundings.

News

ARCHEOLOGIA | L’antica Strongyle, uno dei vulcani più antichi de mondo

L’antica Strongyle, con la sua forma rotondeggiante, da cui il nome, possiede la seconda vetta più alta delle Eolie. Caratteristica geografica molto nota è la presenza dell’omonimo vulcano, sempre attivo, che ogni tanto risveglia i timori degli abitanti e dei turisti. Il vulcano di Stromboli è ritenuto uno dei più attivi al mondo, e la sua caratteristica attività eruttiva, a condotto aperto, ha meritato l’epiteto di “stromboliana”.

La storia di Stromboli

Della sua storia si conosce poco ma possiamo immaginare vicende simili a quelle vissute dalle altre isole minori. Complessivamente, le ricerche archeologiche hanno rivelato abitazioni di varie epoche, dal Neolitico all’età romana. Diversi ritrovamenti sembrano concentrati i piedi del vulcano.   

Sul Serro Fareddu è testimoniato un piccolo insediamento della facies culturale di Piano Conte (prima me6tà del III millennio a.C.). Invece, sulla dorsale che va dalla chiesa di San Vincenzo alla località Semaforo, sorgeva un abitato riferibile cultura di Capo Graziano (Bronzo Antico – prima metà del II millennio a.C.). Questo è stato ampiamente indagato e poi ricoperto, al fine di garantirne la conservazione. Gli scavi hanno portato alla luce alcune capanne in pietra, paragonabili ai rinvenimenti sul Castello di Lipari, e frammenti ceramici tipici del periodo.

Dopo questa parentesi il sito non sembra essere abitato almeno fino alla fase greca. A questo periodo appartiene una piccola necropoli con sepolture databili tra il IV e la prima metà del III secolo a.C. Le sepolture, a incinerazione in vasi o a in sarcofagi lapidei, mostrano un ricco corredo, con vasi attribuibili al Pittore di Lipari e alla sua bottega, terrecotte teatrali e gioielli. Tutte le testimonianze ivi rinvenute sono conservate o esposte al Museo Archeologico Regionale Eoliano.

La vita di Stromboli continua anche in età romana, espressa da numerosi frammenti ceramici, resti architettonici e sepolture a cappuccina.

Come le altre isole, anche Stromboli, probabilmente, non fu abitata nei secoli VIII e IX d.C., a causa delle continue incursioni arabe. Dobbiamo aspettare il XVII secolo per trovare l’isola nuovamente e stabilmente abitata. Grazie alla fertilità del terreno, data dalla presenza del vulcano, ben presto Stromboli si riempie di vigneti e uliveti e diventa centro delle rotte commerciali che passavano per lo Stretto di Messina.