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SPECIALE GIORNO BUIO | Gli anni del terrorismo raccontati dalla figlia di un magistrato: “Non c’era paura tra noi. Solo una sorta di accettazione”

Cosa significava vivere in Italia negli anni del terrorismo? Cosa significava essere una famiglia “presa di mira” dalle Brigate rosse? Lo abbiamo chiesto a Flavia Mandrelli, che nella seconda metà degli anni ’70 era una studentessa universitaria. Assieme alla sua famiglia ha vissuto in prima persona gli anni del terrorismo.

Flavia Mandrelli (foto da: La Nuova Riviera)
Il racconto di Flavia Mandrelli

«Era la seconda metà degli anni ’70. Un tempo di contrasti: la crisi del petrolio (1973) aveva avuto un impatto disastroso sul debito pubblico e si lottava ogni giorno per poter mantenere le conquiste di uno stato sociale che i governi democristiani si pensava volessero smantellare. Le generazioni si incontravano, lottavano insieme, manifestavano ogni giorno per il mantenimento e la conquista di nuovi, necessari diritti. C’era una tensione crescente nell’aria, dovunque in Italia. Gli “opposti estremismi” li chiamavano. Nelle piazze delle città, anche le più piccole, c’erano i “luoghi” della destra e quelli della sinistra. Si fronteggiavano spesso. Poi, il salto. Alcuni entrarono nella clandestinità.  Scelsero la “lotta armata”. In tutto il Paese. 

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Famosa foto durante la crisi del petrolio del 1973

Cominciarono le stragi. Gli assassini. I proiettili. Ci si alzava chiedendosi chi avrebbero colpito quel giorno. Chi la vittima: un giornalista, un magistrato, un sindacalista, un politico. Chi?

Anche nelle Marche si formò quella che venne chiamata la “colonna marchigiana” delle Brigate rosse. Le indagini le fece mio padre, Mario Mandrelli, procuratore della Repubblica ad Ascoli Piceno. Divenne un bersaglio. Il primo di una lista di nomi fatta recapitare agli inquirenti. Gli assegnarono una scorta: orari che cambiavano, auto blindate, attese in luoghi sempre diversi. E la pistola sotto la coscia perché mio padre voleva guidare la sua auto in modo da non mettere in pericolo i giovani carabinieri che dovevano proteggerlo. 

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Mario Mandrelli

Finché l’auto, una notte, prese fuoco. Papà uscì con la pistola poi capì che bisognava spegnere il fuoco prima che l’auto esplodesse. Fu aiutato dai vicini che corsero in strada con coperte per soffocare le fiamme. Poi, da quel momento, cominciò il controllo. Sempre qualcuno a piantonare la casa, a proteggere chiunque entrava o usciva dal palazzo sul mare in cui abitavamo a San Benedetto del Tronto. 

Non c’era paura tra noi, solo una sorta di accettazione di una realtà complessa, dura ma che non impediva una vita normale, lo studio, le passeggiate, gli amici.

 Fino a che, una sera, all’Università di Macerata, mentre tornavo nell’appartamento che dividevo con mio fratello e le mie sorelle, mi accorsi di due persone che, dentro un’auto parcheggiata all’angolo opposto della strada, osservavano ogni movimento. La mattina dopo erano ancora lì.  La sera di nuovo. Con i miei fratelli ci convincemmo di essere seguiti dai terroristi su cui mio padre stava indagando. Telefonata a casa. Papà ci disse “vi proteggono, sono della DIGOS”».

Ringraziamo Flavia Mandrelli per averci raccontato la loro storia. 

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SPECIALE GIORNO BUIO | Nel ricordo delle vittime di mafia: Nino D’Uva nelle parole del figlio Gennaro

Il 6 maggio del 1986 a Messina venne ucciso Nino D’Uva, avvocato penalista e difensore del maxiprocesso contro la mafia messinese, iniziato il 14 aprile dello stesso anno. Su 283 imputati, esponenti di spicco delle associazioni mafiose cittadine, una ventina avevano scelto lui come difensore; il processo fu estremamente complesso e D’Uva dimostrò tutta la sua professionalità cercando dialogo costruttivo tra le parti in causa. Nonostante ciò, circa un mese dopo, nell’ufficio del legale, nella centralissima via di San Giacomo a Messina, si consumò il suo brutale omicidio. Nino D’Uva spalancò inconsciamente le porte al suo assassino, che lo colse alle spalle, durante una telefonata, piantandogli un colpo di pistola alla nuca

Uva
L’avvocato Nino D’uva

Lunga e complessa è stata la vicenda giudiziaria che ha seguito l’assassinio D’Uva. In occasione della Giornata e dello speciale dedicatoparla per la nostra redazione Gennaro D’Uva, figlio di Nino; ringraziamo il deputato Francesco D’Uva, figlio di Gennaro, per averci messo in contatto con il padre.

Gennaro D’Uva, figlio di Nino D’Uva
Che persona era Nino D’Uva? Si sente di condividere con noi qualche ricordo in particolare di suo padre?

Non parlo di papà come avvocato, parlavamo pochissimo della sua attività professionale. Papà era un uomo di svariati interessi: se non avesse fatto l’avvocato avrebbe potuto fare l’insegnante di lettere, il critico d’ arte, magari lavorare in un teatro. Quando finiva la sua attività in studio ascoltava musica classica. Amava giocare a carte con gli amici: briscola e tressetteAmava tanto la buona cucina ed il mare e faceva lunghissime nuotate. Mi ha insegnato ad amare la musica. Ricordo che da piccolo mi portò a Taormina, in piazza Duomo eseguivano l’Histoire du soldat di Stravinsky e fu il primo dei tanti concerti insieme.

Quando compii 21 anni lo accompagnai a Roma in Cassazione e poi mi portò all’Auditorium di via della Conciliazione per ascoltare Natal Milnstein che eseguiva i concerti per violino di Mozart e Bruch e poi l’indomani al teatro dell’Opera in loggione per Cavalleria Rusticana e Pagliacci. Fino alla riapertura del Teatro «Vittorio Emanuele» con la difesa sulla Gazzetta del Sud della compagnia polacca – mediocre in verità – che eseguiva le opere: “Spezzo una lancia in favore dei polacchi” era il titolo. Vedeva sempre il bicchiere mezzo pieno.

Come ha appreso la notizia della sua scomparsa? Ricorda il momento?

Ero a Roma per il primo giorno di corso di medicina del lavoro, un corso di 8 settimane. Alloggiavo all’hotel King in via Sistina ed avevo cenato al Circolo Ufficiali delle Forze Armate al Palazzo Barberini, ritornavo in albergo e vidi la gente che sfollava dal Teatro Sistina. Vidi gli zii romani di mia moglie e pensai che avessero preso parte allo spettacolo, ma, quando mi comunicarono la notizia, feci i bagagli, pagai il conto, il mio collega Stefano Tiano che aveva appreso la notizia dalla TV mi diede un tranquillante. Gli zii mi accompagnarono a Roma Tiburtina e presi il treno notturno per la Sicilia.

Il treno era deserto, feci un viaggio allucinante. La mattina a Villa San Giovanni mi prese mio cognato e mi accompagnò a casa di papà. La salma non c’era, era all’Istituto di Medicina Legale.

L’avvocato Nino D’Uva
Secondo lei oggi a Messina esiste ancora un circuito mafioso articolato oppure, negli ultimi anni, la lotta alle mafie sta debellando questa piaga?

Non so rispondere con vera cognizione. Ho l’impressione che la lotta alla mafia stia dando dei risultati qui a Messina. Ma la battaglia è ancora lunga e le recenti retate della Polizia indicano quanto ci sia ancora da fare.

E in Sicilia o, più in generale, in Italia?

La mafia mi pare di capire che abbia cambiato pelle e cerchi di insinuarsi nelle istituzioni, nelle gare d’appalto, nella grande corruzione. Magari spara di meno, ma per questo forse è ancora più pericolosa perché riesce a mimetizzarsi molto meglio. E ricordiamoci come la ‘ndrangheta stia proliferando al Nord e all’estero. Quando apprendo le notizie di arresti di colletti bianchi qui in Sicilia mi sento cascare le braccia.

Oggi è la ricorrenza della “Giornata più buia di Italia” che corrisponde agli omicidi di Aldo Moro, Peppino Impastato e generalmente di tutte le vittime delle mafie. Cosa prova in questo giorno particolare?

Magari tutti i Siciliani avessero lo stesso coraggio di Impastato. Ho vissuto il caso Moro, ero imbarcato su Nave Proteo quando arrivò la notizia. Il caso Moro è una delle pagine più buie della nostra Repubblica. Ancora oggi la verità non è venuta fuori, la sapremo mai?

Cosa si sente di dire a chi, come lei, ha vissuto situazioni simili o di consigliare a chi magari le sta vivendo ancora?

Io, malgrado tutto, continuo ad avere fiducia nello Stato, non mi voglio arrendere. Bisogna lavorare sui giovani, inculcare loro il valore della legalità, della correttezza e della giustizia. Assistiamo purtroppo a casi di mala politica, mala giustizia ecc… ebbene, non tutto è così! Ecco guardiamo come faceva papà al bicchiere mezzo pieno perché, nonostante tutto, io sono come lui: un ingenuo ottimista. Prima o poi ne verremo fuori.

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SPECIALE COVID | Studiare Archeologia da fuori sede: il pensiero di Gerlando Dario Fiaccabrino della Sapienza di Roma

Il pensiero degli studenti fuori sede cade spesso nel dimenticatoio in questo difficile periodo, anche quando, raramente, il Governo si ricorda delle Università e dei suoi studenti. Lo studente fuori sede ha dovuto affrontare problemi nuovi con il Covid, non soltanto di natura pratica e logistica: affitti, tasse, borse di studio, ma anche altro. Nessuno può testimoniare meglio di uno studente di Archeologia fuori sede quanto la DAD abbia dato e tolto: ha diminuito le distanze con la famiglia, ma ha allontanato da scavi e laboratori. Un interessante punto di vista a riguardo è offerto da Gerlando Dario Fiaccabrino, studente triennale che, partendo da Agrigento tre anni fa, ha deciso di intraprendere il Corso di Scienze Archeologiche alla Sapienza di Roma.

Essere uno studente fuori sede non è facile, né piacevole, porta ad allontanarti da ciò che ami. Luoghi in cui sei nato e cresciuto, affetti personali: sei costretto a lasciare tutto nella speranza di poterti ricongiungere con essi il prima possibile. Ma esiste qualcosa che mi ha dato la forza di staccarmi dalla mia Sicilia: la passione per l’archeologia. Essa mi ha portato fino a Roma, dove ho avuto la possibilità, tramite laboratori ed esperienze di scavo, di toccare con mano quello che ho letto sui libri, di vivere una storia che parla attraverso la cultura materiale. È sullo studio di quest’ultima che l’archeologia moderna si fonda: è quindi indispensabile per un aspirante archeologo, secondo il mio parere, l’esperienza sul campo che a causa della pandemia è venuta meno. Nonostante la distanza da casa si facesse sempre sentire, amavo la mia nuova vita a Roma. Mi è stata però sottratta dall’emergenza Covid che, come è noto, tra le tante cose, ha portato a sospendere tutto il necessario per la formazione di un archeologo. La DAD, per quanto utile, non può di certo colmare tal vuoto. Mi chiedo se sarà possibile recuperare in futuro le esperienze che avrei dovuto fare quest’anno, se ciò non inciderà sulla mia formazione. Mi domando quando potrò tornare a studiare i reperti e ad emozionarmi osservandoli. Se pur, dunque, la situazione attuale mi abbia permesso di tornare a casa e di stare con la mia famiglia, rimpiango il tempo in cui potevo studiare nei musei o partecipare a scavi archeologici. Rimpiango, per certi versi, anche il sentimento di lontananza da casa, che però sono pronto a sopportare pur di far ciò che amo: vivere l’archeologia“.