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NEWS | Pescara, riemerge il mosaico romano

A vent’anni dalla sua scoperta, riemerge il mosaico romano del III secolo dopo Cristo. In corso i lavori sulla Golena sud del Pescara.

Un momento lungamente atteso, si legge nel comunicato del Comune di Pescara, che restituisce alla città di Pescara il mosaico romano del 200 dopo Cristo, a 20 anni dalla sua scoperta. Un’operazione, quella in corso sulla golena sud del fiume, che fa riemergere questo giacimento dall’oblio in cui è stato finora sepolto. Tra qualche giorno il mosaico verrà traslato presso il Museo delle Genti d’Abruzzo per la fase di restauro a cura della Soprintendenza; successivamente sarà data a tutti la possibilità di ammirarlo. Si tratta della più importante conferma degli antichi insediamenti alla foce del fiume Aterno. Nella figura spicca un’anfora con una croce uncinata, un capolavoro che risale a circa 1800 anni fa. Potrebbe essere stato commissionato intorno al I sec. d.C., e secondo gli esperti impreziosiva le sale di un edificio che sorgeva in posizione attigua al porto di Ostia Aterni (“Aternum”).

Accadde oggi

ACCADDE OGGI | La battaglia dei Campi Raudii: lo scontro decisivo tra Cimbri e Romani

Il 30 luglio del 101 a.C. fu combattuta la battaglia dei Campi Raudii. Lo scontro avvenne nel territorio della Gallia Cisalpina e vide contrapporsi l’esercito romano, capeggiato dal console Gaio Mario, e un corpo di spedizione di Cimbri, una delle tribù germaniche. La battaglia si rivelò una totale disfatta per i Cimbri, che, seppur in un notevole vantaggio numerico, furono dunque decimati dalle truppe di Gaio Mario.

Alexandre-Gabriel Decamps, La sconfitta dei Cimbri, 1833

Anche la battaglia dei Campi Raudii, come tante altre, ha bloccato l’avanzata delle truppe germaniche in Europa e ha portato all’egemonia di Roma nel mondo. Infatti, dopo lo scontro, la tribù dei Cimbri scomparì e il pericolo cessò di esistere.

In copertina: I legionari portano in trionfo Gaio Mario – fonte: Romano Impero.

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SPECIALE ROMA | A tavola con gli antichi romani: la cena prima di tutto e niente caffè!

Per tutta la storia di Roma antica, sono molte le cose che cambiano nel corso dei secoli. Una di queste riguarda le abitudini alimentari, in continua evoluzione, seguendo il mutare delle situazioni politiche e sociali: dal Regno alla Repubblica, fino all’Impero. Ma non solo, con l’espansione dei confini infatti, l’impero romano aveva annesso numerosi territori, ognuno con proprie abitudini alimentari, propri ingredienti e propri metodi di preparazione del cibo.

Cosa mangiavano i nostri antenati? Come scandivano i loro pasti durante la giornata?

Possiamo affermare che il consumo di cibo variasse in base alla classe sociale. Se è vero che agli albori non ci fossero grandi differenze, un importante divario si registra invece con la crescita dell’Impero. Nei tempi arcaici, infatti, i piatti principali erano a base di polenta, prima di miglio cotta nel latte (puls fitilla), poi la vera e propria polenta con la farina d’orzo e, infine, la polenta di farro (puls farrata o farratum) cotta in acqua e sale. Il tutto era abbinato ai più vari contorni: legumi, verdure, mandorle, pesci salati (gerres o maenae), frutta e formaggi. Il consumo di carne era raro e occasionale. Il pane, inoltre, non costituiva un alimento abituale prima del II se. a.C., periodo in cui nacquero le prime panetterie.

Pistrinum (“panificio”) pompeiano
Pagnotta carbonizzata da Pompei (oggi al British Museum)

Molto abbondante a Roma era il consumo di legumi, verdure e frutta, secca in particolare, che veniva utilizzata come ingrediente per la preparazione di dolci. Un contorno ben gradito per accompagnare le carni, infatti, era proprio a base di frutta cotta in miele e spezie. Il pesce, al contrario della carne, era invece un alimento molto diffuso, consumato sia fresco sia in salamoia.

Mosaico dalla Villa dei Numisi, Roma (oggi ai Musei Vaticani)
La colazione romana

Solo la cena, nell’antica Roma, prevedeva l’organizzazione della tavola per un pasto propriamente detto. La colazione, così come anche il pranzo, era costituita da un rapido spuntino. Per gli antichi romani, la colazione prendeva il nome di ientaculum ed era giusto un po’ meno frugale del pranzo. Infatti, spesso durante la colazione si consumavano gli avanzi della sera prima, rendendola abbondante ed energetica. Non mancavano, infatti, focacce, pane, scodelle con miele e latte, a cui si aggiungevano spesso frutta, formaggio, pane intinto nel vino e carne avanzata.

Frutta, pesci e volatili in un mosaico pompeiano

Una colazione che oggi lascerebbe delusi molti soprattutto per la mancanza di due alimenti per noi ormai fondamentali: il caffè e la cioccolata. Entrambi questi alimenti, infatti, non erano ancora noti al mondo romano. Il caffè si trovava ancora allo stato selvatico in Etiopia e solo con il Medioevo inizierà la sua diffusione, dapprima confinata quasi esclusivamente al mondo islamico. I sacchi di caffè partivano per l’Occidente da uno dei porti principali sul Mar Rosso, la località di Mokha, il cui nome è arrivato fino alle nostre odierne cucine. La pianta del cacao, invece, cresceva in Mesoamerica e non sarebbe arrivata in Europa prima della scoperta dell’America. Inoltre, il cacao puro è estremamente amaro e anche dopo la sua importazione bisognerà aspettare diversi secoli prima che qualcuno inizi a mescolarlo con lo zucchero per creare il cioccolato.

Un pranzo al volo

Il momento del pranzo per un antico romano si basa su una veloce pausa durante le attività lavorative giornaliere e prende il nome di prandium (o ientaculum  quando è più leggero). Le pietanze principali sono legumi, uova sode, pesci in salamoia (generalmente alici) o alla griglia, formaggi di pecora o di capra, cipolle, olive e fichi. Non mancano le focacce o il pane (quando sarà il momento) insieme al vino caldo e a della carne cotta con il rosmarino. Una delle bevande più gettonate era il piperatum o conditum: miele, vino e acqua calda mescolati con pepe ed estratti aromatici.

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Uova sode e volatili (Pittura pompeiana)

Ma la peculiarità del pranzo degli antichi romani risiede più nel luogo di consumazione che negli alimenti. Difficilmente un lavoratore romano fa rientro nella propria abitazione per pranzare. Si fermerà, piuttosto, in uno dei tanti luoghi della città che forniscono bevande (taberna vinaria) e cibo (popina appunto). Al giorno d’oggi ormai quasi tutti abbiamo sentito nominare, anche grazie a recenti rinvenimenti a Pompei, il termine thermopolium per indicare un luogo in cui veniva servito del cibo. In epoca romana, tuttavia, sembra che al greco thermopolium si preferisse il vocabolo autoctono popina. Un luogo che si può paragonare alle moderne osterie, con un bancone posto all’ingresso con incastonate delle grandi anfore tonde (dolia) contenenti gli alimenti. Un altro elemento tipico delle popinae è la presenza di tavoli e sedie, proprio come i nostri, in alternativa allo stare in piedi al bancone. Per l’uso del famoso triclinio si dovrà, invece, aspettare la cena.

Il pasto principale: la cena

A Roma e nel mondo romano c’era un solo pasto degno di questo nome, un unico pasto giornaliero per cui venisse imbandita la tavola. Si tratta, appunto, della cena, da consumare in tranquillità attorno a un tavolo. La presenza del triclinium dipende, però, dalla classe sociale. Una domus completa di ambienti con triclinia era sicuramente un’abitazione aristocratica.

Ambiente con triclinia dalla Villa dei Misteri, Pompei

La maggior parte della popolazione, povera e residente nelle insulae, palazzoni affollati, condivideva alcuni ambienti comuni in cui si cenava attorno al tavolo seduti su panche. Ma nelle case dei più ricchi non mancavano i banchetti, ospitati in una stanza particolare, il triclinium appunto, che prende il nome dai letti (triclinia) a tre posti su cui si stendevano i commensali.

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Scene di un banchetto nel triclinium in un affresco pompeiano

Un banchetto degno di questo nome di solito prevedeva degli antipasti (gustatio), i piatti principali, con arrosti e dolci (secundae mensae), per un totale di almeno sette portate (fercula). Il banchetto, abitualmente, terminava con la commissatio, una parte dedicata a brindisi, canti, giochi e intrattenimenti.

Alcune ricette

Così come ai giorni nostri, anche la Roma antica aveva i suoi “chef stellati”. Uno di questi è Marco Gavio Apicio, attivo durante l’epoca di Tiberio, autore del De re coquinaria, il più famoso manuale di cucina dell’età romana. Apicio, in realtà, era un cittadino romano di notevole ricchezza, amante della bella vita e del buon cibo. Il suo ricettario non è pervenuto, è noto, però, da una raccolta di 468 sue ricette realizzata, trecento anni dopo, da un altro cuoco romano. Plinio il Vecchio lo definisce come «il più grande tra tutti gli scialacquatori» e sembra che a lui si debba l’invenzione di qualcosa di simile al foie gras. Egli nutriva le oche con fichi, in modo da far loro ingrossare il fegato e da qui deriva il termine ficatum che passò poi a designare il fegato.

Tra le molte ricette da lui riportate vi è quella del garum, una salsa di pesce salato e fermentato con l’aggiunta di erbe aromatiche. Tra le pietanze più usate c’era poi l’hypotrimma, una salsa per insalate a base di pepe, menta, levistico, uva secca, pinoli e datteri a cui andavano aggiunti formaggio fresco con miele, aceto e mosto cotto. E, ancora, i dolcetti fatti in casa, dulcia domestica: «togliete il nocciolo ad alcuni datteri e riempiteli con pepe tritato, noci o pinoli. Versate un po’ di sale e cuocete nel miele. Servite in tavola», così ritorna a noi una delle ricette principali. Ricetta di cui, però, non riusciamo ad immaginare il sapore e che, un po’, fa storcere il naso.

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Dulcia domestica in una pittura pompeiana

Una cosa è certa, però: grazie all’uso sempre attuale degli ingredienti, chi fosse abbastanza temerario da provare, potrebbe ricreare e assaporare direttamente il gusto dell’antica Roma.

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NEWS | In arrivo il videogioco sui Fenici del Mediterraneo antico

Il 9 marzo 2021 a Cipro sarà presentato “Mediterranean 1200 BC: a new age”, il nuovo videogioco targato Entertainment Game Apps, Ltd. Mediterranean è uno dei principali risultati del progetto “TRAMES – smart TouRism Across the MEditerranean Sea“, cofinanziato dall’Unione Europea nell’ambito del programma COSME 2019-2021. L’EGA Ltd. è dunque uno degli otto partner coinvolti nel progetto europeo per la creazione di un’offerta turistica innovativa nel bacino del Mediterraneo.

Sulle grandi rotte del Mediterraneo

Mediterranean è un gioco strategico ambientato nel Mediterraneo antico: dall’espansione marittima fenicia propone un’esplorazione avvincente del passato. I giocatori potranno quindi seguire le rotte degli antichi marinai e scoprire le città fondate lungo le coste da Fenici, Etruschi, Greci e Romani. Lo scopo del gioco è sviluppare gli insediamenti fenici implementando le loro attività commerciali e spostando risorse attraverso il Mediterraneo, lungo percorsi specifici e con mezzi di trasporto proposti secondo fedeltà storica.

Presto sarà disponibile la versione italiana di Mediterranean arricchita da importanti approfondimenti grazie al coinvolgimento di alcune istituzioni museali sparse sul territorio.

Mediterraneo
Schermata Home del gioco (via Entertainment Game Apps, Ltd.)
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NEWS | Volpiano (TO), scoperta una necropoli romana con 44 tombe del I secolo d.C

Durante i sondaggi preliminari per la costruzione del nuovo parco fotovoltaico Eni di Volpiano (TO), appena pochi centimetri sotto la superficie del terreno, è venuta in luce una necropoli di epoca romana.

La necropoli ha restituito 44 tombe, i cui corredi erano costituiti da preziose coppe in vetro, vasi in ceramica e iscrizioni in latino. Il perfetto stato di conservazione dei reperti deve la sua fortuna alla natura sterile e pietrosa del terreno: sebbene si trovasse solo pochi centimetri sotto la superficie, infatti, l’inutilizzo del terreno ha fatto si che la necropoli restasse invisibile e incorrotta fino a oggi.

La presenza romana in quest’area era già nota agli archeologi, grazie al ritrovamento di una villa rustica di età imperiale avvenuto casualmente, durante i lavori per la costruzione della linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Milano. La villa è situata a soli 10 km dal luogo della necropoli, tra Brandizzo e Volpiano.

Proprio per la vicinanza con la villa, i lavori per la costruzione del parco fotovoltaico sono stati progettati con cautela. Eni e la Soprintendenza hanno effettuato dei sondaggi preliminari, affinché la posa dei pannelli fotovoltaici non distruggesse nulla, costringendoli a un improvviso stop dei lavori.

Il Sindaco di Volpiano, Emanuele De Zuanne, ha commentato:

“In base al presunto tracciato della centuriazione romana (l’antica organizzazione agraria del territorio) e ai precedenti ritrovamenti era ipotizzabile rinvenire qualcosa nel sito interessato dal nuovo impianto. Questi reperti sono le più antiche testimonianze presenti nel territorio di Volpiano ed è intenzione dell’amministrazione comunale mostrarli al pubblico, prima in una mostra temporanea e successivamente in una sede permanente”.

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NEWS | Il Dioniso di Tivoli all’asta, la storia della statua da Roma a Londra

Dal 24 novembre al 17 dicembre torna a Londra la Classic Week di Christie’s. La più grande casa d’aste al mondo metterà in mostra una serie di capolavori provenienti da tutto il mondo. I collezionisti di antichità che parteciperanno all’asta del 16 Dicembre avranno l’occasione di fare la loro offerta per acquistare un ornamento che, in passato, aveva decorato la dimora di un imperatore romano.

Stiamo parlando del Dioniso di Tivoli: la statua che l’imperatore Adriano in persona aveva accarezzato con lo sguardo, chissà quante volte, durante una delle sue passeggiate nella sua immensa villa a Tivoli.

La statua sarà venduta all’asta con un’offerta stimata tra 700.000 e 1.000.000 di sterline.

La storia del Dioniso di Tivoli

Per ripercorrere la storia di questa statua, bisogna tornare indietro nel tempo, proprio a Tivoli. Tra il 1769 e il 1771, lo scozzese Gavin Hamilton, pittore e appassionato di archeologia, condusse delle ricerche nella Villa Adriana. In particolar modo si concentrò nella parte nord della villa, vicino al Teatro Greco. Questa zona era chiamata Pantanello, a causa della natura paludosa dell’area. Dagli scavi erano stati rinvenuti numerosi busti, capitelli e marmi. Per poter continuare le ricerche, Hamilton dovette addirittura ricorrere a delle opere di drenaggio, grazie alle quali vennero alla luce numerose altre statue. In un periodo in cui l’archeologia si confondeva quasi totalmente con l’antiquaria, i numerosi ritrovamenti del Pantanello finirono sul mercato antiquario e furono dispersi tra varie collezioni inglesi e romane. Lo stesso pontefice Clemente XIV acquistò una parte di queste opere per i Musei Vaticani.

Da Tivoli a Londra

La statua di Dioniso, che faceva parte del tesoro del Pantanello, fu ceduta da Hamilton a Lord Shelbourne.  Se oggi si presenta a noi come erma, in origine doveva trattarsi di una statua intera che Hamilton modificò, forse perché incompleta al momento del ritrovamento. Se questo oggi risulta impensabile, è doveroso tenere a mente che Hamilton era un appassionato e non un archeologo.

Alla morte di Shelbourne nel 1805, l’erma restò proprietà della famiglia fino al 1930, quando venne venduta al diplomatico Karl Bergsten, entrando così a far parte della Bergsten collection di Stoccolma. Termina così la storia del Dioniso, dalla villa di un imperatore romano a una delle raccolte di antichità private più famose del XX secolo a Stoccolma. Il 16 Dicembre, a Londra, si aggiungerà un altro tassello alla sua storia e la statua intraprenderà un nuovo viaggio, non ci resta che scoprire chi sarà il suo nuovo proprietario!

Il patrimonio di Tivoli e il progetto Atlas

Il Dioniso, oggi all’asta, è testimone della straordinarietà della decorazione architettonica e scultorea della villa imperiale di Tivoli: i suoi capolavori, infatti, figurano oggi nei più importanti musei del mondo. Ma esiste anche una parte di questo immenso patrimonio che è rimasta a Tivoli ed è conservata nei Mouseia della Villa Adriana. Si tratta per lo più delle sculture rinvenute negli scavi degli anni ’50; tra queste, ritroviamo il ciclo scultoreo del Canopo.

Di questo ciclo fanno parte il gruppo di Scilla, la fontana-coccodrillo e una figura semisdraiata in cui è stata identificata la personificazione del Nilo. I lavori per la riqualificazione dei Mouseia sono da poco terminati e saranno presto aperti al pubblico. Nel frattempo, le Villae si stanno impegnando nella mappatura di tutto il patrimonio proveniente dalla residenza imperiale, presente nelle collezioni d’arte antica di tutto il mondo.

“Le Villae – dichiara il direttore, Andrea Bruciati – si stanno impegnando per garantire che, alla fine della sospensione dell’apertura dovuta all’emergenza sanitaria, i Mouseia di Villa Adriana, chiusi dal 2014, tornino fruibili per il pubblico, rinnovati negli apparati didattici, nel racconto della luce e nei colori. Non può che suscitare emozione anche il Dioniso oggi all’asta, poiché evoca la suggestione e il fascino che Villa Adriana ha esercitato nei secoli e ne racconta emblematicamente la storia e la fortuna in età moderna, rappresentandone i valori identitari. Del resto, l’unicità del complesso e l’universalità del suo messaggio, sancite dall’iscrizione alla World Heritage List Unesco, sono legate proprio alla capacità di esercitare nel tempo un’influenza che va al di là dei confini geografici e culturali. Per questo le Villae stanno lanciando il progetto Atlas, una mappatura del patrimonio di Villa Adriana presente nelle principali collezioni del mondo”.

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NEWS | Pompei restituisce altre due vittime, scoperti i corpi intatti di due uomini

Sensazionale scoperta a Pompei nei giorni scorsi. Gli archeologi hanno riportato alla luce altre due vittime di quell’ottobre del 79 d.C., nel momento in cui Pompei venne cristallizzata nella fotografia di una delle più terribili tragedie della storia umana. Due personaggi in più si aggiungono al racconto di fuga e terrore e la loro posizione, il luogo del ritrovamento e i loro vestiti riusciranno a parlare per loro, a dire chi erano e dove erano diretti.

Il ritrovamento è avvenuto nella villa signorile del “Sauro Bardato”, oggetto di studi e grandiose scoperte già dal 2017.

Clicca qui per il video del ritrovamento

La villa suburbana di Civita Giuliana

La lussureggiante villa di epoca augustea era già famosa per la scoperta fatta nel 2017. Nelle stalle, infatti, gli archeologi avevano riportato alla luce i resti di tre cavalli di razza, uno dei quali era bardato con una sella in legno e bronzo e ricchissimi finimenti, come se fosse pronto per l’uscita imminente del suo padrone.

Il direttore del Parco archeologico di Pompei, Massimo Osanna, aveva ipotizzato che si trattasse di un comandante militare o un alto magistrato. Grazie ad un piccolo graffito ritrovato su una parete affrescata, su cui era inciso il nome di una fanciulla, “Mummia”, da cui gli studiosi erano risaliti alla possibile identità della famiglia: i Mummii, una importante famiglia romana di epoca imperiale.

La villa è stata paragonata alla famosissima Villa dei Misteri per la sua eleganza e raffinatezza. Situata subito fuori le mura della città, disponeva di terrazze e giardini da cui si poteva godere della vista del Golfo di Napoli e di Capri. Era costituita da numerosi ambienti, da quelli di rappresentanza alle camere da letto “signorili”, agli ambienti di servizio, come magazzini per l’olio e per il vino e le già citate stalle.

Il criptoportico

Dopo le stalle, l’attenzione degli archeologi si era rivolta all’esterno, nella zona di un lunghissimo criptoportico edificato sotto una delle grandi terrazze della villa.

“Abbiamo avvertito la presenza di vuoti nella coltre di materiale piroplastico e da lì la sorpresa dei resti umani”, sottolinea ancora emozionato Osanna. C’erano le condizioni ottimali per provare a ottenere il calco delle vittime, seguendo la tecnica messa a punto nel 1863 da Giuseppe Fiorelli. L’ultimo tentativo era stato fatto negli anni Novanta del Novecento, purtroppo senza grandi successi. Stavolta l’esperimento è pienamente riuscito.

Grazie al calco sono visibili anche i resti dei vestiti dei due uomini: uno dei due portava con sé un secondo indumento in lana, forse un mantello o una coperta.

Il ritrovamento proprio nel criptoportico ha già un precedente a Pompei: negli scavi del ‘700, infatti, furono scoperti numerosi corpi nel criptoportico della Villa di Diomede, ambienti sotterranei dove probabilmente uomini, donne e bambini si erano sentiti più al sicuro durante il cataclisma.

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NEWS | “Catastrofi, Distruzioni e Storia”, grandi voci per l’Archeologia

Dal 19 al 21 novembre si svolgerà il Convegno di archeologia dal titolo “Catastrofi Distruzioni Storia – Dialoghi sull’Archeologia della Magna Grecia e del Mediterraneo” promosso dalla Fondazione Paestum, dall’Università di Salerno e dalla XXIII Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico.

Di cosa si parlerà

Il titolo del convegno sembra parlare da sé: fra i temi affrontati si parlerà, infatti, della distruzione di Troia (Benzi), del collasso delle città micenee (S. Privitera), del Partenone (L. Godart) e dell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. (F. Sirano). Gli argomenti trattati hanno tutti qualcosa in comune: stiamo parlando delle più grandi e famose catastrofi della storia.

Tra i relatori c’è anche l’archeologo ragusano Giovanni Di Stefano, Professore di Archeologia all’Università della Calabria e presso l’Università di Roma Tor Vergata, il quale il prossimo 19 novembre alle 17.00 parlerà di Siccità a Cartagine ai tempi dell’Imperatore Adriano. Suoli aridi e il contributo della ricerca archeologica.

Questa relazione riguarda una delle importanti scoperte effettuate proprio da Giovanni Di Stefano, in qualità di Direttore della Missione Archeologica a Cartagine. Suoli aridi con cristalli di gesso, rinvenuti durante lo scavo di una strada romana, apparterrebbero al periodo della grande siccità che ha colpito il Nord Africa tra il 122 e il 128 d.C., periodo in cui l’imperatore Adriano era in visita proprio a Cartagine.

Come seguire l’evento

L’evento si svolgerà online sulla piattaforma Windows Teams e si potrà raggiungere dal seguente link: http://urly.It/38p-6 

Di seguito la locandina dell’evento :

 

 

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ARCHEOLOGIA | Veleia Romana (PC), la città della longevità

Veleia Romana (460 m s.l.m), nella valle del Chero, antica città il cui nome deriva dalla tribù ligure chiamata Veleiates, fu fondata nel 158 a.C., dopo la definitiva sottomissione dei Liguri a Roma. Prospero municipio romano e importante capoluogo amministrativo, governò su una vasta area collinare e montana collocata tra Parma, Piacenza, Libarna (Serravalle Scrivia) e Lucca.

Il territorio e le sue risorse

La presenza di acque saline, che i Romani hanno sempre saputo sfruttare con ingegno, aiutò senz’altro lo sviluppo urbano, in cui è possibile individuare vari edifici termali. Questa risorsa naturale, insieme alla tranquillità del luogo, fece di Veleia una meta prediletta di villeggiatura per vari consoli e proconsoli provenienti da Roma, che si illudevano, forse, di poter allungare la loro vita. Infatti, era noto che tra la popolazione di Veleia, come è confermato dall’ultimo censimento dell’imperatore Vespasiano (72 d.C.), vivevano sei persone di 110 anni e quattro addirittura di 120!

terme Veleia
Resti dell’edificio termale

Il settore urbano della città di Veleia è distribuito su una serie di terrazze lungo il “pendio boreale del poggio” dei monti Moria e Rovinasso. I toponimi di queste due cime, che anticamente sembra fossero stati un solo monte, allude ad un evento catastrofico la cui memoria è purtroppo andata persa nella foschia dei tempi. Questa zona appenninica, come d’altronde tantissime altre dell’Appennino, è conosciuta geologicamente per la sua tendenza a movimenti franosi: molti esperti sostengono, difatti, che il declino e la fine di Veleia sia stata causata da una grande frana o da una serie di smottamenti lungo la costa del monte sovrastante.

L’area archeologica di Veleia

scavi Veleia
Veduta degli scavi di Veleia

Il foro, d’età augusteo-giulio claudia, si estende su un piano ottenuto artificialmente per mezzo di un massiccio sbancamento, come rivela la stratificazione leggibile sotto la scalinata posta sul lato orientale. Ne è ben conservato il lastricato, a quattro pioventi, drenati da una cunetta perimetrale con pozzetti di decantazione agli angoli. Lo circonda su tre lati un portico, dilatato in antico illusionisticamente da pitture murali, su cui si aprono botteghe e ambienti a destinazione pubblica, quasi tutti dotati d’impianti di riscaldamento.

Il tutto è completato dalla più bassa delle terrazze, formata dall’accumulo dei materiali provenienti dallo sbancamento del pendio soprastante, contenuti da robuste sostruzioni, ancora ben visibili nel Settecento. Raccordata a quella superiore da un imponente ingresso a duplice prospetto tetrastilo, inserito nel colonnato del foro, la terrazza era forse riservata alle funzioni religiose.

Meta ultima di un percorso ascensionale che proviene dal fondovalle appare la basilica che chiude a sud il complesso: edificio a navata unica, con esedre rettangolari presso le testate, era la sede del culto imperiale; infatti, addossate alla parete di fondo, si levavano le dodici grandi statue in marmo lunense raffiguranti i membri della famiglia giulio-claudia.

A ovest del foro scavi recenti hanno riportato nuovamente in luce resti di costruzioni, riconosciute come anteriori alla sua creazione, nonché tracce del suo originario ingresso, sostituito dopo la metà del I sec. d.C. da quello, monumentale, ubicato sul lato settentrionale. A monte del foro sorgono, invece, quartieri d’abitazione.

La terrazza su cui si leva sin dal Medioevo una pieve dedicata a S. Antonino ospitava, probabilmente, un edificio di culto già nell’antichità. Più in alto è situata una costruzione, identificata, già all’atto della scoperta, come un serbatoio d’acqua, più tardi erroneamente interpretata – e, di conseguenza, ricostruita – come anfiteatro.

All’interno dell’area archeologica è stato allestito un Antiquarium, dove sono conservati calchi della Tabula Alimentaria traianea e della tavola bronzea contenente la lex de Gallia Cisalpina, come pure corredi relativi alle sepolture a cremazione romane, elementi architettonici e d’arredo.

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DIETRO AL FASCISMO | Mussolini e il finto razzismo dei Romani

Mussolini credeva in una continuità tra il razzismo dell’antica Roma e quello dell’Italia contemporanea: uno dei casi più importanti di manipolazione della realtà storica operato dal regime. I Romani, parallelamente al loro espansionismo, effettuavano forme di integrazione e di accettazione dei culti stranieri contrariamente al regime. Le discriminazioni dei Romani non riguardavano i tratti somatici o il colore della pelle ma usi e costumi diversi dai loro. Queste discriminazioni ebbero fine con la “romanizzazione” dei popoli vinti e con la cittadinanza romana che l’imperatore Caracalla concesse a tutti gli abitanti dell’Impero.

Il pericolo di ibridazione

Inizialmente, il razzismo fascista si orientava verso i sudditi africani e contro il pericolo di ibridazione. La donna e l’uomo nero venivano denigrati attraverso la propaganda. Un esempio ne è la copertina de “La Difesa della Razza”, opera di Bebi Fabiano, dove era raffigurata una Eva “nera” che porge la mela a un Adamo “bianco”, separati da una lastra di vetro. L’immagine alludeva al divieto di meticciato imposto durante la campagna etiopica. Difatti, la donna africana era considerata un semplice oggetto sessuale, mentre l’uomo nero era costantemente denigrato.

Copertina de La Difesa della razza di Bebi Fabiano.

 

La sottomissione dei barbari: il confronto

Esempio dell’apparente continuità tra razzismo dell’antica Roma e fascismo è la Fotografia ricordo dell’Africa Orientale (1935-1936) del disegnatore e pittore catanese Enrico De Seta. La cartolina, che fa parte di una serie, raffigura un soldato italiano che, con aria soddisfatta, si lascia fotografare, mentre con il piede sinistro schiaccia la testa di uno dei tre Etiopi inermi a terra. Il modello ispiratore di De Seta era il tipo iconografico romano del “barbaro sottomesso”, rappresentato dalla statua loricata di Adriano esposta alla Mostra Augustea della Romanità. L’immagine dell’imperatore, nonostante rappresenti la sconfitta e la sottomissione dei barbari, non cedeva a quel sarcasmo che, invece, si ritrova nella scena disegnata da De Seta. L’unico scopo delle sue cartoline era evidenziare l’inferiorità biologica e spirituale degli Africani, identificati semplicemente come prede.

Enrico De Seta. Fotografia Ricordo dell’Africa orientale.

 

Statua loricata di Adriano.

BACK TO FASCISM | Mussolini and the Romans’ false racism

Mussolini believed in a common thread through ancient Roman and contemporary Italian racism: one of the regime’s most significant cases of manipulation of historical reality. The Romans as opposed to the regime had carried out forms of integration and tolerance of foreign cultures parallel to their expansionism. The discrimination practised by the Romans did not concern facial features or skin colour, but uses and customs that were different from theirs. These discriminations ended with the ‘Romanization’ of the conquered peoples and with the Roman citizenship granted by Emperor Caracalla to all inhabitants of the Empire.

The threat of hybridisation

Fascist racism was initially towards African subjects and the threat of hybridisation. Black women and men were denigrated by means of propaganda. An example is given by the cover of La Difesa della Razza (‘Defending the race’) by Bebi Fabiano, where a ‘black’ Eve was depicted handing the apple to a ‘white’ Adam, the two being separated by a sheet of glass. The image alluded to the ban on hybridisation imposed during the Ethiopian campaign. In fact, African women were considered a mere sexual object, whereas black men were constantly denigrated.

Cover of La Difesa della Razza by Bebi Fabiano.

Subjugating the barbarians: a comparison

An example of the supposed common thread through ancient Roman and Fascist racism is Fotografia ricordo dell’Africa Orientale (‘Souvenir photograph of East Africa‘; 1935-1936) by designer and painter from Catania Enrico De Seta. This postcard, which is part of a series, depicts an Italian soldier with a satisfied air who lets himself be photographed while he crushes with his left foot the head of one of the three helpless Ethiopians lying on the ground. De Seta took inspiration from the Roman iconographic type of the ‘submissive barbarian’, represented by Hadrian’s statue with cuirass displayed at the ‘Augustan Exhibition of Romanism’. The Emperor’s image, despite representing the defeat and subjugation of the barbarians, did not yield to that sarcasm that is found in the scene drawn by De Seta. The sole purpose of his postcards was to highlight the biological and spiritual inferiority of African people, identified simply as prey.

Enrico De Seta. Fotografia ricordo dell’Africa Orientale.

 

Hadrian’s statue with cuirass.