La Missione Archeologica della Sapienza nella Penisola Arabica e nel Golfo (MASPAG) riprende le attività in Oman. L’area indagata si divide tra il complesso funerario di Daba Al-Bayah e l’oasi di Wadi Al-Ma’awil; quest’ultima indagata per la prima volta. In quest’occasione anche ArcheoMe sarà presente sul campo con il proposito di documentare e condividere l’avanzamento dei lavori.
L’Italia al di là dell’Italia
Non si parla spesso delle missioni archeologiche italiane all’estero, a meno che un importante ritrovamento non riesca a imporsi agli occhi dei media. Si verifica un improvviso picco d’interesse nell’opinione pubblica; poi, tutto tace e la ricerca italiana all’estero torna nell’ombra. Tuttavia, l’archeologia non è sinonimo di scoperte sensazionali, non è avvenirismo, ma lavoro costante, dedizione, e spesso ostacoli difficili da immaginare. ArcheoMe e MASPAG (social: FB- maspag; IG- maspag_archaeo) credono nell’importanza di raccontare la zona d’ombra dietro le grandi scoperte, con l’obiettivo di far comprendere come si arrivi a “riscrivere la storia”, frase spesso usata senza cognizione di causa che non rende giustizia ad una realtà molto più frequente di quanto si possa pensare. Questo viaggio dietro le quinte sarà raccontato da Edoardo Zanetti, dottore in filologia e storia del mondo antico, che avrà cura di documentare una storia diversa, quella degli archeologi italiani oltre i patrii confini.
L’attività di ricerca italiana in Oman
L’Oman è un luogo per certi versi magico: sospeso tra l’oceano e le alte montagne che lo separano dall’aridità del deserto. Questo è almeno il panorama che si può osservare dalla città di Muscat, base logistica per la missione italiana che indaga il contesto archeologico presso Wadi Al-Ma’awil. Sono state, infatti, individuate tracce di un insediamento connesso ad un’ampia necropoli. L’obiettivo del team italiano sarà quella di comprendere il rapporto tra uomo e ambiente agli albori della storia. «Più di quarant’anni di ricerca archeologica in Oman ci forniscono un quadro ampio e complesso dell’origine della società araba, ma c’è ancora tanto da fare» sono le parole del Professor Genchi. Il professor Ramazzotti aggiunge che «le ricerche archeologiche in Oman centro-settentrionale sono un Grande Scavo di Sapienza dal 2019, un’altra gemma dell’archeologia orientale nel mondo». Sarà svolta, pertanto, un’intensa indagine sul territorio con interessanti aggiornamenti che ArcheoMe non mancherà di documentare nei giorni a venire.
Come quasi ogni estate il Tevere è interessato da una notevole diminuzione della portata d’acqua; quest’anno in particolar modo, tra l’altro. Ed è quest’anno che, in maniera più evidente, sono riemersi i resti dei piloni dell’antico Ponte Neroniano, o Ponte Trionfale, che si trova a ridosso del ponte Vittorio Emanuele II.
Il Ponte Trionfale
Vicino al ponte Vittorio Emanuele II, infatti, sono affiorati i resti dei piloni del ponte antico. Realizzato, sembra, durante l’epoca di Nerone, il ponte fungeva da collegamento tra il Campo Marzio e il Circo di Caligola, a sinistra dell’attuale Basilica Vaticana. Era su questo ponte che passava la via Triumphalis, che procedeva fino a Veio. Nel 405 a.C. alcuni imperatori vi costruirono un arco di trionfo in ricordo della vittoria di Pollenza contro i Goti di Alarico (402 a.C.).
Non è la prima volta che i resti riemergono dal letto del fiume. Anzi, nei secoli passati, riemergevano con ancora più evidenza vista la mole più massiccia di resti presenti. Solo nel corso del XIX secolo, infatti, i piloni sono stati demoliti per facilitare la navigazione. Quest’anno, tuttavia, la loro presenza al di fuori dall’acqua fa discutere maggiormente, considerato il clima di siccità che sta colpendo anche i fiumi più grandi del nostro territorio.
SI ha notizia dei piloni visibili al di fuori delle acque del Tevere agli inizi del XVI secolo, con un conseguente restauro voluto da papa Giulio II. La sua esistenza è testimoniata anche dalle incisioni di Giuseppe Vasi che, nel corso del XVII secolo, ha parlato dei piloni che emergevano dal fiume e di come venissero utilizzati per ormeggiare i mulini attivati dalla potenza del Tevere. Nell’Ottocento, i piloni furono distrutti per poter facilitare la navigazione prima e la costruzione del nuovo ponte Vittorio Emanuele II poi. Da allora le secche del fiume fanno emergere la storia.
In copertina: i resti del ponte antico a ridosso del ponte Vittorio Emanuele II (immagine via TGCom24)
Si è da poco concluso l’11° Colloquium Internazionale del Deutsche Orient-Gesellschaft, tenutosi nella città tedesca di Lipsia (16-19/06/22). Si tratta di un importante appuntamento accademico dedicato allo studio dell’ambiente in cui si svilupparono le società del Vicino Oriente Antico.
Il Vicino Oriente Antico in Europa
Per certi versi, si potrebbe pensare che tale evento riguardi solo da lontano il mondo italiano. Invece, l’interesse nostrano per l’area vicino orientale e la sua forte presenza in ambito internazionale sono una realtà ben affermata, seppur non se ne parli molto.
Parlare di “ricerca” è abbastanza semplice. Eppure, “cosa sia la ricerca” è spesso un mistero. Soprattutto in relazione al campo storico, filologico, archeologico. In effetti, la specializzazione degli studi ha raggiunto una tale profondità da non poter più essere compresa dal cittadino comune, se non per mezzo di un intermediario: il divulgatore scientifico, nei limiti delle sue possibilità. Gli argomenti presentati in occasione dell’11° Colloquium a Lipsia sono, in effetti, molto complessi, seppur assolutamente affascinanti. In relazione all’ambiente, si è parlato del ruolo degli animali in Mesopotamia negli incantesimi, divinazione o addirittura nelle favole. Si è parlato di piante e del loro utilizzo, diffusione, simbolismo. È stato poi analizzato il territorio, in relazione al suo sfruttamento, o alla gestione delle acque. Si è persino parlato di come il meteo influisse sulla vita quotidiana delle persone, o di come queste percepissero la primavera 5 millenni fa.
Il Vicino Oriente Antico e gli studiosi italiani
Nei quattro giorni in cui si è svolto il convegno, un mondo antico, per certi versi perduto, è rinato attraverso le ricche esposizioni dei relatori invitati a parlare. Tra questi figuravano anche accademici di origine italiana. In ordine di programma ecco gli argomenti trattati. La Dott.sa Nicla De Zorzi, professoressa presso il dipartimento di Studi Orientali dell’Università di Vienna, ha proposto un intervento sulla figura degli animali nella Divinazione in Mesopotamia. Il Dr. Carlo Corti, ricercatore presso il dipartimento di Studi Storici dell’Università degli Studi di Torino, ha presentato un intervento sulla viticoltura presso il popolo degli Ittiti. Il Dr. Edoardo Zanetti, ricercatore indipendente, ha parlato di ingegneria idraulica nel III mil. a.C., e di ricostruzione del paesaggio sumerico. Infine, il Dr. Tommaso Scarpelli, dottorando presso l’Istituto di Oriente Antico presso l’Università di Lipsia, ha condiviso i suoi dati relativi all’impatto meteorologico sui viaggi in Mesopotamia.
Il piacere di confrontarsi, il piacere di ritrovarsi
L’evento tenutosi nella storica Biblioteca Albertina, ha richiamato a Lipsia ricercatori provenienti da tutto il mondo, Italia compresa. Non certo una sorpresa, sono moltissimi i colleghi italiani perfettamente inseriti nel contesto internazionale. In ogni caso, una precisazione è dovuta: accademicamente il panorama nostrano è composto tanto da studiosi che operano sul territorio nazionale, quanto da personalità che invece proseguono le proprie carriere all’estero. Gli appuntamenti internazionali, dunque, non solo costituiscono una grande momento di confronto e dibattito, ma offrono soprattutto una preziosa occasione di riavvicinamento tra colleghi connazionali così distanti l’un dall’altro. Da un punto di vista personale, quei sorrisi, quegli abbracci, quegli “A presto!”, scambiati tra una presentazione e l’altra sono uno dei fuochi che alimentano la ricerca stessa, lo stimolo per affrontar le difficoltà, il sostegno per non abbandonare i propri progetti. Una bellezza da difendere nonostante la crisi che colpisce anche il mondo accademico, soprattutto italiano.
Il 1 Giugno 1307 le fiamme misero fine alla vita di Fra Dolcino. Fu predicatore eretico che con tale vigore influenzò il suo mondo da meritarsi una citazione nella Divina Commedia. Infatti, Maometto, attraverso la penna di Dante, ne profetizza l’arrivo. Lo fa da un luogo singolare: la bolgia dei seminatori di discordie e degli scismatici.
Il fatto storico
Il 1306 la predicazione di Fra Dolcino chiamò contro di sé una crociata. Furono Papa Clemente V e il vescovo Raniero di Vercelli a volerla, e così i dolciniani si ritrovarono costretti a combattere per difendere la propria vita, non solo le proprie idee. Il Monte Rubello divenne fortezza per eretici che riuscirono, per quasi un anno, ad opporsi alle forze di Raniero. Tuttavia, dopo un lungo logoramento, i dolciniani furono alfine sopraffatti. L’assedio li aveva costretti a mangiar i morti tanto erano affamati, e per questo i crociati giustiziarono i sopravvissuti. Non tutti. Fra Dolcino, la sua compagna Margherita ed il luogotenente Longino, furono processati e condannati a morte nel 1307. Margherita e Longino finirono arsi vivi sulle sponde del torrente Cervo. Dolcino subì invece l’umiliazione pubblica prima estinguersi tra le fiamme di fronte la Basilica di Sant’Andrea a Vercelli.
Le idee
Il pensiero di Fra Dolcino rientra nel più vasto panorama di idee millenariste che circolavano diffusamente in epoca medievale. Nello specifico, la predicazione dolciniana consisteva in una stretta adempienza al messaggio evangelico, sostenendo un forte principio di povertà e credendo in un imminente castigo divino. La Chiesa, in particolare, era accusata di immoralità, di aver tradito i veri valori cristiani. Dolcino seppe essere così convincente da conquistarsi la fiducia di Matteo Visconti, con il quale ottenne militarmente il controllo della Valsesia nel 1304. Eppure, il successo durò poco: solo un anno più tardi il Visconti ritirò il proprio appoggio, e le truppe crociate guidate dal vescovo di Vercelli si misero in marcia.
Curiosità oltre la storia
La vicenda dolciniana è l’ombra che aleggia sui personaggi de “Il nome della Rosa” di Umberto Eco. Nel romanzo numerosi sono gli accenni al contesto storico e sociale in cui si mosse Dolcino. Tra gli altri il personaggio di Bernando Gui fu effettivamente l’inquisitore che sentenziò la morte per i dolciniani nel 1307.
Nei rilievi che animano la colonna traiana vi è un personaggio che troppo spesso resta in ombra agli occhi dei più. È Decebalo, re dei daci, il grande avversario di Traiano e pietra d’inciampo per la politica romana. Lo si vede, in particolare, nella scena 106 della colonna, nell’atto di suicidarsi ormai circondato dai romani. Una fine tragica che segna la fine della seconda campagna dacica, ed il trionfo di Traiano. Eppure, Decebalo fu più di una testa mozzata portata in dono all’imperatore romano. Fu un degno rivale, senza il quale non sarebbe ma stato realizzato uno dei monumenti più importanti della Roma imperiale. Conoscerne la storia, pertanto, è indispensabile: non esistono eroi senza i loro avversari.
Decebalo: l’uomo, il re, il nemico
I romani conoscevano l’importanza dell’attribuire dignità al nemico e per Decebalo non fanno eccezioni. Per quanto questo personaggio sia uno sconfitto, è evidente come nei rilievi lo si mostri fiero, possente, come un uomo in grado di trasmettere sensazioni contrastanti: fascino, in quanto ultimo re della Dacia, morto per essa; timore sapendolo a capo di un regno ostile che osò sfidare l’impero. Lo storico Cassio Dione ne fa una descrizione che ben rivela il carattere di questo illustre sconfitto: doppiamente scaltro; abile in attacco, sia nel ritirarsi; esperto nell’imboscate tanto quanto nello scontro campale. Ma soprattutto: non solo sapeva bene come sfruttare la vittoria, ma era abile a limitare i danni in caso di sconfitta. È chiaro, quindi, che l’allargamento di Roma in Dacia non fu semplice come il far passare lo sguardo sui rilievi della colonna traiana. Si trattò di un’impresa ardua, e dall’epilogo non scontato.
Il re che sfidò l’impero
La vicenda storica di Decebalo inizia con una sconfitta. Persa la guerra al tempo di Domiziano il re della Dacia dovette accettare la pace. Non si trattò, tuttavia, di un trattato umiliante. Infatti, in cambio della fine delle ostilità Roma, incalzata dalle tribù germaniche, avrebbe pagato un tributo. Ne consegue che Decebalo ottenne così i fondi per ricostruire le proprie forze, tanto da allarmare il nuovo imperatore, Traiano. La guerra fu inevitabile, e probabilmente voluta da entrambe le parti. Vi furono due campagne, e seppur la resistenza di Decebalo fu estenuante, una dopo l’altra le roccaforti daciche caddero. Decebalo continuò a combattere arroccandosi tra le montagne ma, circondato, preferì darsi la morte insieme ai suoi compagni. E con lui scomparve anche il regno di Dacia, ormai inglobato nell’Impero Romano.
Un’insolita rivalsa
Seppur Decebalo sia stato scolpito nella colonna traiana nei panni dello sconfitto, il suo spirito può forse tornare a sorridere sprezzante. A circa 2000 anni dalla sua morte, l’imprenditore Iosif Constantin Drăgan ha finanziato la costruzione di un’imponente scultura rupestre dedicata a Decebalo. Si tratta del rilievo roccioso più alto d’Europa, a ridosso della gola del Danubio detta Porte di Ferro, un passaggio strategico nella guerra tra romani e daci. La realizzazione dell’opera avvenne tra il 1992 e il 2004, con la collaborazione scultore italiano Mario Galeotti che diede forma al progetto nella sua fase iniziale. Così, il volto serio di Decebalo è tornato a scrutare quelli che furono i confini del proprio regno, e a guardare con sdegno la Tabula Traiana che svetta sul lato opposto del fiume. Si tratta di un’iscrizione lasciata da Traiano, prova del suo passaggio attraverso le Porte di Ferro. Pertanto, la guerra non è ancora finita: Tiberio e Decebalo, ognuno nella propria roccia, ancora una volta si oppongono.
La parola Guerra è tornata d’uso comune, soprattutto in relazione alle vicende di Russia e Ucraina. Non la si pronuncia più per riferirsi ad episodi storici o ad eventi percepiti lontani da noi, ma per descrive la nostra quotidianità o il nostro futuro prossimo. La guerra, tuttavia, non ha origine nel presente, ma è un affare antico almeno quasi quanto la storia stessa. Conoscerne gli inizi, pertanto, non è tempo sprecato.
Il contesto storico
La storia inizia canonicamente con l’invenzione della scrittura, alla metà del IV mil. a.C. nella città sumerica di Uruk (Iraq). I primi testi erano rendicontazioni amministrative, ma già alla metà del III mil. a.C. la scrittura è messa al servizio della narrazione, dell’affermazione della memoria. Si potrebbe immaginare che, tutti questi millenni fa, i ricordi dell’uomo fossero legati a semplici problemi di vita quotidiana, non certo ai grandi affari e interessi che caratterizzano il mondo contemporaneo. Invece no, le prime cronache del mondo antico parlano proprio di politica estera e di quanto fosse complesso la convivenza con i vicini. Lo sappiamo dalla testimonianza di Ur-Našše, re della città sumerica di Lagaš, a cui è attribuito il più antico resoconto di guerra mai scritto dall’uomo, e non va certo per il sottile.
Bronzo e sassi
Ci troviamo in piena età del bronzo quando re Ur-Našše di Lagaš sale al potere. Dai testi conosciamo il suo grande interesse per la sistemazione ambientale del territorio, la prima pianificazione di una vasta rete idrica. Ciò comporta l’allargamento dei confini di stato per la volontà di sfruttare le sempre più ampie zone agricole, ma Ur-Našše non è solo. Gli stati di Ur e di Umma guardano le ricchezze del regno di Lagaš con certo interesse, e lo attaccano, vogliono le sue risorse. Sappiamo che l’attacco arrivò via terra, ma anche tramite imbarcazioni. È possibile sostenerlo perché tra i prigionieri fatti da Ur-Našše figura un comandante delle barche cargo, evidentemente impiegate per il trasporto di uomini e carri. Lo scontro fu cruento, e il resoconto del re di Lagaš non lascia adito su come finì questa vicenda, testimonianza che vale la pena leggere proprio così come fu scritta.
Colline di cadaveri e l’invenzione della frontiera
Stando alla versione di Ur-Našše, l’iscrizione RIME 1.9.1.6b, è lo stato di Lagaš a compiere la prima mossa, non subisce ma incalza gli invasori: Il sovrano di Lagaš è andato in battaglia con il sovrano di Ur e il sovrano di Umma. Segue poi il bollettino di guerra. Per quanto riguarda lo scontro con Ur, la lista dei prigionieri comprende: il comandante delle barche; gli ufficiali Amabarasi e Dubgal; Papursag, il figlio di Bubu. Per quanto riguarda Umma: Pabilgaltuk, il re di Umma in persona; gli ufficiali Lupa, Billala, e Ursaggigir; Hursagšemah, il capo dei mercanti. Infine, il re di Lagaš fa degli sconfitti colline di cadaveri, macabro monito per ricordare quale sia la linea da non valicare, tema di cui ancora oggi si parla.
La diplomazia fa parte delle complesse dinamiche belliche, con lo scopo di trovare vie alternative allo scontro armato. Se ne parla molto negli ultimi tempi a proposito delle vicende tra Russia e Ucraina, ma, in realtà, il dialogo tra gli stati è una realtà che mai si arresta, seppur non sia evidente. L’abilità di giungere a un compromesso è, tuttavia, una virtù antica, e già ve ne sono accenni agli albori della storia, quando le guerre si combattevano con bronzo e sassi.
Il contesto storico
La prima guerra documentata nella storia umana è quella sostenuta dal re sumero Ur-Našše di Lagaš contro gli stati di Ur e Umma. Da quel momento si sviluppa il concetto di guerra di confine con la creazione della terra di nessuno a protezione della frontiera. A motivare il conflitto era il possesso delle risorse agricole della regione di Guedina, bramate da Umma e difese da Lagaš. Per più di cento anni la frontiera venne violata e ristabilita col sangue. Se ne legge un crudo esempio nell’iscrizione RIME 1.9.5.1: Enannatum, il re di Lagaš, si misurò con [Ur-lumma, il re di Umma] in battaglia, ed Entemena, figlio di Enannatum, lo sconfisse con le armi. Ur-lumma fuggì, si ritirò in Umma abbandonando le sue truppe, 60 truppe di carri, sulla riva del fiume, lasciando le ossa dei suoi uomini ovunque nella campagna; Entemena le ammucchiò in cinque colline di cadaveri.
Un’alternativa alla guerra.
La violenza degli scontri nell’età del bronzo è innegabile. Eppure, colpisce di più il tentativo politico di metter fine al conflitto attraverso la negoziazione di un compromesso. Sia Umma che Lagaš lottano per il possesso delle risorse agricole della regione di Guedina. I re di Lagaš si rendono conto che i rivali non si fermeranno mai, così offrono al nemico sconfitto parte del territorio conteso. Una piccola cessione in cambio di un bene superiore, la pace. Non parliamo, certo, di uno spirito caritatevole, i re di Lagaš ragionavano esattamente come i grandi leader dei nostri giorni: va bene la pace, purché porti profitto. Elaborarono, pertanto, quello che può essere considerato il primo prestito a interesse della storia, ai limiti dello strozzinaggio, creando nei fatti i presupposti per un’instabilità perpetua ai confini di stato. Fatto che poi porterà alla caduta del regno.
I primi accordi di pace e la loro effettiva tenuta
Vincendo la guerra Lagaš poté stabilire la propria pace. Mantenne il controllo dei territori di confine ma non rivendicò quelli del proprio vicino, anzi. Ad Umma venne concesso di gestire una parte delle terre contese pagando in cambio un interesse al legittimo proprietario, una tassa che comprendesse parte profitti economici ottenuti. L’espediente, tuttavia, non funziona ed Umma, incapace di pagare si affida alle armi per ristabilire il proprio dominio. Le fonti di Lagaš ricordano come lo stato rivale finisse per allagare i territori di confine per poi attaccarli, rimuovendo le stele di confine. La diplomazia, dunque, fallì e i tentativi di spostare la frontiera non si fermarono fino a quando le forze di Lagaš non vennero sopraffate dopo più di un secolo di belligeranza.
Il Kgb (acronimo di Komitet Gosudarstvennoj Bezopasnosti tradotto in Comitato per la sicurezza dello stato) è stato il maggiore organo di sicurezza dell’URSS. Fu istituito nel 1954, quando il leader dell’Unione Sovietica, Nikita Khrushchev, mise mano alla riforma dell’Nkvd (il Commissariato del popolo per gli Affari interni), che aveva operato sotto Stalin, consentendogli di consolidare il potere e gestendo la politica delle purghe nell’Urss alla fine degli anni Trenta.
Nikita Khrushchev nel 1952, un anno prima della morte di Stalin
Nato per essere il supremo organo di sicurezza dell’URSS, il KGB divenne la “spada e lo scudo” del Comitato Centrale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica (Pcus), la leadership politica de facto del Paese. Oltre a garantire la sicurezza delle repubbliche sovietiche, il KGB era anche un’agenzia di servizi segreti e polizia segreta. Tra i suoi compiti, il più importante era sicuramente il controspionaggio, sia nella politica interna che in quella esterna all’URSS.
Come era organizzato
Il Kgb era composto da vari direttorati (upravlenija) e dipartimenti:
Primo Direttorato Centrale – si occupava delle operazioni all’estero (spionaggio), dipendente dal Primo vicepresidente e diviso in 10 dipartimenti: (Stati Uniti-Canada; America latina; Regno Unito-Australia-Nuova Zelanda-Scandinavia; Germania-Austria; blocco europeo; Cina-Vietnam-Cambogia; Africa; Estremo Oriente; Giappone; Cina)
Secondo Direttorato Centrale – si dedicava al controspionaggio e alla sicurezza interna.
Terzo Direttorato – era competente riguardo alla fedeltà delle forze armate
Quarto Direttorato – provvedeva ai Trasporti
Quinto Direttorato – si occupava del contrasto al dissenso politico interno e gli “affari nazionalistici e religiosi”.
Sesto Direttorato – si interessava al controspionaggio economico e sicurezza industriale
Settimo Direttorato – era preposto alla sorveglianza elettronica.
Ottavo Direttorato Centrale – si interessava alle comunicazioni riservate e alla crittografia.
Nono Direttorato – si occupava di Protezione dei leader sovietici.
Quindicesimo Direttorato – era preposto alla Sicurezza delle Strutture governative.
Sedicesimo Direttorato – provvedeva all’ Intercettazione delle comunicazioni
Dipartimento logistica
Dipartimento comunicazioni
Dipartimento ricerche speciali
Dipartimento reparto tecnico
Guardie di frontiera (queste ultime con un organico di circa 250.000 effettivi e un proprio servizio navale ed aereo), riconoscibili dalle mostrine verdi sull’uniforme standard dell’Armata Rossa.
Un monumento a Dzerzhinskij davanti all’edificio del KGB a Mosca, URSS
Il Kgb era conosciuto per i metodi che usava per intercettare il personale dell’ambasciata degli Stati Uniti a Mosca. Una volta, gli agenti sovietici modificarono le macchine da scrivere utilizzate dal personale dell’ambasciata.
Per i diplomatici statunitensi, le macchine da scrivere modificate furono solo la punta dell’iceberg.
L’intero edificio infatti era pieno di dispositivi nascosti per le intercettazioni, perché quando i russi costruirono una nuova ambasciata degli Stati Uniti a Mosca alla fine degli anni Settanta, il Kgb la riempì di cimici nella fase di muratura.
Gli ultimi anni
Il primo direttore della Cia Allen Dulles una volta descrisse il Kgb come “uno strumento di sovversione, manipolazione e violenza, di intervento segreto negli affari di altri Paesi”.
In effetti, gli agenti del Kgb hanno influenzato il corso della Guerra Fredda in molti modi. Ad esempio l’agente del Kgb Bohdan Stashynsky (1931-) è conosciuto per aver ucciso nel 1959 due nazionalisti ucraini antisovietici, con un’elaborata pistola nebulizzatrice che non lasciava segni di morte violenta sulle vittime.
Al culmine della Guerra Fredda, il Kgb gestiva reti di spionaggio e reti di informatori in tutti gli angoli del mondo. L’agenzia operava attivamente sul suolo degli Stati Uniti, anche reclutando ufficiali militari e agenti di intelligence statunitensi per passare i segreti militari degli Stati Uniti all’Urss. Anche se non è possibile stabilire un numero esatto, alcuni ricercatori ritengono che il numero di informatori che hanno lavorato per il Kgb durante la Guerra Fredda sia stato nell’ordine di grandezza di milioni di persone.
Infine il Kgb terminò la sua attività nel 1991, anno nel quale l’agenzia venne sciolta lasciando il posto al Fbs (Servizio di sicurezza federale).
La statua del fondatore del KGB, Feliks Dzerzhinskij, smantellata a Mosca, in Russia, nell’agosto 1991
per le immagini si veda il sito: https://it.rbth.com/storia
Se i monumenti di Messina potessero parlare, in questo momento un assordante lamento si propagherebbe per tutta l’area dello Stretto. Vedremmo la statua di Messina piangere, la Real Cittadella disperarsi, Porta Grazia non si rassegnerebbe all’idea di aver perso uno dei suoi figli. “Uno dei più illustri”, aggiungerebbe il Monumento ai marinai russi, con il tacito consenso della statua di Carlo III di Borbone. Ma le creazioni dell’uomo, si sa, non hanno parola, non possono piangere e, ahinoi, non possono nemmeno difendersi se minacciati.
Questo Franz Riccobono lo sapeva bene e ha voluto dedicare la sua vita alla loro protezione, affinché restasse testimonianza della storia di una comunità fortemente indebolita da guerre e terremoti che non hanno risparmiato opere e architetture.
Non ce l’ha fatta, Franz, a sconfiggere il Covid e si è spento quest’oggi, nell’incredulità e nel dispiacere di tutte le persone che l’hanno conosciuto. Il dottor Riccobono era una persona piacevole, un uomo colto e raffinato che non disdegnava la letteratura, la storia e le belle arti. E apprezzava i giovani, soprattutto quelli che si spendono per il loro territorio, con energia e dedizione, le stesse caratteristiche che il buon Franz possedeva e che era solito riconoscere in chi gli stava vicino. Se meritevole, ovviamente. Altrimenti erano mazzate.
Ha riconosciuto in chi scrive il suo stesso animo, quando ancora ArcheoMe era una semplice idea, un sogno nel cassetto, un progetto abbozzato dopo anni di studio archeologico e di vita messinese.
Il nostro primo incontro fu durante la prima edizione messinese di Le vie dei Tesori, festival culturale che ha avuto il merito di far rivivere luoghi spesso chiusi al pubblico. Siamo stati noi a sollecitare l’associazione palermitana all’apertura degli scavi archeologici di Palazzo Zanca, probabilmente perché tra i pochi conoscitori di uno dei siti archeologici cittadini più importanti. Il dottor Riccobono ha non solo caldeggiato la nostra proposta, ma ha messo subito a disposizione la sua persona per coadiuvarci alla ricezione dei turisti. Non si fermò qui, il caro Franz. Allargò la nostra proposta, inserendo il Museo permanente della Vara e dei Giganti realizzato proprio accanto all’Antiquarium del sito in questione, e ci accompagnò in conferenza stampa per esporre il progetto comune sull’area.
Il dottor Riccobono conosceva bene gli scavi di Palazzo Zanca perché, da giovane, ha assistito alla campagna di scavo gestita da un altro “mostro sacro” messinese, Giacomo Scibona. Tante dinamiche di quella situazione, culminata nell’apertura della sezione di Messina della Soprintendenza ai BB. CC., ci sono state raccontate proprio da lui che con Scibona era in rapporti fraterni.
Riccobono fu tra gli scopritori della Tomba a camera di Largo Avignone e, come vale per qualsiasi bene sul territorio siciliano, ha dovuto lottare con le istituzioni affinché venisse conservata, restaurata e aperta al pubblico (dopo circa 40 anni dal ritrovamento).
Franz conosceva l’eccezionalità dei reperti io messinesi e ha più volte coordinato azioni di recupero al fianco della Soprintendenza, ma anche come delegato delle varie amministrazioni comunali e regionali che si sono succedute negli anni. Alle volte, però, era costretto a battagliare per accendere luci e riflettori su beni dimenticati ma rappresentativi della storia di Messina, come la Real Cittadella di cui era un grande conoscitore. Noi stessi abbiamo (più volte) partecipato ai suoi tour e imparato dalle sue parole.
Ci ha trasmesso passione, determinazione e coraggio. Si, perché in un sistema avvilente in cui le professionalità passano spesso inosservate si rischia di deprimersi e di arrendersi. “No, Francesco, non ci si deve arrendere. Messina è una città particolare, popolata da persone che si fanno la guerra e non costruiscono. Ma noi abbiamo la responsabilità morale di continuare il nostro lavoro, perché se non lo facciamo noi non lo farà nessuno”.
Ci ha passato il testimone e noi ne abbiamo sempre sentito la responsabilità. Mi dispiace che non sarà qui con noi quando qualcuno dei nostri progetti verrà realizzato. Perché è solo questione di tempo, caro Franz, ma quella promessa che Le feci tanto tempo fa verrà mantenuta. Non demorderemo e realizzeremo quanto prospettato. Lei, però, continui a seguirci da lassù perché senza il suo sostegno oggi siamo un po’ spaventati. Vorremmo aggiungere altro, noi di ArcheoMe, il gruppo che ha imparato a conoscere e apprezzare nel tempo, ma le parole faticano a uscire e il silenzio, alle volte, è il miglior omaggio che si posa offrire.
Ci limitiamo a dirle grazie, a nome di tutti. Una vita ben spesa, il cui ricordo ci accompagnerà per sempre.
Quest’oggi siamo tutti un po’ tristi, ma felici di averla avuta al nostro fianco.
All’alba dell’invasione dell’Ucraina il Presidente della Federazione Russa Vladimir Putin si è pronunciato in modo lucido, strutturato, capace di coinvolgere l’uditore e di trasportarlo lungo sentieri già tracciati nella mente di chi ha elaborato quelle parole. A fronte di una situazione decisamente tesa, per molti il preludio di una terza guerra mondiale, si sarà notato come gli accenni all’Ucraina siano stati rispettosi, in una forma quasi commossa, come se questa nazione fosse vittima degli eventi, un’entità da proteggere, nonostante sia proprio l’esercito russo ad aver sferrato l’attacco che ne minaccia la stabilità e l’esistenza.
Vale, quindi, la pena chiedersi quale sia il fondamento di questa scelta puramente retorica. La storia è spesso vittima della propaganda che la deforma a piacimento. A tal proposito, le parole di Putin, in più di un’occasione, hanno accennato ad un passato che lega l’aggredito a chi lo vessa. Si faccia però attenzione: i riferimenti fatti dal presidente russo mirano a instillare la percezione di una Russia ed un’Ucraina come anime gemelle di una singola entità ancestrale che poi fu scissa. Vero, in parte, impossibile negarlo, ma, al tempo stesso, la fragilità di tale revisione è utile solo a far breccia nella coscienza di un occidente ignorate che ancora immagina l’est Europa al pari di una grande steppa attraversata da orde di unni e mongoli – tuttalpiù, rifacendosi alle parole di Annunziata e Di Bella, da schiere di “camerieri, badanti eamanti” in fermento.
All’origine dell’idea di Russia e Ucraina
Russia e Ucraina non hanno un’origine comune, almeno quanto la nazione Italia non nasca nell’antica Roma. Tuttavia, l’elaborazione di un “mito di fondazione” è spesso necessario, intimamente, per affermare il proprio diritto di esistere e di abitare una certa terra, per difenderla, ma anche per legittimare la conquista di un paese straniero, come sta avvenendo in questi giorni. Attraverso una distorsione squisitamente romantica, allora, sì: Russia e Ucraina nascono dallo stesso seme, sono state lo stesso fusto, per divenir poi l’una il ramo dell’altra. Ad essere più precisi, il principio storico a cui ci si riferisce non è prettamente “di casa”, ma viene addirittura da lontano, dalla Scandinavia quando forse, in un incredulo sbattere di palpebre, fu determinato il nostro presente. In sintesi, secondo la Cronaca degli Anni Passati, le tribù dei Čudi, Slavi, Meri e Kriviči, stanziate nelle regioni est europee, si appellarono al popolo variago dei Rus’ nel 862 d.C., così da farsi governare da un potere esterno, imparziale, che portasse ordine tra le varie fazioni. Fu così che, secondo la tradizione, i fratelli Rjurik, Truvor, e Sineus risposero alla chiamata, ma solo Rjurik sopravvisse tanto da fondare una dinastia: i Rjurikidi, soppiantati poi dai Romanov nel 1613 d.C. Con il successore di Rjurik, Oleg, si entra in un capitolo storico di fondamentale importanza: la conquista di Kiev, attuale capitale dell’Ucraina, comportò l’inizio allo stato della Rus’ di Kiev, e l’importanza di questo centro politico fu tale da guadagnarsi il titolo di Madre d’ogni città della Rus’.
Il passato come un intreccio di storie
A scanso di equivoci, il territorio osservato non è un’enorme steppa desolata, ma un contesto vivace e dinamico, soprattutto dal punto di vista commerciale. Lo stato Rus’ (Russia ante litteram) ebbe come illustri vicini l’impero bizantino e l’impero bulgaro, con i quali arrivò a scontrarsi o a stringere rapporti d’intesa. Non si dimentichino nemmeno i tentativi abbasidi d’inserirsi nella realtà est europea, cercando l’appoggio dei Bulgari del Volga contro i Cazari. Curiosamente, il resoconto di viaggio scritto da Aḥmad ibn Faḍlān, nel 921 d. C., oltre a fornire una delle più dettagliate testimonianze circa gli usi e i costumi dei Rus’, fu poi d’ispirazione per il libro Mangiatori di morte da cui fu tratto il film Il 13° guerriero, tanto per intendere come la storia sia un intreccio infinito. La Rus’ di Kiev venne, quindi, plasmata in un contesto politicamente vario ed articolato, affermandosi stabilmente nei territori che oggi fanno parte della Russia, della Bielorussia e dell’Ucraina, così da legittimare l’idea di un popolo unico diviso attualmente in tre stati diversi.
La necessità di non ricordare
Grossomodo, la ricostruzione proposta è alla base degli accenni fatti da Putin ai principi di unità storica che legherebbero i Russi ai vicini Ucraini: “L’Ucraina non è uno stato vicino, ma parte della nostra storia”. Giustamente, ai fini della propaganda, non sono presi in considerazione gli sviluppi più recenti che portarono all’idea di un paese indipendente dal suo invadente vicino di casa, sia politicamente che culturalmente. Dinamiche ben più vicine alla realtà odierna di quanto non siano i fatti altomedievali. L’unità della Rus’di Kiev terminò, infatti, già nel XIII secolo quando lo stato si frammentò in una serie di principati, separati ancor più tra loro dalle successive ingerenze mongole e tartare. In tempi relativamente veloci, il bacino ucraino e bielorusso si ritrovò coinvolto nelle dinamiche dell’Europa centrale, al contrario dei territori russi rivolti a oriente. L’Ucraina, in particolare, conoscerà il dominio del Khanato dell’orda d’Oro, poi l’intromissione dei Cosacchi che con forza reclamarono una propria indipendenza; quindi, la divisione tra Granducato di Lituania, il regno Russo, il khanato di Crimea, l’Ungheria e il principato di Moldavia. Un caleidoscopio di influenze e nazioni tra le quali, nel territorio conteso, la Russia seppe essere una costante: dapprima in possesso della parte orientale dell’Ucraina, in particolare il Donbass; poi, alla fine del XVIII sec., annettendo i territori cosacchi, strappando la Crimea all’impero Ottomano, e ottenendo i territori appartenuti alla Polonia. Va da sé, che in un tale contesto frammentario lo spirito identitario della prima Rus’ già si era perso, cosa che nei fatti comportò successivamente la necessità di russificare il territorio ucraino. Le vicende dell’ultimo secolo meritano, tuttavia, un’analisi a parte essendo troppo vicine al contesto odierno, ben più delicate ed impattanti tanto che sarebbe un’offesa trattarle nel breve spazio che rimane a questa riflessione.
Rispettare la storia, salvare noi stessi
A grandi linee, quanto descritto ripercorre sinteticamente le interconnessioni tra Russia e Ucraina prima che tali due nomi avessero il peso che gli si attribuisce attualmente. Una storia che, a seconda dei tagli illegittimi che si vogliono applicare, può rivelare una fortissima unità tra i due stati o, al contrario, una loro fortissima divisione. Più importante, tuttavia, è chiedersi se abbia senso applicare una tale metodologia d’osservazione al contesto storico, rigettando lo studio analitico a favore di revisioni politicizzate a sostegno d’una parte o dell’altra. Indubbiamente, la proposta di un passato mitizzato è ben più avvincente, in quanto rivolta a stimolare i sentimenti, le passioni che muovono l’animo umano. Al contrario, lo studio analitico delle fonti impone un noioso rigore ed un impegno che non necessariamente possono essere coinvolgenti, al pari di un’equazione matematica nuda e cruda. Purtroppo, tentativi di revisionismo storico, magari solo accennati o sussurrati non sono una rarità ma una costante che infetta l’approccio tanto dei “grandi nemici dell’occidente” quanto della nostra parte, a pari merito. La responsabilità di capire, in un discorso politico, dove finisca l’oggettività e dove inizi la speculazione è individuale. Un giorno anche il nostro presente potrà essere revisionato, ma onestamente sarebbe atroce pensare che le dinamiche delle nostre vite vengano usate, in forma distorta, per giustificare la guerra di domani.
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