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SPECIALE ROMA | A tavola con gli antichi romani: la cena prima di tutto e niente caffè!

Per tutta la storia di Roma antica, sono molte le cose che cambiano nel corso dei secoli. Una di queste riguarda le abitudini alimentari, in continua evoluzione, seguendo il mutare delle situazioni politiche e sociali: dal Regno alla Repubblica, fino all’Impero. Ma non solo, con l’espansione dei confini infatti, l’impero romano aveva annesso numerosi territori, ognuno con proprie abitudini alimentari, propri ingredienti e propri metodi di preparazione del cibo.

Cosa mangiavano i nostri antenati? Come scandivano i loro pasti durante la giornata?

Possiamo affermare che il consumo di cibo variasse in base alla classe sociale. Se è vero che agli albori non ci fossero grandi differenze, un importante divario si registra invece con la crescita dell’Impero. Nei tempi arcaici, infatti, i piatti principali erano a base di polenta, prima di miglio cotta nel latte (puls fitilla), poi la vera e propria polenta con la farina d’orzo e, infine, la polenta di farro (puls farrata o farratum) cotta in acqua e sale. Il tutto era abbinato ai più vari contorni: legumi, verdure, mandorle, pesci salati (gerres o maenae), frutta e formaggi. Il consumo di carne era raro e occasionale. Il pane, inoltre, non costituiva un alimento abituale prima del II se. a.C., periodo in cui nacquero le prime panetterie.

Pistrinum (“panificio”) pompeiano
Pagnotta carbonizzata da Pompei (oggi al British Museum)

Molto abbondante a Roma era il consumo di legumi, verdure e frutta, secca in particolare, che veniva utilizzata come ingrediente per la preparazione di dolci. Un contorno ben gradito per accompagnare le carni, infatti, era proprio a base di frutta cotta in miele e spezie. Il pesce, al contrario della carne, era invece un alimento molto diffuso, consumato sia fresco sia in salamoia.

Mosaico dalla Villa dei Numisi, Roma (oggi ai Musei Vaticani)
La colazione romana

Solo la cena, nell’antica Roma, prevedeva l’organizzazione della tavola per un pasto propriamente detto. La colazione, così come anche il pranzo, era costituita da un rapido spuntino. Per gli antichi romani, la colazione prendeva il nome di ientaculum ed era giusto un po’ meno frugale del pranzo. Infatti, spesso durante la colazione si consumavano gli avanzi della sera prima, rendendola abbondante ed energetica. Non mancavano, infatti, focacce, pane, scodelle con miele e latte, a cui si aggiungevano spesso frutta, formaggio, pane intinto nel vino e carne avanzata.

Frutta, pesci e volatili in un mosaico pompeiano

Una colazione che oggi lascerebbe delusi molti soprattutto per la mancanza di due alimenti per noi ormai fondamentali: il caffè e la cioccolata. Entrambi questi alimenti, infatti, non erano ancora noti al mondo romano. Il caffè si trovava ancora allo stato selvatico in Etiopia e solo con il Medioevo inizierà la sua diffusione, dapprima confinata quasi esclusivamente al mondo islamico. I sacchi di caffè partivano per l’Occidente da uno dei porti principali sul Mar Rosso, la località di Mokha, il cui nome è arrivato fino alle nostre odierne cucine. La pianta del cacao, invece, cresceva in Mesoamerica e non sarebbe arrivata in Europa prima della scoperta dell’America. Inoltre, il cacao puro è estremamente amaro e anche dopo la sua importazione bisognerà aspettare diversi secoli prima che qualcuno inizi a mescolarlo con lo zucchero per creare il cioccolato.

Un pranzo al volo

Il momento del pranzo per un antico romano si basa su una veloce pausa durante le attività lavorative giornaliere e prende il nome di prandium (o ientaculum  quando è più leggero). Le pietanze principali sono legumi, uova sode, pesci in salamoia (generalmente alici) o alla griglia, formaggi di pecora o di capra, cipolle, olive e fichi. Non mancano le focacce o il pane (quando sarà il momento) insieme al vino caldo e a della carne cotta con il rosmarino. Una delle bevande più gettonate era il piperatum o conditum: miele, vino e acqua calda mescolati con pepe ed estratti aromatici.

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Uova sode e volatili (Pittura pompeiana)

Ma la peculiarità del pranzo degli antichi romani risiede più nel luogo di consumazione che negli alimenti. Difficilmente un lavoratore romano fa rientro nella propria abitazione per pranzare. Si fermerà, piuttosto, in uno dei tanti luoghi della città che forniscono bevande (taberna vinaria) e cibo (popina appunto). Al giorno d’oggi ormai quasi tutti abbiamo sentito nominare, anche grazie a recenti rinvenimenti a Pompei, il termine thermopolium per indicare un luogo in cui veniva servito del cibo. In epoca romana, tuttavia, sembra che al greco thermopolium si preferisse il vocabolo autoctono popina. Un luogo che si può paragonare alle moderne osterie, con un bancone posto all’ingresso con incastonate delle grandi anfore tonde (dolia) contenenti gli alimenti. Un altro elemento tipico delle popinae è la presenza di tavoli e sedie, proprio come i nostri, in alternativa allo stare in piedi al bancone. Per l’uso del famoso triclinio si dovrà, invece, aspettare la cena.

Il pasto principale: la cena

A Roma e nel mondo romano c’era un solo pasto degno di questo nome, un unico pasto giornaliero per cui venisse imbandita la tavola. Si tratta, appunto, della cena, da consumare in tranquillità attorno a un tavolo. La presenza del triclinium dipende, però, dalla classe sociale. Una domus completa di ambienti con triclinia era sicuramente un’abitazione aristocratica.

Ambiente con triclinia dalla Villa dei Misteri, Pompei

La maggior parte della popolazione, povera e residente nelle insulae, palazzoni affollati, condivideva alcuni ambienti comuni in cui si cenava attorno al tavolo seduti su panche. Ma nelle case dei più ricchi non mancavano i banchetti, ospitati in una stanza particolare, il triclinium appunto, che prende il nome dai letti (triclinia) a tre posti su cui si stendevano i commensali.

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Scene di un banchetto nel triclinium in un affresco pompeiano

Un banchetto degno di questo nome di solito prevedeva degli antipasti (gustatio), i piatti principali, con arrosti e dolci (secundae mensae), per un totale di almeno sette portate (fercula). Il banchetto, abitualmente, terminava con la commissatio, una parte dedicata a brindisi, canti, giochi e intrattenimenti.

Alcune ricette

Così come ai giorni nostri, anche la Roma antica aveva i suoi “chef stellati”. Uno di questi è Marco Gavio Apicio, attivo durante l’epoca di Tiberio, autore del De re coquinaria, il più famoso manuale di cucina dell’età romana. Apicio, in realtà, era un cittadino romano di notevole ricchezza, amante della bella vita e del buon cibo. Il suo ricettario non è pervenuto, è noto, però, da una raccolta di 468 sue ricette realizzata, trecento anni dopo, da un altro cuoco romano. Plinio il Vecchio lo definisce come «il più grande tra tutti gli scialacquatori» e sembra che a lui si debba l’invenzione di qualcosa di simile al foie gras. Egli nutriva le oche con fichi, in modo da far loro ingrossare il fegato e da qui deriva il termine ficatum che passò poi a designare il fegato.

Tra le molte ricette da lui riportate vi è quella del garum, una salsa di pesce salato e fermentato con l’aggiunta di erbe aromatiche. Tra le pietanze più usate c’era poi l’hypotrimma, una salsa per insalate a base di pepe, menta, levistico, uva secca, pinoli e datteri a cui andavano aggiunti formaggio fresco con miele, aceto e mosto cotto. E, ancora, i dolcetti fatti in casa, dulcia domestica: «togliete il nocciolo ad alcuni datteri e riempiteli con pepe tritato, noci o pinoli. Versate un po’ di sale e cuocete nel miele. Servite in tavola», così ritorna a noi una delle ricette principali. Ricetta di cui, però, non riusciamo ad immaginare il sapore e che, un po’, fa storcere il naso.

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Dulcia domestica in una pittura pompeiana

Una cosa è certa, però: grazie all’uso sempre attuale degli ingredienti, chi fosse abbastanza temerario da provare, potrebbe ricreare e assaporare direttamente il gusto dell’antica Roma.

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NEWS | Pompei tra cibo e botteghe: torna alla luce il Thermopolium (PHOTOGALLERY)

Pompei non smette di sorprendere nemmeno durante il lockdown natalizio. Infatti, la Regio V ha restituito un Thermopolium in buono stato di conservazione; si tratta di una struttura molto amata dai romani, un luogo di ristoro dove era possibile acquistare cibi pronti per il consumo: dal greco ϑερμός, «caldo» e πωλέω, «vendere».

Il Thermopolium è ubicato di fronte alla “Locanda dei Gladiatori”, quasi all’angolo tra il vicolo dei Balconi e la via della Casa delle Nozze d’Argento. Era già stato individuato nel 2019 nell’ambito del Grande Progetto Pompei; un timido inizio degli scavi aveva riportato in luce il dipinto di parte del bancone a L con una Nereide con cetra che cavalca un ippocampo

Il bancone a L del Thermopolium con dipinto di Nereide con cetra che cavalca un ippocampo

Cosa bolliva in pentola al momento dell’eruzione?

Dalle parole di Massimo Osanna, Direttore Generale dei Musei MiBACT, il Thermopolium sembra esser proprio una fotografia di quel giorno nefasto del 79 d.C. Il grande bancone a L contiene dei recipienti in terracotta, dolia, ricavati nel suo spessore che contengono interessanti e, all’epoca, prelibati resti di cibo al loro interno.

All’opera è un team interdisciplinare composto da un antropologo fisico, archeologi, un archeobotanico, un archeozoologo, un geologo e un vulcanologo. Alle analisi già effettuate in situ saranno affiancate ulteriori analisi chimiche in laboratorio per comprendere i contenuti dei dolia”, commenta Osanna.

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Lo studio dei resti nei dolia incassati nello spessore del bancone

Un grande team multidisciplinare ha permesso di scoprire molto in situ e tanto altro ci riserverà nei prossimi giorni di studio. L’archeozoologa Chiara Corbino ha individuato resti di una pietanza composta da mammiferi, uccelli, pesce e lumache. L’archeobotanica Chiara Comegna è intervenuta invece sul vino: doveva esser corretto con fave, che servivano per sbiancarlo e per correggerne il gusto; era infatti conservato in un dolium che aveva sul fondo una tegola: serviva a separare i legumi dalla bevanda senza contaminarla troppo. L’ambiente circostante al bancone doveva presentarsi così come in un altro dipinto, che ha come protagoniste delle galline appese e un gallo appollaiato vicino: questi e altri animali dovevano esser macellati e le loro carni cucinate e vendute nel locale.

Accogliente il Thermopolium, non tanto chi ci lavorava

Accanto al dipinto delle galline appese e del gallo appollaiato, protagonista di questa parte del bancone è un cane al guinzaglio. Desta stupore il ritrovamento di resti ossei di un cane a un passo di distanza dal dipinto; l’animale era adulto, ma di taglia piccola: sembra fosse attiva la selezione delle razze per gli animali da compagnia. Sembra quasi un monito alla maniera del Cave canem, ma sulla cornice dello stesso dipinto appare altro, un’iscrizione graffita: Nicia cinede cacator tradotto sulla pagina Facebook del MiBACT con Nicia cacatore, invertito; si tratta di un insulto rivolto al proprietario del locale o a chi ci lavorava, molto probabilmente un liberto. Le iscrizioni graffite erano vere e proprie forme di scrittura estemporanea realizzate attraverso strumenti casuali, anche trovati per strada; Pompei ne è piena: ci mettono a contatto con la vita quotidiana dell’epoca.

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Dipinto di cane al guinzaglio e iscrizione graffita sulla cornice

Vite intrappolate nel Thermopolium

La bottega sembra essere stata chiusa in tutta fretta e abbandonata dai proprietari, ma è possibile che qualcuno, forse l’uomo più anziano, sia rimasto al suo interno e sia morto nella prima fase dell’eruzione, schiacciato dal crollo del solaio. Il secondo potrebbe essere invece un ladro o un fuggiasco affamato, entrato per racimolare qualcosa da mangiare e sorpreso dai vapori ardenti con in mano il coperchio della pentola che aveva appena aperto”, commenta Osanna.

Nel Thermopolium sono stati rinvenuti anche dei resti umani relativi a due individui. Uno di loro doveva avere una cinquantina d’anni, stando all’ipotesi dell’antropologa Valeria Amoretti; al momento dell’eruzione si trovava su una branda e pare che sia stato schiacciato dal solaio. Mentre le ossa del presunto fuggiasco sono ancora da indagare.

Non solo le ossa, ma tutto il complesso è ancora da studiare meglio. L’idea è di aprire le visite al Thermpolium nel periodo pasquale, in primavera.

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Resti ossei dietro il bancone del Thermopolium