Io a Messina ci ho passato i cinque anni migliori, più operosi, più lieti, più raccolti, più raggianti di visioni, più sonanti d’armonie della mia vita. Tale potenza nascosta donde s’irradia la rovina e lo stritolio, ha annullato qui tanta storia, tanta bellezza, tanta grandezza. Ma ne è rimasta come l’orma nel cielo, come l’eco nel mare. Qui dove è quasi distrutta la storia, resta la poesia.
Probabilmente la più bella dichiarazione d’amore fatta a questa città, così martoriata nel tempo, così diversa da quell’epoca, nella quale la poesia era di casa (per approfondire clicca qui).
“Natale a Casa Pascoli”
Il 19 Dicembre alle ore 10:00, verrà ricordato lo scrittore e poeta Giovanni Pascoli (clicca qui per approfondire la sua vita). Sarà un evento molto particolare con la partecipazione speciale del sindaco di Messina Cateno De Luca e del bravissimo Geri Villaroel. Siete invitati a partecipare perché sarà un evento unico e importante per Messina. “Natale a Casa Pascoli”, a Largo Risorgimento, Palazzo Sturiale, il 19 Dicembre alle 10:00! Iniziamo a ricordare e celebrare quanto Messina era grande! Ritorniamo ad esserlo. Questo l’annuncio apparso sulla bacheca Facebook dell’assessore alla cultura Vincenzo Caruso, il quale accoglie l’iniziativa e le parole dell’immancabile Architetto Nino Principato.
Esordisce così Giovanni Pascoli, appena arrivato a Messina insieme alla sorella Mariù, in uno scambio epistolare con l’altra sorella, Ida a Santa Giustina: Lo Stretto è bello e l’aria è buona sebbene molto scirocchevole. Però umidità non ce n’è punta.
Prosegue scrivendo: Bella falce adunca, che taglia nell’azzurro il più bel porto del mondo, il bel monte Peloro verde di limoni e Glauco di fichidindia e l’Aspromonte che, agli occasi, si colora d’inesprimibili tinte.
Giunto a Messina nel gennaio del 1898 perché chiamato ad insegnare Letteratura Latina presso l’Università degli Studi della città peloritana.
Nominato professore ordinario senza concorso, tramite decreto, dal ministro della Pubblica Istruzione Giovanni Codronchi Argeli, come previsto dall’art. 49 della legge Casati, Giovanni Pascoli si innamorò subito della città dello stretto, al primo fatale impatto.
Il suo primo alloggio messinese fu un appartamento al secondo piano di Via Legnano, al numero civico 66, un’abitazione con gran numero di stanze e diversi fornelli a disposizione. Manca solo il camino, particolare che non sfugge a Mariù che se ne lamenta all’interno della lettera sopra citata, scritta insieme al fratello. Infatti, dopo la prima entusiastica impressione di Messina, la donna muta completamente in negativo la propria opinione, probabilmente condizionata dall’aggravarsi della malattia (il tifo), contratta nel marzo dello stesso anno, si ipotizza mangiando cozze a Ganzirri.
Io odio Messina e il suo bel cielo, sempre nuvolo…e il suo bel mare che vedo e il suo popolo…paghiamo carissima anche l’aria che puzza di concerie e di gas…bisogna cuocere tutto…
Malattia che colpì anche il Pascoli, ma che dopo la guarigione di entrambi rimase solo un triste ricordo, riconciliando con la città la stessa Mariù, tornata nuovamente di buon umore.
Amava trascorrere le vacanze estive a Castelvecchio di Barga nella sua diletta bicocca, come amava definirla, ritornando a Messina intorno a novembre per l’inizio dell’anno accademico.
Lasciata la casa di via Legnano, va ad abitare, dopo meno di un anno (siamo ancora nel 1898), in un appartamento di Palazzo Sturiale in piazza Risorgimento al numero civico 162. La zona è quella di nuova espansione a sud di Messina e l’alloggio, da lui descritto, si presenta moderno, ampio e sicuro, nel rispetto delle norme sismiche dell’epoca. E in effetti la sua valutazione sull’edificio si dimostrò impeccabile, considerando che scampò al sisma del 1908, restando ancora oggi in piedi nonostante il sacco edilizio che ha stravolto la città.
L’entusiasmo del poeta per la città e la nuova abitazione emerge in diverse descrizioni fatte dal poeta, in particolar modo in una lettera, nella quale Pascoli invita la sorella Mariuccina, che dopo le vacanze estive rimase nel suo paesino, a tornare a Messina: E’ pulitissima… bella vista… dalla cucina si vede il forte Gonzaga sui monti… dall’altra finestra il mare, su l’Aspromonte…
Descrivendogli anche lo studio che definisce stupendo, promettendo alla sorella che con un bell’arredamento diventerà ilpiù bell’alloggio di tutta Messina.
Un amore smisurato quello del poeta per la nostra città che si evince anche da ulteriori racconti dello stesso Pascoli, un affetto rivolto non solo ai luoghi, ma in particolare alle persone che li popolano, come il collega Manara Valgimigli con il quale nei moemtni liberi amava passeggiare (mete preferite, la Palazzata, la Pescheria, la spiaggia di Maregrosso da dove ammira il “Fretum Siculum” e il mare), ed il portiere di Palazzo Sturiale, un certo Giovanni Sgroi a cui il poeta si affeziona, definendolo, in maniera probabilmente ironica: aborto di Polifemo: guercio, zoppo, piccolo.
Una persona con la quale il poeta avrà uno stretto rapporto, che lo spingerà, dopo il terremoto del 1908, a ricordarsi di lui e della sua grande bontà d’animo, inviandogli una grossa somma di denaro ed una lettera con un finale da brividi che recita così: Che la nostra Messina risorga più bella di prima.
La sciagura del 1908 sconvolge pesantemente Pascoli, andato via da Messina nel 1902 insieme naturalmente alla sorella Mariù. Il poeta soffre un dolore autentico, sentito, come quello di un figlio che perde un genitore, portandolo a dedicare le parole più belle a questa sua cara città, come quelle rese pubbliche sulla Gazzetta di Messina e della Calabria nel luglio del 1910, dal poeta all’avvocato Luigi Fulci.
Io a Messina ci ho passato i cinque anni migliori, più operosi, più lieti, più raccolti, più raggianti di visioni, più sonanti d’armonie della mia vita. Tale potenza nascosta donde s’irradia la rovina e lo stritolio, ha annullato qui tanta storia, tanta bellezza, tanta grandezza. Ma ne è rimasta come l’orma nel cielo, come l’eco nel mare. Qui dove è quasi distrutta la storia, resta la poesia.
Probabilmente la più bella dichiarazione d’amore fatta a questa città, così martoriata nel tempo, così diversa da quell’epoca, nella quale la poesia era di casa.
Giovanni Pascoli nasce a San Mauro di Romagna il 31 dicembre 1855. È Considerato uno dei più importanti poeti decadenti italiani. La sua crescita e la sua formazione furono fortemente segnati dalle difficili vicende vissute durante gli anni dell’infanzia e della prima giovinezza, che influenzarono inevitabilmente anche la sua sensibilità e la sua poetica.
Nel 1867 perse infatti il padre in circostanze misteriose; l’uomo venne assassinato mentre tornava a casa in calesse e il delitto rimase sempre impunito. A breve distanza di tempo avvenne anche la scomparsa della madre, due drammi che portarono profonda disperazione e dolore nella vita di Pascoli. Condivise dolori e sofferenze economiche con due fratelli e due sorelle, Giacomo e Luigi, Ida e Maria. Fu lui a provvedere al sostentamento dei fratelli dopo la morte dei genitori.
Pascoli riuscì a proseguire gli studi fino alla laurea grazie a una borsa di studio. Fino al 1895 visse con le sorelle. Poi, quando Ida si sposò, visse in affettuosa intimità con Maria, detta “Mariù”, a Castelvecchio di Barga, in Lucchesia. Questo rimarrà uno dei luoghi più importanti e significativi della sua vita. Da professore insegnò a Matera e quindi a Massa ed a Livorno, ma, avendo assunto atteggiamenti anarchici, fu trasferito a Messina, nella cui Università ha assunto il ruolo di docente di letteratura latina.
Ma non fu un ribelle, anzi, alla maniera decadente si chiuse nel suo dolore, si isolò in se stesso, solo con le sue memorie e con i suoi morti. La sua ribellione fu un senso di avversione per una società in cui era possibile uccidere impunemente e nella quale si permetteva che una famiglia di ragazzi vivesse nella sofferenza e nella miseria.
Non c’è ribellione nella sua poesia, ma rassegnazione al male, una certa passività di fronte ad esso: vi domina una malinconia diffusa nella quale il poeta immerge tutto, uomini e cose. Egli accetta la sua triste realtà come è, e si sottomette al mistero che non riesce a spiegare. La sua poesia non ha una trama narrativa e non è neppure descrittiva: esprime soltanto degli stati d’animo, delle meditazioni. E’ l’ascolto della sua anima e delle voci misteriose che gli giungono da lontano: dalla natura o dai morti.
Le vicende personali e familiari di Giovanni Pascoli, e il loro impatto sulla sua produzione artistica del poeta, sono efficacemente rievocate e ricostruite nel racconto di Guido Davico Bonino. Uno straordinario documento in cui il critico e professore universitario ripercorre le tappe della vita di Pascoli, attraverso la sua esperienza umana e i riflessi sulla sua poetica.
La raccolta Canti di Castelvecchio , pubblicata nel 1903, fa di Pascoli, come sostiene Davico Bonino, il primo grande poeta italiano contemporaneo, capace di rinnovare la tradizione linguistica mediante un lessico “agreste o contadino”, che prevede l`innesto di suoni animali e naturali, voci dalla forte eco simbolica, perché rievocano innocenza, malinconica, malesseri e paure indecifrabili, sullo sfondo dell`attesa della morte. All’interno dello stesso contributo, l’attore Umberto Ceriani legge e interpreta alcuni brani tratti dagli stessi Canti di Castelvecchio: Nebbia, Il brivido, Il gelsomino notturno, L`ora di Barga, La mia sera, La servetta di monte, La tessitrice e Commiato.
Morì a Bologna il 6 aprile 1912 (stesso anno della tragedia del transatlantico Titanic) e con lui scomparì parte del bello di questo mondo, che perse oltre alla poesia, quel poco di umanità, di amore e arte presente nell’animo e nel cuore di ogni essere umano, per far spazio ad odio dolore, cattiveria, un mantello nero che ci circonderà per molto tempo, culminando con due devastanti guerre, che calpesteranno l’essenza stessa dell’essere uomini.
Continua la prossima settimana con altri aneddoti sull’illustre messinese Pascoli
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