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NEWS | Dal Dna antico la storia dei Caraibi prima dell’arrivo degli europei (PHOTOGALLERY)

Un team internazionale di genetisti, archeologi, antropologi e fisici, tra cui Alfredo Coppa del Dipartimento di Biologia ambientale della Sapienza, ha analizzato il Dna di 174 individui che vivevano più di 2000 anni fa in quelle che oggi sono le isole di Bahamas, Cuba, la Repubblica Dominicana, Haiti, Puerto Rico, Guadeloupe, Santa Lucia, Curaçao e Venezuela. Lo studio, pubblicato su Nature, ha messo in luce la storia delle popolazioni caraibiche prima dell’arrivo degli europei, rispondendo a domande rimaste irrisolte fino a questo momento.

La prima colonizzazione dei Caraibi risale all’inizio dell’epoca arcaica, circa 6000 anni fa. Dopo circa 3/4000 anni è iniziata l’Età della ceramica e ancora altri 2000 anni dopo sono arrivati i primi navigatori europei. Molte sono le domande che riguardano le popolazioni originarie di queste terre, lavoratori della pietra prima e della ceramica dopo: se avessero o no la stessa discendenza; quanto numerose fossero al momento dell’arrivo dei colonizzatori europei e se gli abitanti moderni delle aree che oggi corrispondono alle isole di Bahamas, Cuba, la Repubblica Dominicana, Haiti, Puerto Rico, Guadeloupe, Santa Lucia, Curaçao e Venezuela abbiano un Dna riconducibile alle antiche popolazioni.

Lo studio

Il più grande studio condotto fino a questo momento sul Dna antico, coordinato dalla Harvard Medical School e pubblicato sulla rivista Nature, ha risposto a queste domande grazie al lavoro di un team internazionale di genetisti, archeologi, antropologi e fisici, tra cui Alfredo Coppa, che ne è stato il promotore, del Dipartimento di Biologia ambientale della Sapienza Università di Roma.

Lo studio ha analizzato il patrimonio genetico di 174 individui oltre ad altri 89 genomi sequenziati precedentemente. Questa mole di dati fa sì che oltre la metà delle informazioni da Dna antico oggi disponibili per le Americhe provenga dai Caraibi, con un livello di risoluzione fino a ora possibile solo in Eurasia occidentale. Di questi 174 genomi, l’80% sono stati studiati e messi a disposizione da ricercatori di Sapienza. I risultati del lavoro indicano che ci sono differenze importanti tra le popolazioni arcaiche preceramiche che lavoravano la pietra e quelle che lavoravano l’argilla, che la popolazione autoctona di queste aree era meno numerosa di quanto ritenuto fino a ora al momento dell’arrivo degli europei e infine, che l’attuale popolazione di molte isole caraibiche discende da popoli che le abitavano prima dell’arrivo dei colonizzatori.

L’origine delle popolazioni caraibiche

Inoltre i dati ottenuti hanno permesso di escludere che le popolazioni caraibiche dell’Età arcaica abbiano avuto connessioni con quelle dell’America del Nord, come ritenuto fino a oggi, e di attribuire la loro discendenza da una singola popolazione originaria o dell’America Centrale o di quella Meridionale.

Le popolazioni dell’Età della ceramica presentavano un profilo genetico differente, più simile ai gruppi del nordest dell’America meridionale (di lingua Arawak), un dato congruente con le evidenze ottenute su basi archeologiche e linguistiche. Da quanto osservato sembrerebbe, infatti, che questi popoli abbiano migrato dal Sud America verso i Caraibi almeno 1700 anni fa, soppiantando le popolazioni che lavoravano la pietra, quasi completamente scomparse all’arrivo degli europei (restava una piccola percentuale nell’isola di Cuba). Ciò conferma che gli incroci tra queste due popolazioni erano estremamente rari.

La produzione di manufatti ceramici

Quanto alla lavorazione dell’argilla per la produzione di manufatti di ceramica, lo studio ha evidenziato che nel corso dei 2000 anni trascorsi dalla loro comparsa fino all’arrivo degli europei, si sono avute differenze tra i vari stili ritenute, negli anni passati, il risultato di flussi di popolazioni provenienti da fuori i Caraibi. In realtà è emerso che a tali varietà di manifestazioni artistiche non corrispondono cambiamenti genetici o evidenze di un contributo genetico sostanziale da parte di gruppi continentali. I risultati testimoniano invece la creatività e il dinamismo di queste antiche popolazioni che hanno sviluppato nel tempo questi stili artistici straordinariamente diversi tra loro. 

La presenza di reti di comunicazione tra questi gruppi che producevano vasellame potrebbero aver agito da catalizzatori nella diffusione delle transizioni stilistiche osservate attraverso tutta la regione.

I risultati genetici – spiega Alfredo Coppa della Sapienza, che per anni ha studiato la morfologia dentale delle antiche popolazioni dei Caraibi – si allineano con il riscontro fatto nelle popolazioni dell’epoca arcaica che si differenziavano significativamente da quelle dell’epoca della ceramica. Tuttavia, rimangono ancora da spiegare queste differenze e occorreranno ulteriori studi per determinare se siano dovute a forze micro-evolutive che in qualche modo risultano essere rilevabili mediante la morfologia dentale, ma non alle analisi genetiche, o se invece queste possono essere conseguenza di abitudini diverse.

Il Dna come mezzo per misurare le dimensioni di una popolazione

L’elevato numero di campioni esaminati ha infine permesso una stima della dimensione della popolazione caraibica prima dell’arrivo degli europei: il metodo, sviluppato da David Reich, co-autore dello studio e docente della Harvard Medical School e della Harvard University, usa campioni presi in modo casuale, valuta quanto siano imparentati tra loro ed estrapola dati sulla dimensione della popolazione di origine. Tanto più i campioni risultano essere imparentati, tanto più piccola sarà, plausibilmente, la popolazione di origine; meno risultano essere imparentati, tanto più grande dovrebbe essere stata la popolazione.

Essere in grado di determinare le dimensioni delle popolazioni antiche utilizzando il Dna significa avere uno strumento straordinario che, applicato nei diversi contesti mondiali, permetterà di fare luce su moltissime domande – dicono i ricercatori – ma indipendentemente dal fatto che ci siano state, nel 1492, un milione di persone autoctone o qualche decina di migliaia, non cambia ciò che è accaduto in seguito all’arrivo degli europei nei Caraibi: la distruzione di un intero popolo e della sua cultura.

Tracce delle popolazioni autoctone nelle popolazioni moderne

Infine, una delle grandi domande a cui hanno cercato di rispondere i ricercatori riguarda il patrimonio genetico delle persone che oggi abitano nei Caraibi e la riconducibilità a quello delle popolazioni autoctone precolombiane. I risultati dello studio hanno dimostrato che ci sono ancora tracce di Dna delle popolazioni autoctone pre-colonizzazione nelle popolazioni moderne e in particolare che gli attuali abitanti dei Caraibi conservano Dna proveniente da tre fonti (in proporzioni diverse nelle diverse isole): quello degli abitanti autoctoni precolombiani, quello degli Europei immigrati e quello degli Africani portati nell’isola durante la tratta degli schiavi.

Lo studio è stato finanziato da National Geographic Society, National Science Foundation National Institutes of Health/National Institute of General Medical Sciences, Paul Allen Foundation, John Templeton Foundation, Howard Hughes Medical Institute e dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.

A questo link il video della mappa interattiva.

Credits photogallery: Missione archeo-antropologica Sapienza in Repubblica Dominicana.

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NEWS | Lo scenario di una possibile sepoltura neandertaliana

Un ampio studio pluridisciplinare sui Neanderthal, condotto da un’equipe di stampo internazionale, ha restituito importanti avanzamenti sul sito archeologico di La Ferrassie (Savignac-de-Miremont, Dordogna), in Francia. Uno dei tanti di questo periodo.

I risultati delle ricerche, volte ad approfondire le conoscenze dello scheletro di un bambino di due anni e del contesto archeologico in cui è stato rinvenuto, hanno permesso agli autori di proporre come the most parsimonious scenario (lo scenario più frugale) quello di una sepoltura volontaria, di un bambino di Neanderthal vissuto circa 41.000 anni fa.

Nel grand abri (ampio riparo sottoroccia), del sito de La Ferrassie, sarebbe stato scavato un pozzo, in un sedimento sterile, cioè privo di altre evidenze archeologiche, in cui il corpo del bambino sarebbe stato volontariamente deposto.

Per lo svolgimento delle analisi sono state applicate tutte le tecniche di ricerca più avanzate: datazioni, sia al Carbonio 14 che con la tecnica della termoluminescenza (OSL) per datare il deposito circostante, l’applicazione della spettrometria di massa ZooMS e l’elaborazione di dati relativi al DNA antico. Il tutto è stato corredato da informazioni geologiche e stratigrafiche del contesto circostante, nonché dalla rielaborazione delle informazioni spaziali provenienti sia dagli scavi del 1968-1973 , sia delle più recenti analisi del 2014.

Il lontano rinvenimento di Neanderthal

Il riparo roccioso del grand abri ha restituito, per tutto l’intero sito di La Ferrassie, il maggior numero di scheletri di Neanderthal, sia completi che parziali. La maggior parte delle collezioni sono state rinvenute all’inizio del XX secolo,  mentre l’ultimo scheletro, rinvenuto tra il 1968 e il 1973, è stato proprio “LF 8” (La Ferrassie 8), uno scheletro parziale di Neanderthal (cranio, collo e ossa del tronco, bacino e quattro falangi delle mani) di un bambino di circa due anni. Il contesto del ritrovamento è stato sempre considerato come scarsamente documentato, ma in realtà i vecchi diari di scavo (conservati presso il Musée d’Archéologie nationale e Domaine national de Saint-Germain-en-Laye, di seguito indicato MAN) contenevano un’enorme quantità d’informazione, che doveva solo essere riscoperta e rielaborata, così come hanno fatto i ricercatori per lo svolgimento della ricerca.

Nei musei gli “scrigni” del passato vengono riaperti

Nel 2014 sono stati condotti ulteriori scavi, presso il luogo di ritrovamento, per riconsiderare il deposito archeologico e raccogliere nuovi dati per le analisi geologiche, stratigrafiche e geocronologiche.

L’indagine si è concentrata, inoltre, sullo studio delle collezioni dei reperti del Museo Archeologico Nazionale di Les Eyzies e del Museo Nazionale di Storia Naturale a Parigi, e negli archivi del Musée de l’Homme e dell’Institut de Paléontologie Humaine, sempre a Parigi. In questo modo è stato possibile reinterpretare diversi reperti, sia archeologici che antropologici, facendo emergere circa cinquanta nuovi frammenti di ossa di ominidi, di cui alcuni rinvenuti in una scatola degli scavi del 1973, riconducibili all’infante LF8.

Neandertal
Analisi dei reperti ossei dal sito di La Ferrassie

Uno dei più recenti Neanderthal datati direttamente

Di particolare importanza è l’identificazione nello stesso deposito, con una tecnica di spettrometria di massa chiamata ZooMS, di un osso di ominide che, attraverso lo studio del DNA mitocondriale, è stato associato ai Neanderthal. La successiva datazione al radiocarbonio ha fornito un’età compresa tra i 41.700 e i 40.800 anni fa.

Antoine Balzeau commenta come si tratti “di una datazione non solo più recente rispetto ai resti faunistici trovati nel livello archeologico soprastante, ma anche più recente dell’età ottenuta con il metodo della luminescenza per lo strato sedimentario che circonda il bambino”, confermando dunque che si tratti di una sepoltura scavata intenzionalmente.

Evidenza di pratiche funerarie oppure no?

L’elaborazione di pratiche funerarie complesse è unica nel linguaggio umano e l’emergere di questo comportamento può essere considerato l’evidenza di complesse capacità cognitive e simboliche.

La questione se i Neanderthaliani seppellissero o no i propri morti è da tempo oggetto di un ampio dibattito, e solleva altri interrogativi sulla possibile somiglianza tra le due specie nelle pratiche funerarie e sulla questione della possibile “acculturazione”,  o trasmissione culturale, tra gli Homo Sapiens e gli ultimi Neanderthaliani: il tutto sempre ammettendo la possibilità di considerare le sepolture, di per sé, come l’espressione di un comportamento simbolico, piuttosto che dettata da un’intenzione utilitaristica.

Di là da questioni delicate, che continueranno ad essere alla base delle discussioni tra i più grandi esponenti di paleoantropologia, i risultati “mostrano quanto l’approccio multidisciplinare con cui è stata realizzata questa ricerca sia essenziale per far progredire la nostra comprensione del comportamento dei Neanderthal, comprese le pratiche funerarie”, dice in conclusione Asier Gómez-Olivencia.

Lo studio è stato pubblicato su Scientific Reports, rivista del gruppo Nature, con il titolo “Pluridisciplinary evidence for burial for the La Ferrassie 8 Neanderthal child”. Le ricerche sono state guidate da Antoiene Balzau del CNRS e del Museo Nazionale di Storia Naturale di Parigi, insieme ad Asier Gómez-Olivencia dell’Università dei Paesi Baschi (Spagna). Tra i membri, anche l’italiana Sahra Talamo, direttrice del nuovo laboratorio di radiocarbonio BRAVHO (Bologna Radiocarbon laboratory devoted to Human Evolution) presso l’Università di Bologna e dell’Istituto Max Planck di Antropologia Evolutiva (Germania), nonché Principal investigator del progetto di ricerca RESOLUTION (ERC Starting Grant N. 803147). Il progetto si basa sullo sviluppo di set di dati di calibrazione al radiocarbonio ad alta risoluzione, utilizzando alberi fossili per risolvere i periodi chiave nella preistoria europea, tra cui anche quello dell’arrivo dei Sapiens in Europa e dell’interazione con i Neanderthal.

Articolo a cura di Ilda Faiella