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NEWS | Sulle tracce del lupo medievale, i risultati dello studio sul DNA

Il ritrovamento di un cranio quasi completo di un lupo vissuto in età medievale ha attirato l’attenzione dei ricercatori e permesso di comprendere meglio l’evoluzione del lupo in Italia. Lo studio multidisciplinare è stato condotto dalle Università della Sapienza, di Bologna e Parma, la pubblicazione della ricerca è presente sulla rivista Historical Biology e fornisce la descrizione completa di un campione di lupo del Medioevo in Italia.

Estrazione del DNA antico dal reperto (©Elisabetta Cilli)

Il lupo lungo il Po

L’immagine del bosco, nel medioevo, ci riporta subito all’icona del lupo. Animale causa di cambiamenti ecostistemici e di pesanti persecuzioni umane, il lupo ha subito negli ultimi secoli un drammatico declino demografico. Tuttavia i resti osteologici dei lupi medievali sono estremamente rari, ciò limita lo studio e la comprensione dell’evoluzione degli individui di questa specie.

Il cranio in questione fu rinvenuto nel settembre del 2018 nel Fiume Po dal professore Davide Persico. Mediante l’analisi al Carbonio C14 il fossile è stato datato al pieno medioevo, tra il 967 e il 1157 d.C. A differenza dalla pubblicazione del 2019, lo studio più recente presenta una prima descrizione completa del cranio basata su un approccio multidisciplinare, dimostrazione di come i campioni archeozoologici rappresentino una fonte essenziale di informazioni per comprendere le dinamiche, la diversità e la distribuzione delle specie tra presente e passato.

Scansione tomografica del cranio (©Dawid A. Iurino)

Le analisi Biometriche

Le analisi biometriche, e quelle basate sulla Tomografia Computerizzata (TC), indicano che l’esemplare rientra nella variabilità cranica della sottospecie Canis lupus italicus, sottospecie tutt’ora presente nella penisola Italiana. Il lupo in questione è di sesso femminile, e l’usura dei denti mostra che si tratta di un individuo adulto tra i 6 e gli 8 anni e manifesta chiare tracce di una grave parodontite. La parodontite fu causa della completa perdita del canino sinistro, producendo un grande foro di collegamento tra l’alveolo e la cavità nasale. Tale condizione patologica probabilmente debilitò gravemente l’esemplare, ma non è possibile stabilire con certezza se la morte sia giunta come conseguenza di questa malattia.

Confronto tra l’immagine fotografica del cranio (sinistra) e il modello 3D ottenuto tramite l’elaborazione di immagini tomografiche (destra). (©Dawid A. Iurino)

Le analisi filogenetiche

Le analisi filogenetiche collocano il pool genetico del DNA mitocondriale del reperto all’interno della variabilità genetica dei lupi moderni, ossia un gruppo nettamente distinto da quello dei cani. In particolare il campione è riconducibile alle linee di discendenza materne più antiche che derivano tutte da un antenato comune. In Europa tale tale gruppo genetico è presente a partire da almeno 2.700-1.200 anni fa. Le stesse analisi dimostrano che la sequenza mitocondriale dell’esemplare studiato è molto simile a quella tipica greca di cui mostra solo una mutazione di differenza.

In copertina: Foto del ritrovamento del cranio di lupo sulla spiaggia Boschi Maria Luigia, presso Coltaro (PR), 2018. (Foto di Davide Persico)

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NEWS | Una missione archeologica della Sapienza riporta alla luce un abitato precolombiano in Repubblica Dominicana

Una nuova area di età arcaica appartenente a una comunità di tradizione pre-agricola è stata scoperta nella penisola di Samanà, a nord-est della Repubblica Dominicana.

Il rinvenimento è avvenuto nell’ambito della Missione Archeologica e Antropologica Sapienza nell’Arcipelago Caraibico coordinata dal Dipartimento di Storia, antropologia, religioni, arte e spettacolo della Sapienza. Il tutto grazie al contributo del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale (MEACI) ed il supporto dell’Ambasciata della Repubblica Dominicana di Roma.

Un po’ di storia

Le informazioni archeologiche relative al primo popolamento delle isole del Centro America sono piuttosto scarse. Gli unici dati che abbiamo risalgono all’incirca a cinquant’anni fa e sono stati ottenuti a seguito di ricerche sporadiche condotte in maniera non totalmente scientifica e pubblicate non sistematicamente. Inoltre l’insediamento successivo di gruppi agriculturalisti che hanno popolato l’Isola Hispaniola ha contributo a cancellare le tracce del popolamento più antico, soprattutto nelle isole maggiori.

Repubblica Dominicana, cartina turistica

Mentre studi precedenti (in particolare una pubblicazione del gruppo di ricerca della Sapienza sulla rivista Nature sulla genomica dei popoli caraibici) hanno evidenziato in modo chiaro il modello del popolamento dei gruppi agriculturalisti Taino, l’origine delle popolazioni arcaiche preceramiche resta ancora irrisolta. Le sole informazioni che si hanno al riguardo è che i gruppi che popolavano le isole caraibiche nel periodo pre-agricolo erano caratterizzati da una mobilità stagionale. Essi basavano la loro sussistenza sulla caccia di piccoli animali, la pesca e soprattutto la raccolta di grandi e piccoli molluschi, marini e terrestri, e si stabilivano principalmente a ridosso della costa.

Collaborazioni d’eccezione

Oggi un nuovo tassello viene aggiunto con il ritrovamento di un raro abitato precolombiano di età arcaica nel sito di El Pozito, località della penisola di Samanà nel nord-est della Repubblica Dominicana. La scoperta è avvenuta nell’ambito della Missione Archeologica e Antropologica Sapienza nell’Arcipelago Caraibico del Dipartimento di Storia, antropologia, religioni, arte e spettacolo della Sapienza. È il dott. Francesco Genchi a dirigere la missione, con la collaborazione di ricercatori dei dipartimenti di Scienze odontostomatologiche e maxillo facciali e di biologia Ambientale dello stesso Ateneo, del Museo del Hombre Dominicano di Santo Domingo. Fondamentale il contributo della Direzione generale per la promozione del sistema Paese del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale (MEACI) e il supporto dell’Ambasciata della Repubblica Dominicana di Roma.

Il team di ricercatori (fonte ANSA)

 

L’abitato e i ritrovamenti più importanti

L’area identificata si riferisce a un abitato caratterizzato principalmente da un’ampia porzione di una officina  di lavorazione di materie prime come grandi molluschi marini quali lumache (Strombus Gigas anche detta conchiglia regina e Cittarium pica, la gazza di gabbiano) e i bivalvi (come la Codakia orbicularis, conosciuta anche come tigre lucina). Oltre a questi, anche una incredibile quantità di molluschi terrestri (es. Caracol excelens), sfruttati sia per uso alimentare che per la produzione di strumenti. Ma non solo, è stata rinvenuta anche la presenza di bacche selvatiche e resti di pesci di notevole dimensione.

Resti di conchiglie e utensili (fonte ANSA)

Le installazioni prevedevano ripari leggeri del tipo shelter, con allineamenti semicircolari di buche di palo, al cui esterno sono riconoscibili ampie aree di cenere e carboni, risultato delle attività di cottura delle risorse marine.

Lo strumentario è composto da un centinaio di arnesi in pietra locale levigata, quali pestelli, martelli, incudini e grandi macine adatte alla triturazione dei semi, delle radici e delle conchiglie, sui quali le analisi mostrano, oltre a marcati segni di usura, tracce di residui vegetali.

Tra questi, lo strumento più caratteristico è l’ascia mariposoide (a forma di farfalla) che si ritiene venisse utilizzata nell’abbattimento e nel taglio degli alberi con cui costruire canoe e remi. Questo strumento è distintivo dei gruppi pre-agricoli tardivi e fondamentale per circoscrivere le fasi arcaiche.

 

Il ritrovamento più importante, tuttavia, fa riferimento a 12 pestelli (majadores) di pregevole fattura. I pestelli si trovavano all’interno di un pozzetto rituale e differiscono tra loro sia per la materia prima utilizzata che per la manifattura. Anche su questi strumenti sono visibili tracce di usura e numerosi residui perfettamente conservati. La scelta di deporre questi strumenti in un’area adibita alla lavorazione delle risorse primarie, necessarie alla sussistenza del gruppo, induce a credere che si tratti di una sorta di offerta rituale riferibile alla sfera cultuale di questi gruppi, ma connessa anche alle pratiche di sussistenza.

Tracce delle prime comunità delle isole del Centro America

<<La misura del valore di questa scoperta>> – commenta Francesco Genchi del Dipartimento di biologia ambientale della Sapienza – <<è direttamente proporzionale alle nostre conoscenze, pressoché inesistenti, tanto sulle pratiche di vita quotidiana quanto su quelle connesse all’economia di sussistenza e alla sfera rituale delle popolazioni che abitavano i Caraibi prima del periodo agriculturalista>>.

Dott. Alfredo Coppa

<<I risultati ottenuti all’interno di questo nuovo sito dai caratteri arcaici>> – conclude Alfredo Coppa – <<ci proietta finalmente sulle tracce delle prime comunità che hanno colonizzato le isole del Centro America. Un ulteriore passo sarà realizzato dalla ricerca della necropoli, la quale consentirà di avviare analisi genetiche per far luce sulla provenienza dei gruppi che lo abitavano>>.

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NEWS | Dal Dna antico la storia dei Caraibi prima dell’arrivo degli europei (PHOTOGALLERY)

Un team internazionale di genetisti, archeologi, antropologi e fisici, tra cui Alfredo Coppa del Dipartimento di Biologia ambientale della Sapienza, ha analizzato il Dna di 174 individui che vivevano più di 2000 anni fa in quelle che oggi sono le isole di Bahamas, Cuba, la Repubblica Dominicana, Haiti, Puerto Rico, Guadeloupe, Santa Lucia, Curaçao e Venezuela. Lo studio, pubblicato su Nature, ha messo in luce la storia delle popolazioni caraibiche prima dell’arrivo degli europei, rispondendo a domande rimaste irrisolte fino a questo momento.

La prima colonizzazione dei Caraibi risale all’inizio dell’epoca arcaica, circa 6000 anni fa. Dopo circa 3/4000 anni è iniziata l’Età della ceramica e ancora altri 2000 anni dopo sono arrivati i primi navigatori europei. Molte sono le domande che riguardano le popolazioni originarie di queste terre, lavoratori della pietra prima e della ceramica dopo: se avessero o no la stessa discendenza; quanto numerose fossero al momento dell’arrivo dei colonizzatori europei e se gli abitanti moderni delle aree che oggi corrispondono alle isole di Bahamas, Cuba, la Repubblica Dominicana, Haiti, Puerto Rico, Guadeloupe, Santa Lucia, Curaçao e Venezuela abbiano un Dna riconducibile alle antiche popolazioni.

Lo studio

Il più grande studio condotto fino a questo momento sul Dna antico, coordinato dalla Harvard Medical School e pubblicato sulla rivista Nature, ha risposto a queste domande grazie al lavoro di un team internazionale di genetisti, archeologi, antropologi e fisici, tra cui Alfredo Coppa, che ne è stato il promotore, del Dipartimento di Biologia ambientale della Sapienza Università di Roma.

Lo studio ha analizzato il patrimonio genetico di 174 individui oltre ad altri 89 genomi sequenziati precedentemente. Questa mole di dati fa sì che oltre la metà delle informazioni da Dna antico oggi disponibili per le Americhe provenga dai Caraibi, con un livello di risoluzione fino a ora possibile solo in Eurasia occidentale. Di questi 174 genomi, l’80% sono stati studiati e messi a disposizione da ricercatori di Sapienza. I risultati del lavoro indicano che ci sono differenze importanti tra le popolazioni arcaiche preceramiche che lavoravano la pietra e quelle che lavoravano l’argilla, che la popolazione autoctona di queste aree era meno numerosa di quanto ritenuto fino a ora al momento dell’arrivo degli europei e infine, che l’attuale popolazione di molte isole caraibiche discende da popoli che le abitavano prima dell’arrivo dei colonizzatori.

L’origine delle popolazioni caraibiche

Inoltre i dati ottenuti hanno permesso di escludere che le popolazioni caraibiche dell’Età arcaica abbiano avuto connessioni con quelle dell’America del Nord, come ritenuto fino a oggi, e di attribuire la loro discendenza da una singola popolazione originaria o dell’America Centrale o di quella Meridionale.

Le popolazioni dell’Età della ceramica presentavano un profilo genetico differente, più simile ai gruppi del nordest dell’America meridionale (di lingua Arawak), un dato congruente con le evidenze ottenute su basi archeologiche e linguistiche. Da quanto osservato sembrerebbe, infatti, che questi popoli abbiano migrato dal Sud America verso i Caraibi almeno 1700 anni fa, soppiantando le popolazioni che lavoravano la pietra, quasi completamente scomparse all’arrivo degli europei (restava una piccola percentuale nell’isola di Cuba). Ciò conferma che gli incroci tra queste due popolazioni erano estremamente rari.

La produzione di manufatti ceramici

Quanto alla lavorazione dell’argilla per la produzione di manufatti di ceramica, lo studio ha evidenziato che nel corso dei 2000 anni trascorsi dalla loro comparsa fino all’arrivo degli europei, si sono avute differenze tra i vari stili ritenute, negli anni passati, il risultato di flussi di popolazioni provenienti da fuori i Caraibi. In realtà è emerso che a tali varietà di manifestazioni artistiche non corrispondono cambiamenti genetici o evidenze di un contributo genetico sostanziale da parte di gruppi continentali. I risultati testimoniano invece la creatività e il dinamismo di queste antiche popolazioni che hanno sviluppato nel tempo questi stili artistici straordinariamente diversi tra loro. 

La presenza di reti di comunicazione tra questi gruppi che producevano vasellame potrebbero aver agito da catalizzatori nella diffusione delle transizioni stilistiche osservate attraverso tutta la regione.

I risultati genetici – spiega Alfredo Coppa della Sapienza, che per anni ha studiato la morfologia dentale delle antiche popolazioni dei Caraibi – si allineano con il riscontro fatto nelle popolazioni dell’epoca arcaica che si differenziavano significativamente da quelle dell’epoca della ceramica. Tuttavia, rimangono ancora da spiegare queste differenze e occorreranno ulteriori studi per determinare se siano dovute a forze micro-evolutive che in qualche modo risultano essere rilevabili mediante la morfologia dentale, ma non alle analisi genetiche, o se invece queste possono essere conseguenza di abitudini diverse.

Il Dna come mezzo per misurare le dimensioni di una popolazione

L’elevato numero di campioni esaminati ha infine permesso una stima della dimensione della popolazione caraibica prima dell’arrivo degli europei: il metodo, sviluppato da David Reich, co-autore dello studio e docente della Harvard Medical School e della Harvard University, usa campioni presi in modo casuale, valuta quanto siano imparentati tra loro ed estrapola dati sulla dimensione della popolazione di origine. Tanto più i campioni risultano essere imparentati, tanto più piccola sarà, plausibilmente, la popolazione di origine; meno risultano essere imparentati, tanto più grande dovrebbe essere stata la popolazione.

Essere in grado di determinare le dimensioni delle popolazioni antiche utilizzando il Dna significa avere uno strumento straordinario che, applicato nei diversi contesti mondiali, permetterà di fare luce su moltissime domande – dicono i ricercatori – ma indipendentemente dal fatto che ci siano state, nel 1492, un milione di persone autoctone o qualche decina di migliaia, non cambia ciò che è accaduto in seguito all’arrivo degli europei nei Caraibi: la distruzione di un intero popolo e della sua cultura.

Tracce delle popolazioni autoctone nelle popolazioni moderne

Infine, una delle grandi domande a cui hanno cercato di rispondere i ricercatori riguarda il patrimonio genetico delle persone che oggi abitano nei Caraibi e la riconducibilità a quello delle popolazioni autoctone precolombiane. I risultati dello studio hanno dimostrato che ci sono ancora tracce di Dna delle popolazioni autoctone pre-colonizzazione nelle popolazioni moderne e in particolare che gli attuali abitanti dei Caraibi conservano Dna proveniente da tre fonti (in proporzioni diverse nelle diverse isole): quello degli abitanti autoctoni precolombiani, quello degli Europei immigrati e quello degli Africani portati nell’isola durante la tratta degli schiavi.

Lo studio è stato finanziato da National Geographic Society, National Science Foundation National Institutes of Health/National Institute of General Medical Sciences, Paul Allen Foundation, John Templeton Foundation, Howard Hughes Medical Institute e dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.

A questo link il video della mappa interattiva.

Credits photogallery: Missione archeo-antropologica Sapienza in Repubblica Dominicana.

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NEWS | “Da Napoleone al webGIS”, quando la cartografia storica incontra il digitale

Da Napoleone al webGIS: metodi ed esperienze di datificazione di cartografia storica è il titolo dell’incontro informale che si terrà su Zoom mercoledì 25 novembre alle ore 11:00-13:00.

L’incontro è realizzato dalla Sapienza Università di Roma, all’interno del corso di Informatica Umanistica, con il progetto ERC-Advanced PAThs il cui scopo è quello di fornire una comprensione diacronica approfondita e una rappresentazione efficace della geografia della produzione letteraria copta e, in particolare, del corpus di manoscritti letterari, quasi esclusivamente di contenuto religioso, prodotti in Egitto tra il III millennio e il XIII secolo (il progetto è diretto da P. Buzi), e i laboratori GIS della stessa Università.

La cartografia napoleonica d’Egitto

A presentare il progetto sarà un team congiunto, composto da alcuni ricercatori della Sapienza (Julian Bogdani, Domizia D’Erasmo e Paolo Rosati) e da alcuni allievi della Scuola di Specializzazione in Archeologia della stessa Università (Cecilia De Leone, Arianna Giordano e Luigi Campagna). Negli ultimi tempi, il team si è dedicato alla cartografia napoleonica d’Egitto, rilevata negli anni finali del XVIII secolo e pubblicata nei primi decenni del secolo successivo.

Uno degli esempi di cartografia storica d’Egitto inserita in un contesto digitale contemporaneo (© OpenStreetMap contributors, PAThs Archaeological Atlas of Coptic Literature)

La cartografia napoleonica, già oggetto di georiferimento e pubblicazione grazie alle attività del progetto PAThs, è stata di recente analizzata in maniera più approfondita e soggetta a vettorializzazione.

Si tratta, come si legge sulla pagina ufficiale dell’evento, di un processo di datificazione, cioè la creazione di archivi strutturati, contenenti informazioni geografiche, storiche e archeologiche.

Per le tavole dell’atlante napoleonico gli studiosi di questo progetto si sono affidati alla concessione dell’archivio di cartografia storica, reso disponibile da David Rumsey.

Si fa, inoltre, sapere che tutti i dati ricavati da questi lavori saranno pubblicati in open access e resi, dunque, disponibili pubblicamente sul portale dei dati del progetto PAThs.