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SPECIALE ROMA | Il nome “Roma”: enigma storico e filologico

Di Giuseppe Ramires

Il mondo antico ci ha tramandato diverse interpretazioni sull’origine del toponimo “Roma”. Plutarco (50-120 circa d.C.), ad esempio, proprio all’inizio della biografia di Romolo nelle Vite parallele, parla della mancanza di accordo tra gli storici, che si dividevano in due fazioni. Gli uni propendevano per un’origine pelasga, legata al sostantivo ῥώμη (rhome), che significa “forza”, gli altri pensavano piuttosto ad una derivazione dal mito troiano: quando le navi ormeggiarono alla foce del Tevere, una delle donne, che si chiamava Ῥώμη (Rhome), propose alle altre di bruciare le navi così da impedire ai loro uomini di riprendere il viaggio.

L’incendio delle navi (ricordato anche da Virgilio, ma anticipato alla sosta in Sicilia, descritta nel libro V dell’Eneide) costrinse i troiani a stabilirsi nei pressi del colle Palatino. Plutarco prosegue poi con altre versioni, di cui si trova traccia, in modo analogo ma non sempre identico, in altri autori e raccolte, come Dionigi di Alicarnasso (60-7 circa a.C., Antichità Romane 1.72), Sesto Pompeo Festo (II sec. d.C., De verborum significatu, alla voce “Romam”), Gaio Giulio Solino (210 circa-258?, Collectanea rerum memorabilium 1.1-3) e Servio nel commento all’Eneide 1.273 (anche nella versione “aumentata”, il cosiddetto Servio Danielino, IV-V sec. d.C.). Ci sarebbe stata una fanciulla di nome Rhome, che avrebbe sposato Enea o suo figlio Ascanio e avrebbe dato il nome alla città.

Un’altra ipotesi si collegava al passaggio di Ulisse e alla sua unione con Circe, da cui sarebbe nato un figlio di nome Romano, che avrebbe fondato la città. E non manca naturalmente chi invece pensava a Romolo, quindi ad una onomastica autoctona, per cui il nome Romulus deriverebbe, come diminutivo, dal termine etrusco, non altrimenti attestato, “Rume”. Une versione simile si legge anche in Servio (i due fratelli si chiamavano Remus e Romus, poi cambiato in Romulus), e che sarebbe confermata da una sentenza della Sibilla (forse quella cumana): Ῥωμαῖοι, Ῥώμου παῖδες (“I Romani, figli di Romo”). Le diverse versioni hanno qualche volta una paternità, ma si tratta di nomi di autori di cui non sappiamo quasi nulla. Festo, ad esempio, cita un certo Cephalon Gerghitius, che avrebbe scritto un’opera sull’arrivo di Enea in Italia, e un Antigono scrittore di storie italiche. Servio Danielino attribuisce ad uno storico greco di nome Clinias la versione con Rome, figlia di Telemaco, che avrebbe sposato Enea e dato il nome alla città. Seduttiva, ma poco credibile e fantasiosa è la spiegazione data nel VI secolo dallo scrittore bizantino Giovanni Lido, secondo il quale il nome segreto “Roma” deriverebbe da una lettura al contrario del nome “Amor”.

L’incertezza sull’origine del nome “Roma” persiste anche tra gli studiosi moderni. In generale, si può dire che nessuno più crede ad una spiegazione legata a un “fondatore” (ecista) venuto dalla Grecia o dall’Etruria. Negli ultimi anni, due sono le tesi prese in maggiore considerazione. La prima mette in relazione il nome di “Roma” con l’antico nome del fiume Tevere, che sempre secondo Servio si chiamava Rumon. Nell’esegesi di un verso (Aen. 8.63), in cui Virgilio dice che il Tevere con la sua corrente “lambisce le rive”, Servio spiega che questo è tipico di quel fiume, che infatti ab antiquis Rumon dictus sit, quasi a voler significare che “rumina”, cioè “rimastica” e corrode le rive. Il nome Rumon deriverebbe cioè dalla parola “ruma”, che significa “gola”. Ma questa parola, “ruma”, attestata pure in osco, può significare anche “mammella”, e lo stesso Servio, commentando Aen. 8.90, mette in relazione l’antico nome Rumon con la ficus ruminalis, ovvero il fico sotto il quale, secondo la leggenda narrata da Tito Livio, una lupa avrebbe allattato Romolo e Remo. Questa seconda spiegazione, che comunque riconduce al nome Romolo, e cioè a una fondazione antichissima, indigena ma pre-etrusca della città, è quella a cui gli storici sembrano voler dare oggi più credito.

 

Giuseppe Ramires è un filologo classico. Dottore di ricerca in Filologia greca e latina (1992) e in Scienze politiche, storiche e filosofico-simboliche (2013), dal 2012 è abilitato all’insegnamento in Lingua e letteratura latina e in Filologia classica e tardoantica. Dopo il post-dottorato in Filologia classica, è stato fellow presso il Warburg Institute di Londra (2000). È uno dei collaboratori per la preparazione dei testi del Progetto “DigilibLT. Biblioteca digitale di testi latini tardoantichi” presieduto da Raffaella Tabacco dell’Università degli Studi del Piemonte Orientale. È invitato regolarmente come relatore a convegni nazionali e internazionali (di recente a Parigi alla Sorbona e all’École Normale Supérieure). È editore del Commento di Servio a Virgilio, il cui prossimo volume uscirà nella prestigiosa “Collection des Universités de France” (Les Belles Lettres). Ha pubblicato, su riviste nazionali e internazionali e in volumi di atti di convegni, studi su Plauto, Catullo, Lucrezio, Virgilio, Tibullo, Properzio, Petronio, Stazio, Valerio Flacco, Draconzio, Servio, sulla fortuna dei classici presso Dante e Petrarca, Foscolo, Pascoli, Yourcenar e sulla tradizione dei classici in età umanistica (Guarino Veronese, Poliziano, Parrasio e Robortello). Il Pontifical Institute of Medieval Studies di Toronto gli ha affidato l’incarico di curare la voce Servius per il prestigioso Catalogus Translationum et Commentariorum. Su di lui, il grande virgilianista statunitense Craig Kallendorf ha scritto: “one of the best of the current generation of Virgilian editors”.