A Mozia, nel trapanese, è stata riportata alla luce un volto in terracotta che raffigura lo sguardo della dea Astarte.
La scoperta
Il sito è sotto indagine da parte dell’Università di Roma La Sapienza fin dagli anni ’60; dal 2002, dopo un decennio di interruzione, sono riprese le attività di scavo, stavolta sotto la direzione di Lorenzo Nigro, docente di Archeologia del Vicino Oriente Antico e di Archeologia fenicio-punica.
Il volto in terracotta è stato scoperto durante la campagna di scavo appena conclusa. L’immagine è databile tra il 520 e il 480 a.C., ovvero almeno un secolo prima di quando, nell’imminenza dell’attacco di Dionigi di Siracusa che distrusse Mothia nel 397/6 a.C., fu ritualmente nascosta poco fuori del recinto sacro, in un punto facilmente individuabile e ben protetto. La testa di Astarte è stata rinvenuta all’interno di una stipe, una fossa circolare di circa un metro di diametro, accanto ad altri due oggetti, sempre in terracotta: un disco con la rappresentazione di una rosetta a rilievo e uno stampo raffigurante un delfino dal grande occhio naïve, che hanno portato alla scoperta del volto di Astarte.
Le parole di Lorenzo Nigro
<<Questi risultati sono il frutto di un lavoro di due decenni da parte di un team numeroso e affiatato>>, ha dichiarato il professore. <<È a tutti gli studenti e ricercatori membri della nostra missione archeologica e ai colleghi con cui abbiamo discusso le nostre interpretazioni che si deve la comprensione di uno dei santuari più ampi e affascinanti del Mediterraneo antico, quello dell’Area sacra del Kothon. La dea Astarte viene qui rappresentata con fattezze greche, ma in un contesto rituale e architettonico fenicio: come per la famosissima statua dell’Auriga, i moziesi usano il linguaggio universale del V secolo a.C., quello della Sicilia ellenizzata, per raffigurare quanto di più identitario possa esistere: il culto religioso. Ci insegnano la capacità di assimilare e lasciarsi assimilare, di tradurre e trasmettere senza tradire, che fu tipica degli antichi e, in modo particolare, della Sicilia>>.
Il 18 settembre sono terminate le indagini archeologiche, Roscigno al centro di nuove scoperte archeologiche effettuate dal Dipartimento di studi umanistici della Federico II.
Il progetto e le parole della responsabile
La professoressa Bianca Ferrara ha diretto il progetto proseguendo il lavoro di Giovanna Greco. Con questi programmi sul campo la Federico II offre a studenti la possibilità di fare archeologia sul campo e, allo stesso tempo, collabora con le soprintendenze per potenziare le attività di tutela e valorizzazione.
<<Dal mese di giugno a settembre>>, ha dichiarato la dott.ssa Ferrara, <<gli studenti e i giovani archeologi laureati della Federico II sono stati impegnati nelle campagne di scavo condotte dal Dipartimento di studi umanistici della Federico II a Roscigno Monte Pruno, al santuario di Hera alla foce del Sele nel territorio dell’antica Poseidonia, all’abbazia di San Pietro a Crapolla-Massa Lubrense e nel sito archeologico di Noto antica in Sicilia. I risultati raggiunti sono il frutto di una proficua collaborazione tra la Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per le province di Salerno e Avellino, il Parco archeologico di Paestum e Velia e le amministrazioni comunali che sostengono le ricerche in ogni aspetto logistico>>.
L’area di Roscigno
Il sito di Roscigno è stato indagato da quindici studenti sotto la guida di Rachele Cava. L’attenzione della ricerca è stata posta sui settori abitativi del pianoro di Monte Pruno in provincia di Salerno. Il sito in questione ha restituito materiali archeologici tra la fine del VII secolo al III secolo a.C. Importanti le sepolture indagate, tra le quali una principesca di VI secolo a.C. il cui corredo è al Museo provinciale di Salerno.
A Roscigno è emersa una notevole struttura dalla planimetria rettangolare costruita in blocchi di pietra locale che misura circa 15×4 metri. L’edificio è conservato in fondazione e ha restituito una grande quantità di scorie di bronzo e stagno. Di qui l’ipotesi che potesse essere destinato ad attività di carattere produttivo artigianale.
Una missione archeologica egiziana, lavorando nel territorio dell’antica Buto, nel Governatorato di Kafr El-Sheikh, ha riportato in luce alcuni strumenti utilizzati nei rituali religiosi templari. La missione si colloca nell’ambito del programma di scavi archeologici promosso dal Consiglio Supremo delle Antichità.
Si tratta di un’importante scoperta, come afferma il dott. Mustafa Waziri, segretario generale del Consiglio supremo delle antichità. Gli strumenti rinvenuti, infatti, venivano utilizzati durante lo svolgimento dei rituali giornalieri in onore della dea Hathor. Secondo quanto dichiarato dal dott. Waziri, sembra che gli strumenti siano stati collocati in maniera rapida sotto blocchi di pietra disposti regolarmente in cima a una collina di sabbia a sud del tempio della dea Uadjet, protettrice del sovrano e personificazione del Basso Egitto, a Tel Al-Faraeen (Buto).
I rinvenimenti
Nel frattempo, il capo del settore delle antichità egiziane Ayman Ashmawy aggiunge che di questa scoperta fanno parte un pilastro di calcare nella forma della dea Hathor, un gruppo di brucia incensi in faïence, uno dei quali con la testa del dio Horus, e un gruppo di oggetti in argilla utilizzati nei rituali religiosi e cerimoniali della dea Hathor.
Dei rinvenimenti, inoltre, fanno parte anche: una collezione di statuette raffiguranti le divinità Thot e Tauret, una piccola sedia per la maternità (di cui Tauret è divinità protettrice), un grande porta offerte, un occhio di Horus in oro. Precedentemente la missione aveva riportato alla luce un meraviglioso gruppo in avorio con scene di donne che portano offerte, scene della vita quotidiana, rappresentazioni di piante, uccelli e animali. Inoltre, avevano ritrovato un grande architrave in pietra calcarea con testi geroglifici in rilievo, e parte di un pittura reale di un sovrano che esegue rituali religiosi nel tempio Buto.
Importante, tra i rinvenimenti, la presenza di iscrizioni geroglifiche recanti i nomi di tre sovrani della XXVI dinastia, Psammetico I, Wha Ip-Ra e Amasis.
L’edificio
Hossam Ghoneim, capo della Missione archeologica, da parte sua annuncia la scoperta dei resti di un edificio in pietra calcarea legigata dall’interno. Si tratterebbe di un enorme pozzo per l’acqua sacra utilizzata nei rituali quotidiani.
Lo scorso febbraio un comunicato dell’Assessore Regionale ai Beni Culturali Alberto Samonà annunciava una scoperta archeologica già anticipata qualche mese prima. Durante i lavori per la nuova (e necessaria) rete fognante in via Alcide De Gasperi a Marsala, infatti, erano stati rinvenuti due grandi ipogei, a cui si sono aggiunti, a minore profondità, il ritrovamento di circa <<72 tombe a pozzo e a fossa rettangolare di dimensioni medie di 0,45x0,70x1,75 m, disposte con orientamento variabile N-S e E-O, ricavate nel banco roccioso in calcarenite a una quota minima di – 0,50 m e massima di – 3,40 m dal piano stradale, pertinenti alla necropoli punica di IV-III secolo a.C. Nonostante in alcuni tratti parte delle sepolture presentassero segni di danneggiamenti e rasature dovuti alle attività edilizie svolte nell’ultimo quarantennio nella zona, moltedelle tombe hanno conservatoal loro interno resti di corredo e inumati>> (comunicato stampa diramato alla nostra redazione dalla Soprintendente di Trapani Arch. Girolama Fontana).
Gli ipogei
Il primo, databile intorno alla metà del IV secolo a.C., presenta due camere funerarie di forma quadrangolare; all’interno sono cinque i resti di corpi inumati, tre adulti e due bambini, con il corredo funerario: alcuni vasi e piccoli oggetti in metallo.
Il secondo ipogeo si presenta come una struttura articolata su più livelli, in cui si possono riconoscere diverse fasi architettoniche e di utilizzo che sembrano coprire almeno sette secoli. Un primo grande ambiente sembra essere il risultato dell’ampliamento e dell’unione di preesistenti sepolture puniche del IV-III secolo a.C. Questo secondo ipogeo presenta una serie di sepolture ricavate lungo le pareti: in particolare sei tombe a cassettone, otto loculi e otto nicchie. Due delle tombe a cassettone hanno conservato resti di inumati, mentre le tombe a fossa sono state scavate direttamente sul pavimento della camera funeraria. Il rinvenimento di materiale ceramico e di lucerne figurate e con bolli lascia pensare ad un utilizzo dal II al IV/V secolo d.C. con una prima fase di culto giudaico e una seconda cristiana.
L’antica Lilibeo, oggi Marsala
Le tombe e gli ipogei riemersi a Marsala potrebbero essere un essenziale strumento per chiarire definitivamente l’importante storia dell’antica Lilibeo. Di maggiore rilievo, in questo contesto, il rinvenimento degli ipogei che conferma la continuità di utilizzo dell’area. La necropoli, infatti, di epoca punica, è stata successivamente ampliata e modificata in epoca romana.
Il fermo lavori e l’archeologia che passa in secondo piano
Ma cosa è successo negli ultimi mesi? Già fino a maggio i lavori sono andati a rilento, con pochissima trasparenza sull’esecuzione degli stessi e, soprattutto, sull’aspetto economico riguardante la vicenda. Intono alla metà di maggio, poi, i lavori sono stati del tutto bloccati. La società incaricata per i lavori alla rete fognaria ha dichiarato, lo scorso giugno, che i lavori erano stati interrotti proprio a causa dei ritrovamenti. Nel frattempo, dunque, la società aveva all’attivo un’interlocuzione con la Soprintendenza per considerare il da farsi.
La scoperta degli ipogei e il conseguente fermo lavori ha generato un clima di malcontento generale tra la popolazione marsalese. Da un lato il disagio di non avere, ancora, un sistema fognario funzionante. Dall’altro, inoltre, il disagio di trovarsi, dopo quasi un anno, le strade bloccate da cantieri fermi e ingombranti.
Archeologia di serie B?
Uno dei maggiori problemi legati alla vicenda è capire se e in cosa siano stati investiti i finanziamenti per la realizzazione dei lavori. Circa 9mln di euro risultano stanziati per la realizzazione di un sistema fognario funzionante che, purtroppo, manca a Marsala. E sembra che nuovi fondi per la messa in sicurezza dell’area archeologica siano invece venuti meno durante il fermo lavori. Terminati i fondi, dunque, tutto si è fermato.
Durante i mesi di pausa, inoltre, i cantieri sono stati lasciati aperti e dimenticati. E, dove non arriva la natura a danneggiare la storia, ci arriva l’inciviltà. Alcuni spazi degli ipogei, infatti, sono stati trasformati in vergognose discariche a cielo aperto.
Ci sono siti che trovano finanziamenti in virtù del loro futuro impiego come “acchiappa turisti”, avendo un maggiore riscontro dal pubblico, e siti, invece, che passano in secondo piano perché difficilmente si concilierebbero con il riscontro di cui sopra (o più verosimilmente non si hanno i mezzi per valorizzare e fare economia). I cittadini infatti lamentano abbondantemente sia la mancanza della rete fognaria, sia il caos che si crea con un cantiere aperto in una delle strade principali di Marsala. Inoltre, lamentano anche la mancanza di sicurezza nel passare dalla zona con i cantieri aperti, con il rischio sia per i pedoni sia per le auto di essere inghiottiti tra antiche sepolture. Le auto, infatti, transitano accanto e sopra una voragine di almeno 8 metri. Ma gli ipogei di Marsala, fonte di importantissimi dati storici, nonché culla di memoria storica, possono davvero passare in secondo piano rispetto alla rete fognaria?
Purtroppo, alla luce della ripresa dei lavori, senza una chiara azione sulla messa in sicurezza dei ritrovamenti, sembra proprio che le necropoli di Via De Gasperi entreranno a far parte di quell’archeologia di serie B che l’Italia continua a produrre.
Fruibilità degli ipogei: sogno o possibile realtà?
Il vicesindaco di Marsala, Paolo Ruggieri, tuttavia pone l’accento sulla possibilità di dare un futuro fruibile culturalmente alla zona archeologica. L’intento sarebbe quello di incentivare il lato culturale della città, senza lasciarlo invece cadere in un dimenticatoio di tubature e cemento.
Lo stesso Alberto Samonà dichiarava: <<Quella di Marsala è una scoperta dall’altissimo valore archeologico e ci regala l’occasione per ribadire quanto vasto e meraviglioso sia il patrimonio nascosto nel sottosuolo. Al Governo regionale che rappresento il compito di creare le condizioni perché questi ritrovamenti non siano il momento conclusivo di un’attività ma rappresentino la prima pagina di un nuovo libro che valorizzi la storia e l’identità dei luoghi>>.
Tale dichiarazione risale a fine febbraio 2021. <<Per continuare e valorizzare quanto scoperto>>, dichiara la soprintendente di Trapani Girolama Fontana, <<servono ulteriori finanziamenti>>. Una questione di soldi, dunque, che tiene con il fiato sospeso riguardo la sorte degli ipogei che, ad oggi, non presenta nessuna mossa certa.
La città di Marsala ha tutto il diritto di essere dotata di una rete fognaria funzionante e, soprattutto, i suoi cittadini devono sentirsi al sicuro guidando per le sue strade. Ciò però non deve togliere importanza a un preziosissimo rinvenimento che arricchisce la città non solo dal punto storico-culturale, ma, se ben valorizzato, anche da quello turistico.
A tal proposito, sempre la soprintendente Fontana, contattata dalla nostra redazione, verso cui si è dimostrata estremamente disponibile ai fini della divulgazione scientifica delle scoperte effettuate da questa Soprintendenza, rassicura: <<I lavori di indagine scientifica proseguiranno nell’ambito dei lavori di rifacimento del sistema fognario, prevedendosi il rilevamento e la messa in sicurezza degli ipogei rinvenuti. Tali scoperte, di altissimo rilievo storico-archeologico, ci consegnano una parte inviolata dell’antica necropoli del sottosuolo marsalese. Si arricchisce la conoscenza dell’antico tessuto storico della città di Marsala e solo con successivi finanziamenti pubblici si potrà procedere al prosieguo degli scavi ed alla valorizzazione di tale patrimonio. Il contesto urbanizzato in cui si sviluppa la necropoli rende di difficile attuazione la completa valorizzazione del Bene, in ogni modo, l’approfondimento scientifico ed il rinvenimento dei numerosi reperti contribuiscono alla divulgazione della conoscenza e del valore dell’importante patrimonio culturale>>.
Ancora col fiato sospeso, dunque, e con la speranza che si trovino davvero finanziamenti e modi per poter preservare la storia di Marsala.
In Egitto, la missione archeologica egiziana che opera nel governatorato di Beheira, una zona nordoccidentale del Delta del Nilo, ha scoperto i resti di un grande laboratorio di ceramica, risalente all’epoca greco-romana.
Il Dr. Mustafa Waziri, Segretario Generale del Supremo Consiglio delle Antichità, ha dichiarato che si tratta di un laboratorio con alcuni edifici risalenti al periodo compreso tra il III secolo a.C. e il I secolo d.C.. Ha spiegato che ci sono diverse aree divise in base alla funzionalità: dall’area per modellare l’argilla a quella per farla asciugare, momento in cui il vasellame veniva esposto al sole. La missione di ricerca, guidata da Ibrahim Sobhy, ha infatti portato alla luce l’area in cui l’argilla veniva lavorata, con l’aggiunta di additivi per predisporre le fasi di lavoro successive. All’interno dei resti murari del laboratorio, inoltre, sono stati rinvenuti alcuni strumenti utilizzati per la produzione ceramica, come utensili in metallo, frammenti del tornio e alcuni frammenti di vasi di terracotta.
I forni per la produzione ceramica
Il dott. Ayman Ashmawy, capo del settore delle antichità egiziane presso il Consiglio supremo delle antichità, ha sottolineato che le fornaci hanno fori di aerazione superiori, a corrente ascensionale. Queste sono state realizzate con mattoni rossi e circondate da spesse pareti di mattoni di fango per resistere alla pressione risultante dal processo di combustione. Tra i resti, anche frammenti di stoviglie incombuste e altre materie prime.
Un insediamento a lungo frequentato
Da parte sua, il professor Sobhy ha affermato che la stessa ha portato in luce anche la porzione di un abitato con costruzioni in mattoni di fango. In alcune di queste erano presenti vasellame ceramico per l’uso quotidiano, forni di cottura, silos di stoccaggio e alcune proto-monete in bronzo. L’area presenta inoltre un gruppo di sepolture in mattoni crudi in cui sono presenti vasi funerari in ceramica, alabastro e rame.
Secondo il professor Sobhy queste sepolture risalirebbero al periodoprotodinastico. Gli antichi egizi, sempre secondo Sobhy, si erano stabiliti in quella zona dai tempi storici fino all’epoca romana. Materiali del periodo protodinastico, uniti a elementi di epoca greco-romana, secondo il professor Sobhy testimonierebbero una continuità abitativa dell’insediamento.
Immagini in testo e copertina: fonte Ministero delle Antichità Egiziano.
Pontecagnano Faiano (SA) è stato protagonista, nei giorni scorsi, di una scoperta archeologica che conferma l’eccezionale popolosità dell’insediamento etrusco-campano. È stata rinvenuta, infatti, la sepoltura numero 10.000 in una zona occupata, senza soluzione di continuità, dagli inizi del IX secolo a.C. fino all’età romana.
Presenti sul cantiere di scavo: il Soprintendente arch. Francesca Casule, il sindaco di Pontecagnano Faiano Giuseppe Lanzara, il funzionario archeologo direttore del Museo di Pontecagnano Luigina Tomay, la prof.ssa Antonia Serritella dell’Università di Salerno e il dott. Bruno Baglivo, archeologo responsabile dei lavori.
L’arch. Casule ha sottolineato come la capillare attività di tutela messa in campo dalla Soprintendenza abbia consentito di raggiungere risultati importantissimi sul piano della conoscenza e della valorizzazione dell’insediamento antico di Pontecagnano.
La sepoltura n° 10000
L’ultimo rinvenimento fa parte di un’ampia necropoli, con datazione dalla fine del V secolo a.C. fino alle prime fasi dell’insediamento romano. La necropoli presenta la maggior parte delle sepolture con datazione al periodo sannitico (fine V – metà III secolo a.C.). Fornisce un’utile immagine delle usanze funerarie del periodo, con sostanziali differenze riconducibili allo stato sociale, al genere e alla classe d’età dei defunti.
La tomba 10.000 si caratterizza principalmente per la tipologia sepolcrale. Si tratta infatti di una tomba a cassa litica, molto frequente nella necropoli. La particolarità, tuttavia, risiede nel materiale di costruzione impiegato: al posto dell’abituale travertino, pietra locale di facile reperimento, è stato impiegato tufo grigio campano, sicuramente importato. Anche la lavorazione della cassa e della copertura attestano la ricercatezza e la cura nella messa in opera della tomba. Tre blocchi in tufo modanati costituivano la copertura della cassa, realizzata con blocchi perfettamente squadrati.
Il corredo
Il proprietario della sepoltura è, con ogni probabilità, un adolescente (a giudicare dalla lunghezza dello scheletro e dalle dimensioni delle ossa). Sebbene si conservi perfettamente la parte inferiore, dal bacino ai piedi, la parte superiore presenta un grave danneggiamento a causa delle infiltrazioni di radici e di attività animali. Nel corredo funerario spiccano un grande cinturone di bronzo e due coppe a vernice nera collocate ai piedi, di cui una con anse (coppa destinata al consumo del vino, skyphos). Il cinturone bronzeo sembra ricondurre alla sfera guerriera oltre a configurarsi come simbolo dello status sociale. Tuttavia, manca nel corredo l’arma da lancio (giavellotto o lancia), peculiare dei maschi adulti della comunità.
Già qualche anno fa, prima nel 2013 e poi nel 2016, alcuni reperti provenienti dall’area di Vulci (VT) sottolineavano un collegamento con l’Egitto. Si trattava, come scrive in un suo articolo il dott. Mattia Mancini, di tre scarabei che si inserivano perfettamente in quella che era una fase “Orientalizzante” (VIII-VI sec. a.C. circa). Durante questo periodo si assistette a una larga diffusione, in tutto il Mediterraneo, di diverso materiale proveniente da Egitto, Mesopotamia, Siria, Anatolia e Cipro, prevalentemente.
È di pochi giorni fa, invece, l’annuncio dell’apertura della sepoltura di una donna, databile al VI sec. a.C., inviolata da 2600 anni, nella necropoli dell’Osteria. Al suo interno erano presenti i resti ossei, ancora in connessione anatomica, di una donna di circa 20 anni. Aveva un corredo funerario comprendente vaghi di collana in ambra, un’olla chiusa da una coppa greca in stile ionico e tre in bucchero (ceramica tipicamente etrusca); ma anche un kyathos (attingitoio) e un’oinochoe (brocca da vino).
Nell’edizione del 18 giugno 2021 del TGR Regione Lazio è possibile vedere, al minuto 9 circa, il servizio sull’apertura della tomba inviolata.
Un rinvenimento particolare
Ad attirare maggiormente l’attenzione degli studiosi su questa sepoltura è un piccolo oggetto in faience azzurra, un unguentario che rappresenta una donna accovacciata con la schiena coperta da una pelle maculata, probabilmente di leopardo (gialla con macchie nere), con una acconciatura corta e riccioluta e, tra le gambe, un grande contenitore ceramico chiuso con un tappo a forma di rana (di cui manca la testa).
«Non è un oggetto unico, ma molto raro», afferma Carlo Casi, a capo dell’equipe della Fondazione Vulci. «La nostra tomba èmolto importante perché intatta e questo ci consente di poter ricostruire l’identikit del defunto. Abbiamo un’ipotesi un po’ ardita. La ragazza potrebbe essere stata in vita un’addetta alla mescita del vino. Anche il balsamario, con la chiusura in pelle del vaso rimanda al processo della fermentazione di liquidi (forse la birra). Nell’Antico Egitto la birra era molto consumata e per essere prodotta doveva subire un lento processo di fermentazione. La chiusura (dell’unguentario, ndr) in pelle serviva a facilitare la fermentazione».
Gli unguentari del Nilo
Il realtà, almeno nel loro contesto originario, questa tipologia di unguentari, detta “Nilo”, fungeva da contenitori per l’acqua del sacro fiume e, in un secondo momento, come hanno chiarito le analisi chimiche svolte su tali oggetti, erano stati utilizzati come contenitori per latte o sostanze oleose. Da “fiaschette” per l’acqua sacra del Nilo erano divenuti veri e propri unguentari per oli e profumi, molto in voga nei corredi funerari femminili. La giara tenuta dalla figurina, alla luce di ciò, non può fungere da contenitore per vino o birra e, nel contesto di Vulci, difficilmente può dare una conferma circa l’identità (quantomeno lavorativa) della defunta (fonte Djed Medu). Spetterà alle analisi scientifiche chiarire il contenuto del piccolo contenitore, qualora fosse possibile analizzarne eventuali residui.
Sia la pelle di leopardo, sia l’acconciatura, sia il materiale in cui è realizzato l’oggetto fanno propendere per l’attribuzione della sua origine a un contesto egiziano. Tuttavia, sottolinea il dott. Mancini, di questi vasetti antopomorfi se ne trovano diversi esemplari soprattutto fuori dal’Egitto, come in Grecia (principalmente a Rodi) e nella Magna Grecia (Sicilia, Campania ed Etruria). Molti studiosi ritengono che si tratti, invece, di una serie di oggetti prodotti nell’isola di Rodi, frutto di un mix di elementi iconografici greci ed egiziani: la parrucca “hathorica” (legata ad Hathor), corta e riccioluta, ad esempio, richiama anche quella della dea cananea Astarte.
Il dottor Sayed Al-Talhawi, direttore dello scavo nell’area archeologica di Dakahlia, governatorato a nord-est del Cairo, annuncia la scoperta di 110 sepolture. L’importanza della scoperta, avvenuta nel sito di Kom al-Khaljan, nel Delta del Nilo, risiede nell’epoca delle sepolture. Sembra siano databili a tre diversi periodi, che scandiscono, di fatto, tre diverse fasi della civiltà egizia, dalla preistoria al Secondo Periodo Intermedio.
Le più antiche, 68 sepolture, risalgono infatti a più di 5000 anni fa, alla Civiltà del Basso Egitto, conosciuta come Bhutto/Buto 1 (3900-3700 a.C.) e Bhutto/Buto 2 (3700-3350 a.C.). Cinque sepolture, invece, risalgono alla civiltà Naqada III (3500-3150 a.C.) e 37 all’epoca Hyksos (1720-1530 a.C.) durante il Secondo Periodo Intermedio. 73 sepolture, dunque, sono state realizzate prima delle piramidi, prima dei faraoni.
Le tombe più antiche
Il dottor Ayman Ashmawy, capo del settore delle antichità egizie presso il Consiglio Supremo delle Antichità, dichiara che le 68 sepolture sono fosse di forma ovale scavate nello strato sabbioso dell’isola del Delta. Al loro interno, i defunti sono stati collocati in posizione rannicchiata. La maggior parte giaceva sul lato sinistro e con la testa rivolta a ovest. All’interno di un grande vaso di argilla, inoltre, sono stati scoperti i resti di un bambino, databili al periodo Bhutto/Buto 2, sepolto insieme a un piccolo vaso di argilla sferico.
Le sepolture con corredo di Naqada III
Anche le cinque tombe risalenti al periodo Naqada III sono fosse di forma ovale ricavate nello strato sabbioso. Tra queste, due sepolture presentano il fondo e la parte superiore ricoperti da uno strato di argilla. «All’interno delle fosse, spiega Ayman Ashmawi, la missione ha trovato un gruppo di arredi funerari caratteristici di questo periodo, come vasi cilindrici e triangolari, oltre alla ciotola del kohl, la cui superficie era decorata con disegni e forme geometriche».
Le sepolture del periodo Hyksos
Nadia Khader, capo del Dipartimento centrale del Basso Egitto presso il Consiglio Supremo delle Antichità, afferma che le tombe del Secondo Periodo Intermedio sono 37; 31 di queste sono fosse semi-rettangolari, con profondità tra i 20 cm e gli 85 cm. Presentano tutte sepolture in posizione distesa e supina con la testa verso occidente. Alcune sepolture presentano una struttura rettangolare in mattoni di argilla, a forma di edifici. Anche in questo gruppo, inoltre, è presente l’inumazione di un bambino all’interno di un grande vaso: si tratta di una tipologia di sepoltura diffusa in Oriente.
Le tombe presentano un corredo funerario di piccoli, ma significativi oggetti: vasi di argilla nera, amuleti (in particolare scarabei) in pietre semipreziose e gioielli, come anelli e orecchini in argento.
L’ex ministro delle Antichità Dr. Zahi Hawass, annuncia la scoperta di una città sepolta nella sabbia. Lo fa con un post su Facebook, in attesa della conferenza stampa di sabato 10 aprile. “L‘ascesa diAton“, questo il nome della città perduta che risale al regno del re Amenhotep III, regnante tra il primo quarto e la metà del XIV sec. a.C., quasi 3500 anni fa. “Abbiamo iniziato il nostro lavoro per la ricerca del tempio funerario di Tutankhamon, considerata la presenza, in quest’area, dei i templi di Horemheb e Ay”, dichiara Hawass.
Invece, la missione egiziana si è ritrovata di fronte a una scoperta eccezionale. La città, fondata proprio da Amnhotep III, nono re della XVIII Dinastia, era attiva durante gli anni di co-reggenza con il figlio Amenhotep IV, meglio noto come Akhenaton, il “faraone eretico”. Si tratta di un grande insediamento amministrativo e industriale sulla riva occidentale del Nilo a Luxor/Tebe. L’insediamento si estende fino a Deir el-Medina, il villaggio degli operai che lavorarono alle sepolture della Valle dei Re e delle Regine.
La città perduta
L’area di scavo si trova tra il Tempio di Ramesse III, a Medinet Habu, e il Tempio di Amenhotep III. “Le strade della città sono fiancheggiate da case, le cui mura sono alte fino a 3 metri“, continua Hawass. Gli scavi erano iniziati a settembre 2020, evidenziando sin da subito numerose strutture in mattoni affioranti in ogni direzione. Una scoperta inaspettata e stupefacente, resa tale anche dal buono stato di conservazione degli edifici, con muri quasi completi e stanze contenenti oggetti di vita quotidiana intatti, sepolti da migliaia di anni. La scoperta di questa città, inoltre, è doppiamente importante. Se da un lato ci offre un raro sguardo sulla vita quotidiana nell’Antico Egitto, dall’altro potrebbe fornire nuovi indizi sul perché Akhenaton e Nefertiti decisero di abbandonare Tebe per il trasferimento ad Amarna.
Strutture murarie della città di Aten (fonte: Ministero delle Antichità)
Adesso, l’obiettivo primario è quello di ricostruire la storia dell’insediamento. Grazie ad alcune fonti storiche, si sa che la città era costituita da tre palazzi reali del re Amenhotp III e dal centro amministrativo e industriale del Regno.
In quasi sette mesi di scavi sono state riportate alla luce diverse aree dell’insediamento. A confermare la datazione della città è un gran numero di reperti archeologici tra cui anelli, scarabei, ceramiche dipinte, vasi in terracotta per il vino con iscrizioni geroglifiche e mattoni di fango recanti i sigilli con cartiglio di Amenhotep III (Neb Maat-Ra, nome del trono).
Anfore con iscrizioni (Fonte: Zahi Hawass)
Una città ben organizzata
Nella parte meridionale, la missione ha individuato una prima area destinata alla preparazione di cibi, completa di forni e deposito del vasellame.
Una seconda area, ancora solo parzialmente indagata, è invece il distretto amministrativo e residenziale. Si tratta di un’area delimitata da un muro perimetrale ad andamento ondulato, con un solo punto di accesso verso i corridoi interni che comprende una serie di unità abitative più ampie e ben organizzate. Le pareti ondulate non sono un elemento architettonico frequente nell’Antico Egitto. Queste furono in uso principalmente intorno alla fine della XVIII Dinastia.
La terza area, invece, è la zona industriale, comprendente laboratori per la produzione dei mattoni in fango necessari per la realizzazione di templi e annessi. Tra i rinvenimenti, vi sono anche utensili per le attività tessili e anche un gran numero di stampi da fusione per la produzione di amuleti o elementi decorativi.
Inusuali sepolture e un area cimiteriale
Una delle stanze indagate presenta sepolture di un grande animale bovino, una mucca o un toro, per cui sono in corso ricerche per determinarne la natura e lo scopo. Ma più inusuale e quasi inquietante è, inoltre, il ritrovamento di una sepoltura antropica il cui scheletro presenta braccia tese lungo i fianchi e resti di una corda attorno alle ginocchia.
Sepoltura di un bovide (Fonte: Ministero delle Antichità)
Sepoltura umana (Fonte: Zahi Hawass)
Accanto a questi rinvenimenti, anche quello di un’ampia area cimiteriale, la cui estensione non è stata ancora determinata. La missione ha evidenziato un gruppo di tombe, di varie dimensioni, scavate nella roccia. Ad esse si accede tramite scale, caratteristica che accomuna diverse tombe nella Valle dei Re e nella Valle dei Nobili.
La conferma della datazione
Già i sigilli reali su mattoni e stampi non lasciano dubbi sulla datazione al tempo di Amenhotep III. A questi elementi, vanno aggiunti dei curiosi rinvenimenti. Uno di questi è un contenitore con resti di carne essiccata o bollita (circa 10 kg) con un’importante iscrizione. Si può infatti leggere: “Anno 37, carne condita per la festa Heb Sed proveniente dal macello del recinto per bestiame di Kha, fatta dal macellaio luwy“. Una preziosa informazione che non solo fornisce i nomi di due persone che vivevano e lavoravano nella città, ma conferma il periodo di attività della stessa anche al tempo della co-reggenza.
Un’impronta di sigillo, inoltre, reca l’iscrizione gm pa Aton, che può essere tradotto come “dominio del luminoso Aton”, nome di un tempio fatto realizzare da Akhenaton a Karnak.
Sigillo con iscrizione e frammenti lapidei con occhi (fonte: Ministero del Turismo e delle Antichità egiziano)
La missione annuncia che i lavori continueranno poiché, fino ad ora, è stato indagato solo un terzo dell’area. Una scoperta importante, dunque, che, al di là del dato materiale, fornisce importanti informazioni circa la vita quotidiana non solo popolarema, in questo caso, anche reale.
Nella sua terza stagione, la missione archeologica franco-norvegese che lavorava nel sito di Tala sud di Qasr Al-Ajouz nell’oasi di Bahariya, ha annunciato di aver riportato alla luce il più antico monastero cristiano d’Egitto.
Il monastero ha rivelato una serie di edifici costruiti con pietra di basalto scavata nella roccia e edifici costruiti con mattoni di argilla. Il dottor Usama Talaat, capo del settore delle antichità islamiche, copte ed ebraiche presso il Consiglio supremo delle Antichità, ha spiegato che gli edifici in mattoni di fango si datano tra il IV e il VII secolo d.C. Gli edifici sono suddivisi in sei settori, includendo i resti di tre chiese e le celle dei monaci. Le pareti recano graffiti e simboli con iscrizioni copte.
Veduta aerea degli ambienti indagati (Credit: Ministero delle Antichità Egiziano)
Il dottor Victor Ghica, capo della missione, ha indicato che durante la missione per l’anno 2020 sono state rivelate 19 stanze scavate nella roccia e una chiesa con annessa una struttura con due stanze scavate nella roccia. Le pareti recano iscrizioni in giallo che includono testi religiosi dalla Bibbia in lingua greca. Le iscrizioni danno informazioni riguardo la vita monastica in questa regione. I monaci si erano stabiliti in questa regione a partire dal V secolo d.C.
Iscrizioni sulle pareti degli ambienti monastici (Credit: Ministero delle Antichità Egiziano)
Victor Ghica spiega che l’edificio sembra risalire al IV sec. d.C., rendendolo, di fatto, il più antico complesso monastico in Egitto. Gli ambienti, dunque, comprendono una chiesa, il refettorio, le stanze per la residenza dei monaci e un certo numero di ambienti-magazzino. Tra i rinvenimenti anche molti frammenti di ostraca (frammenti ceramici), recanti iscrizioni greche databili tra il V e il VI secolo d.C. L’importanza della scoperta risiede non solo nella collocazione temporale di tale monastero (il più antico, appunto), ma è utile per la comprensione della formazione delle prime congregazioni monastiche in Egitto in questa regione.
Frammenti ceramici con iscrizioni greche (Credit: Ministero delle Antichità Egiziano)
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