Dal 6 dicembre il Transatlantico di Palazzo Zanca ospiterà l’esposizione “Caravaggio, ritratti dell’anima”.
Per ricordare Caravaggio nell’anno in cui si celebra il 450esimo anniversario della sua nascita, sarà infatti visitabile una mostra “silenziosa”.
L’iniziativa, promossa dall’Assessore alla Cultura Enzo Caruso e curata dall’esperto comunale di arte contemporanea Alex Caminiti. La mostra prevede anche una personale dell’artista campano Alessandro Follo, caratterizzata da una carrellata di volti, figure, e posture di una intensa straordinarietà.
Follo intende raccontare l’evoluzione del genere ritratto, traendo spunto dal realismo noto nei capolavori assoluti di Caravaggio. <<Un vero piacere scoprire il lavoro di un artista di nuova figurazione che oltre a dimostrare abilità creativa, riesce con le sue opere a porsi umilmente al pubblico con verità e sincerità>>, ha evidenziato l’esperto Caminiti.
“Messina nel 1780. Viaggio in una capitale scomparsa”. La straordinaria scoperta di una Messina mai vista: giovedì 9 a Palazzo Zanca presentazione del volume.
Sarà dunque presentato giovedì 9, alle ore 18.00, nel Salone delle Bandiere a Palazzo Zanca, alla presenza degli Assessori alla Cultura Enzo Caruso e ai Beni Culturali Salvatore Mondello, il volume di Luciano Giannoneche narra, attraverso una straordinaria ricostruzione in 3D e a colori, la Messina antecedente al Terremoto del 1783.
Una Messina sconosciuta, mai vista, se non attraverso le ormai note stampe e le incisioni realizzate al tempo da viaggatori e pittori che soggiornarono in città.
Il giovane architetto Luciano Giannone, laureatosi in Architettura a Firenze, con una tesi che è all’origine della pubblicazione del volume, ha dedicato anni di studio, passione e maestria nell’applicazione di moderne tecnologie, per ricostruire la “Nobile Città di Messina” e restituirla ai messinesi, bella e lussuosa per come la storia ce l’ha tramandata nei racconti e nei ricordi dei viaggiatori che transitarono a Messina tra il XVI e il XVIII secolo.
Le parole dell’Assessore Caruso
<<Chissà quante volte è sorto tra i messinesi il desiderio di poter tornare indietro nel tempo, per assaporare la Messina prima del terremoto del 1783 – dichiara l’Assessore Caruso -. Questo libro è un viaggio, come ben lo presenta il suo autore Luciano Giannone, a cui va tutta la mia ammirazione per il certosino lavoro di ricerca e per l’estro, tipico dell’architetto, con cui ci restituisce una Messina sconosciuta e splendida, con i suoi palazzi e i suoi quartieri, che va al di là di ogni fervida immaginazione e ci rende, così, orgogliosi di appartenere a quella discendenza di persone che ebbero la capacità di progettarla così maestosa e stupenda, tanto da essere declamata e dipinta da scrittori e artisti di tutta Europa, in transito nello Stretto, o in sosta nel suo accogliente Porto, posto nel baricentro delle rotte commerciali del Mediterraneo>>.
Inoltre, prenderanno parte all’incontro Mirella Vinci, Soprintendente ai Beni Culturali e Ambientali, e Pino Falzea, Presidente dell’Ordine degli Architetti.
Per convenzione si pensa che l’Autoritrattodi Antonello da Messina sia quello conservato alla National Gallery di Londra, nel quale egli si sarebbe ritratto come un giovane sbarbato con la berretta rossa. Infatti “una testa coperta di un berettino rosso, con barba rasa che è il vero ritratto d’Antonello da Messina fatto di sua propria mano”, era presente (già nel 1632) nella collezione ferrarese di Roberto Canonici, segnalato nel 1870 da Giuseppe Campori. Tutta la critica converge sull’idea che quello sia il quadro che- nel frattempo pervenuto alla famiglia genovese dei Molfino- passò definitivamente nelle collezioni del museo inglese ove attualmente è custodito.
Con questa convinzione il dipinto è stato impresso pure sulla vecchia banconota da 5.000 lire. La mia idea, o sia una suggestione peregrina, è che il vero volto del Nostro sia invece quello della tavola conservata a Cefalù nel Museo Mandralisca e meglio noto come “Ritratto dell’Ignoto marinaio”.
Il “Ritratto dell’Ignoto marinaio”
Quadro misterioso, affascinante, ha sempre attirato l’attenzione dello spettatore per quello sguardo enigmatico, sornione, malizioso: addirittura – ha scritto Federico Zeri – è ben difficile menzionare qualcosa di più intimamente siciliano del Ritratto di Cefalù. La storia della tavoletta (olio su tavola di noce, cm. 30.5×26.3) è stata oggetto di un agile libretto pubblicato nel 2017, “Sfidando l’ignoto. Antonello e l’enigma di Cefalù”, grazie al quale sappiamo che il quadro comparve per la prima volta nelle raccolte della famiglia Mandralisca verso la metà del Settecento. Infatti, come rilevano gli autori, nel retro della tavoletta è presente un timbro cereo con impresse le armi di Giuseppe Pirajno, antenato del Barone Enrico, che visse tra il 1687 e il 1760 svolgendo per tutta la vita l’incarico di vicario del vescovo protempore di Cefalù. Questo timbro venne coniato per la prima volta nel 1738, anno di stesura del testamento del prelato: gli autori suppongono quindi che il dipinto sia entrato in possesso della famiglia Pirajno attorno a quegli anni. Secondo gli autori del libro, il Ritratto pervenne alla famiglia Pirajno grazie alle mire proditorie di Giuseppe, che da vero dominus della Curia di Cefalù poteva tranquillamente alienare a suo favore ogni bene avesse un valore riconosciuto. Come nella fattispecie fece con il dipinto in questione, in quanto – secondo gli studiosi summenzionati- esso era di pertinenza della Curia da lui “custodita”. Ma solo nel 1860, in seguito alla ben nota visita in Sicilia di Giovan Battista Cavalcaselle, il dipinto venne riconosciuto come di Antonello. Anzi, il sagace connoisseurveneto, scrive in una lettera inviata al Mandralisca da Termini Imerese che quel dipinto è l’unico certamente antonellesco che abbia visto durante il suo viaggio siciliano.
La storia del ritratto
La tradizionale diceria che fosse il ritratto di un marinaio e provenisse da una farmacia di Liparidove fu acquistato dal fondatore del Museo, Enrico Pirajno barone di Mandralisca, comparve agli inizi del Novecento (la troviamo per la prima volta nella raccolta fotograficadi Domenico Anderson sulle opere d’arte siciliane) e viene fissata definitivamente dal capolavoro di Vincenzo Consolo “Il sorriso dell’ignoto marinaio” (1976). Tuttavia, Roberto Longhi, appoggiato da tutti gli storici dell’arte a lui successivi, ha sempre smontato questa teoria, affermando che Antonello da Messina non ritraesse marinai o gente del popolo bensì ricchi committenti e “baruni”. Il recente libro, scritto a sei mani da Salvatore e Sandro Varzi e Alessandro Dell’Aira, si regge invece sulla tesi che il volto sul quadro ritragga l’umanista pugliese Francesco Vitale da Noja, vescovo di Cefalù tra il 1484 e il 1492 e abilissimo traduttore dal latino. Questa conclusione si basa sul raffronto tra il volto di Cefalù eil ritratto impressonella xilografia in esergo al testo “El Salutstio Cathilinario y Jugurta en romance” (1493), in cui il traduttore (il Vitale stesso) offre l’opera al suo committente, cioè il sovrano aragonese Ferdinando il Cattolico.
E in effetti ci sorprendiamo a rintracciare alcuni punti in comune tra questa figura eil sardonico ignoto cefaludese, anche se – comparando quel volto con qualche ritratto certo del Vitale impresso in alcune medaglie commemorative dedicategli tra il 1476 e il 1485 – notiamo sostanziali differenze somatiche non solo con la nostra tavoletta ma persino con il ritratto xilografico. Il volto del Vitale, infatti, così come lo vediamo nelle medaglie è più paffuto e rotondo laddove quello di Cefalù è allungato e smunto (come anche quello della xilografia); lo sguardo è fiero e sprezzante come vediamo (per restare nell’ambito antonelliano) nel Ritratto del cosiddetto “condottiero” del Louvre e non in quello del “marinaio”. Sono portato a credere dunque che la durezza insita nel medium xilografico abbia favorito la somiglianza con il volto pungente e gli occhi socchiusi dell’uomo Mandralisca.
Quando avvenne il supposto incontro tra Antonello e il Vitale?
Secondo Varzi e Dell’Aira esso avvenne a Venezia tra il 1474 e il 1476 (in effetti, per motivi diversi, in quegli anni sia il siciliano che il pugliese si trovarono a lavorare nella città lagunare) anche se tutta la critica è concorde nell’anticipare la fattura del dipinto a non oltre il 1473 e non abbiamo documenti che provino a quella data la presenza del Vitale in Sicilia, dove Antonello invece ancora risiedeva.
Perché invece dovremmoidentificareil Ritratto di Cefalù con il volto di Antonello da Messina?
In mancanza di documenti, anche io mi baso su raffronti somatici; noto infatti (ma non sono il solo, anche gli autori del libro appena citato lo scrivono) una somiglianza sorprendente tra il volto del “marinaio” e quello che compare in un altro quadro messinese, la “piccola” Circoncisione di Girolamo Alibrandi (Messina, Museo Regionale).
Quasi al centro di quest’ultima composizione ma leggermente sfilato sulla sinistra e come illuminato da un “faretto” speciale, emerge una faccia che ci fissa con lo stesso sguardo in tralice e misterioso: sembra proprio il “cammeo” di un eminente personaggio posto lì a voler essere un omaggio e un ricordo. Il primo studioso che segnalò la curiosa somiglianza tra il Ritratto di Ignoto e il volto al centro della piccola Circoncisione dell’Alibrandi fu Giuseppe Consoli e sulla stessa scia troviamo pure Chiara Savetteri che nel suo libro dedicato ad Antonello scrisse: “L’impatto di quest’opera [il Ritratto di Cefalù] sulla pittura messinese successiva dovette essere notevole: l’attesta la Presentazione al Tempio di Girolamo Alibrandi il quale, omaggiando Antonello, raffigura tra i suoi personaggi di secondo piano l’effigie del Ritratto Mandralisca”. Ad onor del vero, dobbiamo citare un’altra ipotesi di identificazione del personaggio al centro della Circoncisione. Secondo lo studioso Ranieri Melardi, che lo scrisse nel 2011 nella sua tesi di laurea “Girolamo Alibrandi tra l’eredità di Antonello da Messina e la maniera moderna”, quel volto tipicamente meridionale è l’autoritratto di Alibrandi, anche se da recenti conversazioni orali questa ipotesi non riscuote in lui la stessa convinzione di un tempo.
Come spiegare la presenza del volto che sembra proprio quello di Cefalù nel quadro messinese?
Il quadro di Alibrandi, che pervenne all’allora Museo Civico dal Capitolo della Cattedrale, è della metà del II decennio del XVI secolo, mentre il quadro di Cefalù viene ormai concordemente datato attorno al 1470/73, quindi la differenza tra l’uno e l’altro manufatto è di circa quaranta anni. Si potrebbe supporre che l’Alibrandi (di certo spinto dal committente) abbia voluto omaggiare il suo grande conterraneo citandone un suo quadro famoso. Tuttavia, il Ritratto Mandralisca non solo non risulta storiograficamente essere“in antico” un dipinto famoso, tanto da essere citato a decenni di distanza (quasi come in un’operazione “post-moderna”),ma soprattutto non abbiamo prove certe che esso fu mai a Messina, se non nel breve periodo della sua fattura.
In più, che senso avrebbe avuto citare un prelato ed umanista che nulla ebbe a che fare con Messina, addirittura in un quadro da collocare nel cuore della messinesità, o in ogni caso un umanista importante ma non famosissimo nemmeno ai suoi tempi?
Se l’Alibrandi avesse voluto omaggiare Antonello citandone un quadro, avrebbe scelto di certo altri lavori più noti (a Messina si trovavano il Polittico di San Gregorio, il “povero” San Nicola in cattedra nella chiesa di San Nicola dei Gentiluomini e tanti altri dipinti), così come se avesse voluto inserire nella Circoncisione un personaggio famoso del suo tempo, in Messina avrebbe avuto la pletora di cittadini e forestieri da citare. Solo per restare nell’ambito degli studiosi di humanae litterae avrebbe potuto dipingere, ad esempio, la faccia di Costantino Lascaris che dal 1466 al 1501 tenne in Messina una delle più famose accademie di cultura classica di tutta Europa.
Allora come è finito quel volto nel suo dipinto a quarant’anni di distanza?
La mia ipotesi è allora che Alibrandi abbia citato a memoria il suo ricordo della faccia di Antonello, in un’epoca in cui ancora quel volto era ricordato in città da molti, per rendere gloria alla sua persona in uno dei luoghi più importanti dell’antica metropoli mediterranea. Antonello, maestro spirituale dei pittori messinesi; Antonello, pater patriae da omaggiare nel luogo-cuore della patria. Girolamo Alibrandi nacque attorno al 1470 e quando Antonello morì doveva avere quasi 10 anni; quaranta anni dopo fa riemergere dal pozzo della memoria quel volto agognato di colui che fu definito no humani pictori.
Oppure, una spiegazione alternativa sarebbe questa: Alibrandi, frequentando da giovane la nutrita bottega antonelliana attiva a Messina fin dentro il Cinquecento, avrà di sicuro visto moltissime volte il ritratto Mandralisca (all’epoca identificato con l’Autoritratto di Antonello) e dovendo omaggiare il pittore nella Purificazione lo cita quasi pedissequamente. Così si spiegano anche le piccole differenze tra i due volti (il volto dipinto dall’Alibrandi appare più giovanile, più addolcito e meno sardonicodi quello dipinto da Antonello, che in effetti potrebbe essere la “foto” di un orgoglioso quarantacinquenne)i qualiperò, nei tratti salienti e caratteristici (il naso, lo sguardo in tralice che traspare dalle mandorle delle orbite, gli zigomi prominenti, le labbra appuntite, la pelle olivastra), sono quasi del tutto sovrapponibili. Certo, ben poca cosa è una suggestione per poter affermare con certezza che l’Ignoto di Cefalù sia proprio Antonello; però, per quanto mi riguarda, quello sguardo ancora vivo e indagatore che balugina dal buio della materia e del tempo è il suo vero volto, non più di marinaio ma di un grande pittore.
Certo, resta da capire come la nostra tavoletta sia finita, a metà Settecento, a Cefalù. Ma questa -come si dice di solito- è un’altra storia…
Bibliografia
J.A. Crowe- G.B. Cavalcaselle, A History of painting in North Italy, London 1871
R. Longhi, Frammento siciliano, in “Paragone”, 47, 1953
F. Zeri, La percezione visiva dell’Italia e degli italiani, in Storia d’Italia, Torino 1976
G. Consoli, Messina- Museo Regionale, in Musei d’Italia- Meraviglie d’Italia, Bologna 1980
G. Barbera, Antonello da Messina, Milano 1998
T. Pugliatti, La Pittura del Cinquecento in Sicilia- La Sicilia Orientale, Napoli 1993
C. Savettieri, Antonello da Messina, Palermo 1998
M. Lucco, Antonello da Messina l’opera completa, Milano 2006
T. Pugliatti, Antonello da Messina rigore ed emozione, Palermo 2008
R. Melardi, Girolamo Alibrandi tra l’eredità di Antonello da Messina e la maniera moderna, tesi di laurea, 2011
S. Varzi- A. Varzi- A. Dell’Aira, Sfidando l’ignoto. Antonello e l’enigma di Cefalù, Palermo 2017
D. De Pasquale, Antonello da Messina e il suo tempo, Messina 2021
Giovedì 25, alle ore 17, presso il foyer del Palacultura “Antonello da Messina”, patrocinata dal Comune di Messina – Assessorato alla Cultura, prenderà il via la mostra La Divina Commedia in punta di penna dell’artista Giovanni Guglielmo.
L’inaugurazione, alla presenza dell’Assessore alla Cultura Enzo Caruso, sarà inoltre preceduta dagli interventi della dott.ssa Silvia Freiles e dell’autore Giovanni Guglielmo nella Sala Palumbo del Palacultura.
La mostra che celebra Dante
La mostra, aperta al pubblico fino a venerdì 10 dicembre, è quindi inserita nel contesto delle celebrazioni del 700° Anniversario della morte di Dante. Questa si snoda in una avvincente lettura grafica della Divina Commedia, con 70 tavole grafiche a china, che con tratto e stile originale, illustrano i 100 canti dell’opera ed è completata da un grande polittico ad olio su tela, raffigurante Inferno, Paradiso e Purgatorio.
L’esposizione dei disegni sarà ospitata presso il Foyer del Palacultura e sarà visitabile da lunedì al venerdì dalle 9 alle 13, il martedì ed il giovedì dalle 15 alle 17 e il sabato e la domenica dalle 18 alle 20 (8 dicembre chiuso).
<<In un mondo globalizzato, dove l’immagine predomina sulla lettura – dichiara l’Assessore Caruso – questa mostra cattura la curiosità e suscita emozioni, che stimolano all’approfondimento del testo dantesco. Mi auguro che gli studenti, guidati dai loro insegnanti, colgano questa straordinaria opportunità offerta alla collettività dall’estro del M° Giovanni Guglielmo>>.
Le parole dell’artista
Come ha raccontato l’artista Giovanni Guglielmo “l’idea è nata in una giornata dell’aprile 2020, quando, chiuso in casa, non potevo nemmeno raggiungere il mio studio. Eliminati incontri con parenti e amici, cancellata la quotidiana passeggiata in riva al mare, cercavo qualcosa per riempire il tempo. Stavo leggendo Se questo è un uomo di Primo Levi. Essendone molto colpito, ho buttato giù dei bozzetti ispirati al campo di concentramento. Era un inferno. Quasi insensibilmente quei bozzetti sono diventati un progetto di illustrazione grafica della Divina Commedia. C’era una risma di cartoncino, le boccette di inchiostro di China seppia, i vecchi pennini e anche una stanza libera in casa. Era l’inizio del mio viaggio con Dante. Finite le 70 tavole grafiche, che illustrano i cento canti della Divina Commedia, ho voluto realizzare anche un polittico ad olio di grandi dimensioni”.
Chi è Giovanni Guglielmo, artista messinese
Nato a Messina il 22 agosto 1947, Giovanni Guglielmo si diploma presso l’Istituto d’arte di Messina, sotto la guida di Salvatore Castagna, come “Maestro d’arte in oreficeria” e presso l’Istituto d’arte di Milazzo come “Designer di architettura ed arredamento”. Consegue l’abilitazione all’insegnamento in discipline pittoriche, plastiche e disegno e storia dell’arte, e insegna così presso l’istituto d’arte “E. Basile” ed il Liceo scientifico “Archimede” di Messina.
Lo sviluppo artistico prende il via nel 1960, data a partire dalla quale parteciperà a moltissime mostre e concorsi di pittura e scultura, conseguendo molti premi e riconoscimenti.
Oltre che nella provincia di Messina, le sue opere sono state esposte in importanti mostre a Roma, Torino, Palermo, Catania, Imperia e Venezia. Nel 1990 è stato premiato con il Tindari d’oro e nel 2009 con il premio Dicearco, ed inserito nel 12° Vol. di Arte italiana nel mondo e Artisti del XX secolo. La sua attività non si limita alla pittura, ma si estende anche alla ceramica, alla grafica e alla scultura. Oltre a molte opere realizzate per privati, ha realizzato monumenti per committenti pubblici, vincendo nel 2008 il concorso per il monumento che ricorda il centenario del terremoto di Messina del 1908.
La Bolla Copiosusin misericordia Dominus, emanata dal pontefice Paolo III S. Ignacio de Loyola (1491-1556), istituiva, sulle rive dello Stretto, quella che si può definire la prima Università collegiata gesuitica in Europa. Il 16 Novembre 1548 nasceva così l’Università di Messina.
La storia
La storia dell’Università di Messina è caratterizzata fin dagli inizi dal complesso rapporto creatosi fra Compagnia di Gesù e classe politica locale. Ha inizio, de jure, il 16 novembre del 1548, quando, per impulso dei giurati messinesi e grazie all’appoggio del viceré Juan de Vega, l’intervento di Ignacio de Loyola, che si faceva portavoce presso la curia pontificia delle secolari istanze messinesi di avere uno Studium, induceva il pontefice Paolo III S. Ignacio de Loyola (1491-1556), fondatore della Compagnia di Farnese ad emanare La Bolla Copiosusin misericordia Dominus.
Lo Studium, infatti, veniva ad essere, secondo il disposto della bolla pontificia, governato dalla Societas Iesu e dal suo preposto generale, che ne sceglieva il rettore-cancelliere, i funzionari e i docenti, mentre sulla città gravava l’onere di finanziare l’istituzione. Circa un mese più tardi, lo stesso Paolo III riconosceva, con la bolla Summi sacerdotis ministerio, il Collegio gesuitico operante a Messina già dal marzo del 1548.
Proprio la peculiarità della fondazione dello Studio doveva ostacolarne il regolare funzionamento per almeno mezzo secolo. La Giurazia messinese, infatti, mal tollerava di essere sostanzialmente esclusa dalla gestione dell’Ateneo che aveva tenacemente voluto. Se, dunque, si profilava, all’interno delle mura urbane, uno scontro aperto fra Compagnia di Gesù e Giurazia per il controllo dell’Università, altrettanto paralizzante si rivelava il contrasto esterno con il Siciliae Studium Generale istituito a Catania da Alfonso il Magnanimo, funzionante a partire dal 1445, che rivendicava il privilegio esclusivo di conferire titoli dottorali nell’Isola.
Il controllo dell’Università
Al contrasto con i gesuiti la città rispondeva rigettando il modello del Colegio-Universidad disegnato nella bolla paolina e proponendo, in un primo momento, una forma di gestione mista dell’Università, sancita negli Statuti del 1550, ove lo Studio risultava diviso in due tronconi, uno laico e cittadino (diritto e medicina) gestito dalla Giurazia, l’altro gesuitico (teologia) retto dalla Societas Iesu e, successivamente, nel 1565, ribadendo l’adesione al modello universitario “bolognese” ed escludendo di fatto la Compagnia di Gesù dal controllo sullo Studium.
Nonostante proprio nel 1565 si avesse una più consistente articolazione dei corsi accademici (precedentemente saltuari e limitati alle sole cattedre fondamentali di diritto e di medicina), con la chiamata di docenti di prestigio come Giovanni Bolognetti per il diritto e Giovan Filippo Ingrassia per la medicina, nonché la presenza di un buon numero di studenti provenienti anche dalla vicina Calabria, purtuttavia lo Studium non poteva conferire lauree, e ciò in attesa che si risolvesse la lite con il Siculorum Gymnasium di Catania, che si trascinava davanti al tribunale romano della Sacra Rota.
Il nuovo scopo dell’Università
La situazione si sbloccava solo quando, nel 1591, Messina, a fronte di un consistente donativo di circa 200.000 onze, otteneva da Filippo II la rifondazione dell’Università con l’esplicita facoltà di conferire titoli dottorali. A quel punto il processo dinnanzi alla Sacra Rota volgeva verso le battute finali. La Giurazia messinese incaricava il doctor iuris napoletano Giacomo Gallo di difendere le ragioni dello Studium Messanae contro la pretesa “privativa di Studio Generale” vantata dall’Università etnea.
Il giureconsulto riusciva, con un articolato parere, a convincere i giudici del tribunale romano della fondatezza delle pretese messinesi ottenendo, fra il 1593 ed il 1595, tre sentenze conformi e il riconoscimento, per lo Studio peloritano, della facoltà di conferire titoli dottorali. Con l’esecutoria viceregia della sentenza definitiva della Rota romana, nell’aprile del 1596, si chiudeva l’annosa questione. Ora lo Studium Messanae era pronto a funzionare regolarmente.
I nuovi Statuti del 1597
Testimonianza della “nuova fondacione delli Studii” erano i nuovi Statuti redatti nel 1597 per impulso della locale classe politica e commissionati ad un gruppo di dottori di diritto. Il nuovo testo disegnava uno Studium Urbis gestito dalle élites cittadine nei momenti fondamentali come la scelta dei docenti (rigorosamente “forestieri”, almeno per le cattedre più importanti), del rettore (che, in omaggio al modello universitario italiano era uno studente), dei riformatori (scelti all’interno dei componenti della “mastra” senatoria), del mastro notaro etc.
A partire dal 1597 e fino al 1679, anno della sua chiusura, l’Università di Messina riusciva a proporsi, all’interno dello spazio urbano, come tappa centrale del percorso formativo delle élites culturali e politiche cittadine e, all’esterno, come istituzione concorrenziale rispetto al Siculorum Gymnasium di Catania. Peraltro, la felice posizione sulle rive dello Stretto doveva favorire lo Studium peloritano rispetto all’Università etnea, rendendolo naturale punto di convergenza da parte di giovani provenienti dalla Calabria e da Malta, secondo l’intuizione che era stata di Ignacio de Loyola e che aveva ad erigere un Colegio-Universidad a Messina, destinato ad accogliere non solum siculi sed etiam ducatus Calabriae et Regni Graeciae ac aliorum maritimorum incolae.
Il nuovo legame Università-città e l’ascesa di Messina
Gli ottant’anni di reale esistenza dell’Università messinese (la prima laurea veniva conferita il 2 dicembre 1599 a Giovan Battista Castelli, in seguito lettore dello Studio e giudice) appaiono caratterizzati dal rinsaldarsi del legame fra la città e lo Studium, in particolare la facoltà di diritto. Infatti, il progetto di ascesa politica, culturale ed economica tentato da Messina tra la fine del Cinquecento e i primi decenni del Seicento doveva trovare sostegno proprio fra i doctores iuris formatisi nell’Università cittadina, poi giudici del locale tribunale della Curia Stratigoziale o iudices presso i tribunali centrali del Regno.
Tanto ai dottori di diritto “stranieri” che reggevano le cattedre più importanti dello Studio e componenti del collegium iuristarum (come il senese Ippolito Piccolomini, il napoletano Giacomo Gallo, il perugino Innocenzo Massini, il padovano Galeotto Ferro, i calabresi Leonardo Amarelli e Ottavio Glorizio), quanto ai giuristi messinesi (come Mario Giurba), impegnati nel giudicato a livello centrale e periferico, la Giurazia (o Senato) poteva commissionare articolate allegazioni che difendessero i privilegi cittadini.
Lo Studium Messanae, controllato sempre più strettamente dal Senato che nel 1641 avrebbe avocato a sé la carica di cancelliere dell’Università sottraendola all’arcivescovo, si presentava, nel corso del Seicento, come un’istituzione peculiare. Laddove, infatti, la facoltà di diritto rappresentava il momento della “conservazione” e della difesa delle prerogative cittadine contro i pretesi attacchi del potere centrale, la facoltà di medicina appariva, in un panorama siciliano dominato dalla tradizione, un “luogo di ricerca attiva” grazie alla presenza di maestri come i bolognesi Giovan Battista Cortesi e Marcello Malpighi.
La rivolta contro la Spagna
Il “legame organico” fra la città e il suo Studio doveva segnare, inevitabilmente, la storia dell’istituzione universitaria destinata a seguire le sorti della classe dirigente della quale aveva sostenuto la politica autonomistica.
La rivolta contro la Spagna (1674-1678) segnava, infatti, la fine delle velleità messinesi e la città dello Stretto veniva privata, oltre che della sua stessa memoria storica, subendo la confisca dell’Archivio cittadino ove erano custoditi, fra l’altro, i privilegi sui quali si fondava la sua autonomia, anche dello Studio ovvero del “luogo” di progettazione delle strategie di difesa dell’autonomia cittadina e di formazione di intellettuali organici alle posizioni espresse dall’oligarchia politica.
L’Università tra nuove aperture…
Ad una riapertura dell’Università di Messina, in seguito a vari, reiterati, tentativi, si giungeva soltanto nel 1838, quando, con decreto del 29 luglio, n. 4745, Ferdinando II di Borbone elevava la locale Accademia Carolina, fondata nel secolo XVIII, al rango di Università. Tuttavia non si può negare che il nuovo Ateneo, lungi dal rispecchiare i fasti del passato, fosse di tono decisamente minore, così come minore era la dimensione politica della città dello Stretto.
In base ai “Regolamenti per le tre università della Sicilia” (1841), l’Ateneo messinese veniva ad essere articolato in cinque facoltà (giurisprudenza, teologia, medicina, filosofia e scienze matematiche, letteratura) con un totale di 28 cattedre, più 3 di belle arti. L’istituzione era amministrata da una Deputazione composta da un presidente, dal rettore e dal segretario cancelliere e da quattro membri “temporanei”. Il rettore era scelto dalla Deputazione fra i professori titolari, proposto al governo e nominato dal sovrano.
Le cattedre erano assegnate per concorso. Una recente indagine sul Fondo palermitano della “Commissione di pubblica istruzione ed educazione” ha fatto rilevare le difficoltà nelle quali il rifondato Ateneo si trovava ad operare, soprattutto a causa della mancanza di fondi. Tuttavia, ciò non impediva il riproporsi, come nel passato, del legame Università-classe politica cittadina.
… e nuove chiusure!
L’istituzione, infatti, non mancava di partecipare, accanto alla cittadinanza, ad un nuovo appuntamento rivoluzionario, quello del 1847-48, che vedeva coinvolti, solo per fare qualche esempio, Carmelo La Farina, docente di geometria con i figli Silvestro e Giuseppe, gli studenti Francesco Todaro, più tardi senatore del Regno, e Giuseppe Natoli, futuro ministro dell’Istruzione. Una partecipazione che, ancora una volta, doveva segnarne l’esistenza. L’Ateneo, infatti, a dieci anni dalla sua riapertura, veniva nuovamente soppresso. Riaperto due anni più tardi vedeva però sensibilmente ridotto il suo bacino d’utenza a causa di norme limitative che, allo scopo di attuare un più stretto controllo sugli Atenei, imponevano all’Università di non immatricolare studenti provenienti da altre province siciliane e dalla Calabria.
La legge Coppino
Grazie a tale intervento, con la legge Coppino del 13 dicembre 1885, n. 3572, l’Università di Messina veniva elevata al rango di Ateneo pareggiato di primo grado. Gli ultimi anni del secolo vedevano il moltiplicarsi di iniziative che dovevano fare sperare in un possibile e dignitoso decollo dell’istituzione: si impiantava un nuovo orto botanico, si potenziavano i gabinetti scientifici, si fondavano i musei di mineralogia, di geologia, di zoologia e anatomia comparata.
Il 28 dicembre 1908 anche gli edifici dell’Università vennero distrutti dal disastroso terremoto. La difficile ricostruzione doveva investire anche l’Ateneo, al centro di una polemica dai toni spesso accesi, fra quanti ne chiedevano la definitiva chiusura e quanti lo consideravano momento centrale del processo di rinascita di Messina. Ancora una volta, la battaglia cittadina per l’Università si sarebbe rivelata vincente.
La nostra redazione ha avuto la fortuna di incontrare Francesco Ferro, una promessa della poesia, ma anche un grande esempio di vita e dedizione al lavoro. Un episodio particolarmente intenso lo ha condotto sempre più vicino al mondo della letteratura, ma la sua scrittura è soprattutto al servizio del prossimo, così come lo è stata tutta la sua vita.
Il coraggio d’Oro
Ha ricevuto la Medaglia d’oro al valore per l’Arma dei Carabinieri a seguito di una rapina sventata in cui quattro rapinatori, che sparavano all’impazzata, lo hanno colpito al torace. Sebbene gravemente ferito, Ferro si lanciava all’inseguimento, bloccando, insieme ai colleghi, due dei quattro rapinatori. Gli altri due, invece, sono stati raggiunti dai colpi fatali di arma da fuoco dei Carabinieri, esplosi nel tentativo di proteggere l’incolumità dei passanti e di chi lavorava presso il negozio preso di mira.
A seguito di questo episodio, dopo un lungo periodo di riabilitazione fisica e psicologica – «perché se uccidi, anche se per salvarti la vita, ti resta comunque qualcosa di negativo dentro» – arrivò il premio direttamente dal Presidente della Repubblica.
Una nuova vita, con le passioni di sempre
Francesco Ferro è, però, costretto a lasciare le forze dell’ordine dopo sette anni dall’accaduto, dato il riacutizzarsi della ferita che gli ha impedito di svolgere il servizio. Ma, da quel momento, Ferro, dall’animo troppo focoso per poter vivere da pensionato, si dedica a una nuova vita. Decide dunque di approfittare di questo stop forzato per rispolverare penna e quaderni: ed ecco che arriva l’iscrizione all’università, corso di laurea in Lettere, riprendendo così il vecchio sogno nel cassetto di dedicarsi alla letteratura.
Negli anni, infatti, Ferro aveva partecipato a diversi concorsi a premi per scrittori, con poesie e romanzi brevi che gli sono valsi diversi premi e tanta soddisfazione. Fino ad arrivare all’ultimo concorso, il Premio Internazionale poesia-narrativa “Rime sul Lago 2021”, arrivato alla terza edizione tenutasi a Como, che lo ha visto classificarsi addirittura tra i primi dieci concorrenti (ndr. ottavo). Da buon appassionato di Storia romana non poteva che raccontare Annibale e le guerre puniche con il suo apprezzatissimo Dialogo tra condottieri che gli è valso la menzione speciale della giuria.
Ma Ferro non è nuovo a queste imprese: nel 2011, all’esordio da scrittore – o meglio “poeta nero”, come viene definito per via dell’emotività che contraddistingue i suoi lavori – si classificò primo durante il Premio internazionale “Poesia dell’anno 2011”, tenutosi a Quartu Sant’Elena (CA). Proprio in questa occasione nacque il suo soprannome: la poesia in questione, Giampilieri, fu scritta a seguito della sciagura del 2009, in cui scomparvero tante anime messinesi sotto la furia della forza distruttrice della natura.
Terzo posto al Premio letterario internazionale “San Valentino” di Quartu Sant’Elena (CA) e quarto posto al concorso “Opera prima” di Firenze, rispettivamente con le poesie Trinacria e Silenzi e tormenti, torna a rivendicare la prima posizione all’evento letterario “Scriviamo”, indetto dal Comune di Ortelle (LE).
La letteratura solidale di Ferro
E ancora pubblicazioni, come Le poesie di Francesco e l’antologia Emozioni d’autore, ma anche racconti per bambini, come La casa delle fiabe… un coro di fiabe per bambini. Scritti da cui non ha bisogno di trarre guadagno, fa infatti molta beneficenza: il primo libro, Le poesie di Francesco, è stato affidato alla Onlus “Amici di Edy” di Messina; il secondo è stato invece tramite di beneficenza diretta nei confronti di una famiglia di Bergamo molto bisognosa, per cui Ferro ha comprato beni di prima necessità. Il “poeta nero” fa tutto questo perché ha avuto la fortuna di sopravvivere e, dopo un tale episodio, «quando vedi qualcuno che soffre te ne rendi conto e cerchi di aiutarlo anche a costo di toglierti il pane davanti».
Insomma, uno straordinario talento tutto messinese che non vede l’ora di pubblicare qualcosa di nuovo: non esiste notizia migliore di questa per i tanti appassionati e studiosi!
Si è spenta a soli 44 anni e dopo una battaglia contro un male fulminante che non le ha lasciato scampo. A dare l’annuncio della dipartita della prof.ssa Diletta Minutoli, associata di Papirologia all’Università di Messina, è il prof. Sergio Audano: con profondissimo dolore, anche a nome di Rosario Pintaudi, devo purtroppo dare la triste e dolorosa notizia della prematura scomparsa, a soli 44 anni, della cara Diletta Minutoli, descritta come ottima e valentissima studiosa, collaboratrice instancabile della nostra Accademia Fiorentina di Papirologia, amica buona e generosa, troppo presto strappata agli affetti e allo studio.
La nostra redazione porge i suoi omaggi alla cara prof. e si unisce al cordoglio dei suoi cari.
Messina incanta, affascina e qualche volta spaventa! E lo fa attraverso la cinepresa con Cruel Peter, un horror tutto italiano del 2019, diretto da Christian Bisceglia e Ascanio Malgarini, dal 21 maggio disponibile su RaiPlay.
Cruel Peter e il terremoto di Messina: correva l’anno 1908
Peter Hoffmann è il figlio di un ricco commerciante inglese trapiantato a Messina, la cui morte per suicidio sembra sospetta. Il giovane, unico erede della fortuna di famiglia, ha un’indole malvagia che lo spinge a commettere atroci crudeltà nei confronti non solo di animali, ma della stessa servitù e dei bambini che vivono nella tenuta degli Hoffmann. Il ragazzo sembra passarla sempre liscia; infatti, nonostante le innumerevoli accuse mosse dalla servitù, Peter gode della protezione della madre che lo difende in maniera morbosa. Sarà il figlio del custode, il giovane Alfredo, a decidere di porre fine alle atrocità commesse da Peter.
Alfredo, dopo averlo colpito alla testa, seppellisce il crudele Peter ancora vivo, con la sola intenzione, però, di farlo spaventare, per fargli comprendere il male che ha fatto e sperando che il ragazzo smetta di comportarsi in quel modo. La punizione di Peter sta per giungere al termine, ma l’ombra di una catastrofe aleggia su Messina: è il 28 dicembre 1908, una data destinata a scrivere la pagina più nera della storia della città.
Migliaia di anime inquiete, tra loro c’è anche quella di Peter
Ilterremoto del 1908 distrugge quasi completamente la città di Messina, portando via più di 70.000 anime, oltre la metà di una città che ne contava 140.000 qualche istante prima del sisma. Tra le vittime c’è Alfredo, che non fa in tempo a liberare Peter da quella che diverrà la sua tomba. In una città che ha appena perso migliaia di vite, infatti, Peter sembra solo uno dei tanti dispersi, nessuno andrà a cercarlo. Morirà sottoterra e la sua anima non troverà pace.
Una favola horror tra folklore siciliano e tradizione cinematografica
L’ambientazione del film fa un balzo in avanti di un secolo, arrivando ai giorni nostri. L’archeologo inglese Norman Nash, accompagnato dalla figlia adolescente Liz, arriva a Messina per valutare il lavoro di restauro del Cimitero Inglese, situato all’interno del Cimitero Monumentale. I destini di Norman e della figlia Liz si imbatteranno nella furia di Cruel Peter. Il risultato è una favola horror ricca di suspance e jump scares che non hanno nulla da invidiare ai famosi e apprezzatihorror provenienti dall’area asiatica. Accanto a elementi horror tipici della tradizione cinematografica internazionale, i registi hanno sapientemente affiancato elementi del folklore siciliano: l’anziana Zia Emma con i suoi riti religiosi e le sue medagliette per allontanare gli spiriti è l’incarnazione di tradizioni vecchie di secoli. Ogni paesino della Sicilia poteva contare sulla figura della vecchia santona che sapeva come scacciare gli spiriti, togliere il malocchio e il “sole dalla testa”.
Cruel Peter: la storia nella storia
La sceneggiatura di Cruel Peter funziona. Forse, però, avremmo voluto sapere di più sulla vita del ragazzino problematico e sul suo rapporto con la madre, un’incantevole strega che sembra presa in prestito alla fiaba tradizionale del nord Europa, in stile “fratelli Grimm”. Il loro rapporto, infatti, si intravede soltanto, sebbene si percepisca la sua importanza all’interno della storia. La terrificante storia di Peter ci racconta anche del passato di Messina. La presenza della famiglia Hoffmann, la ricchezza ereditata da Peter alla morte del padre e l’esistenza di un cimitero inglese sono una finestra aperta su una Messina all’apice della sua grandezza agli inizi del XX secolo.
Il Cimitero Monumentale di Messina, silenzioso protagonista di Cruel Peter
Messina era, infatti, il porto commerciale più importante del Mediterraneo. Questo grazie anche alla massiccia presenza degli inglesi, giunti in Sicilia un secolo prima in aiuto alla famiglia reale dei Borbone. Durante il periodo napoleonico, i Borbone da Napoli erano stati costretti a fuggire a Palermo con l’aiuto della Marina Britannica. La presenza inglese sulle coste siciliane aveva come obbiettivo quello di evitare un’egemonia francese sul commercio marittimo del Mediterraneo. La storia degli inglesi e quella dei siciliani, poi, convergono nello stesso punto che è il vero focus del film: il Cimitero Monumentale. Oltre al Cimitero Inglese, il Cimitero Monumentale ospita la sezione dedicata a tutte le vittime di quel disastroso terremoto, la cui potenza distruttiva è ben rappresentata in Cruel Peter. Il sisma non risparmiò nessuno, né i siciliani, figli di questa terra, né gli ospiti inglesi, testimoni di una città all’apice del successo che si preparava a diventare la capitale commerciale del nuovo secolo, ma la natura ha deciso diversamente.
Archeologia dei Nebrodi è la nuova mostra inaugurata a Santo Stefano di Camastra (ME) che, grazie al recupero di numerosi reperti, comprende un arco temporale che va dalla Preistoria al Medioevo. La mostra nasce grazie alla collaborazione tra la Soprintendenza di Messina, il Parco dei Nebrodi e il Comune di Santo Stefano di Camastra. Il complesso architettonico di Palazzo Trabia, già sede del Museo Civico della Ceramica, è la sede della nuova mostra.
In una sezione sono ospitati i materiali provenienti da Santo Stefano di Camastra. I reperti, in parte donazioni di privati, offrono evidenza di scoperte avvenute sia in area urbana che nel territorio, confermando una frequentazione già a partire dall’età arcaica. Un’altra porzione dell’esposizione, invece, presenta i reperti più significativi provenienti da altre località nebroidee. Reperti provengono dunque da San Marco D’Alunzio (antica Alontion/Haluntium), Caronia (antica Kalè Aktè), San Fratello (antica Apollonia), Mistretta, Militello Rosmarino (Monte Scurzi), Sant’Agata di Militello e Alcara Li Fusi.
«Abbiamo selezionato i migliori reperti rinvenuti», spiega la Soprintendente di Messina, Mirella Vinci. «Molti di essi sono assolutamente inediti, tra i quali una statua marmorea di togato del I sec. a.C. e 130 monete provenienti da scavi sistematici e da recuperi condotti a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso».
La mostra rimarrà visitabile dal 9 luglio al 31 dicembre 2021, da martedì a domenica, dalle ore 10-13 e dalle 16-20.
Un’inaugurazione d’eccezione
La mostra, inaugurata venerdì 9 luglio, si compone di 550 reperti recuperati nel corso di numerose campagne di scavo. All’inaugurazione erano presenti l’assessore Alberto Samonà, il sindaco di Santo Stefano di Camastra, Francesco Re, il presidente del Parco dei Nebrodi, DomenicoBarbuzza, e la soprintendente di Messina, Mirella Vinci. Insieme ad essi, inoltre, erano presenti anche i direttori del Parco Archeologico di Naxos Taormina e di Tindari, Gabriella Tigano e Domenico Targia.
«I Nebrodi sono monti che custodiscono millenni di storia, identità, vicende di popoli che li hanno vissuti e antichi culti». Così afferma Samonà. «Questa esposizione è importante perché affronta un arco temporale molto ampio; nonché mette in luce per la prima volta importanti ritrovamenti archeologici avvenuti in una vasta porzione dei Nebrodi, con particolare riferimento alla loro parte settentrionale. Si tratta, dunque, di un’iniziativa che favorisce il processo di riconoscimento e identificazione delle comunità locali. Le fa sentire parte di un unico processo di recupero della memoria storico-identitaria».
Oggi l’assessore dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana Alberto Samonà ha effettuato un sopralluogo per verificare lo stato in cui versa la Cripta del Duomo di Messina e per valutare l’entità degli interventi necessari a restituire questo prezioso e suggestivo luogo di culto ai messinesi. Il sopralluogo si è svolto insieme alla soprintendente dei Beni Culturali e ambientali di Messina Mirella Vinci e all’arcivescovo di Messina S.E. mons. Giovanni Accolla.
Le parole dell’assessore Samonà
«Ho voluto rendermi conto personalmente dello stato della Cripta, mosso dalle tante sollecitazioni ricevute da parte della comunità messinese, per la quale la chiusura di questo luogo prezioso rappresenta una dolorosa ferita. La Soprintendenza ha predisposto il progetto di messa in sicurezza e nelle scorse ore ho incontrato il collega Marco Falcone, assessore regionale alle Infrastrutture, che ha garantito la disponibilità ad intervenire economicamente per finanziarne i lavori, in modo da bloccarne il degrado e renderla fruibile: un segnale importante di piena sinergia fra i due assessorati e di attenzione da parte del Governo regionale, perché la cripta del Duomo rappresenta, per la sua storia e per la sua bellezza, un luogo importantissimo che va restituito a tutti».
Quali sono i lavori in programma?
A questo proposito, la Soprintendenza di Messina ha già effettuato le indagini specifiche per gli interventi necessari a recuperare la Cripta. In particolare si tratta di lavori di messa in sicurezza dell’impianto che risulta per lo più compromesso da infiltrazioni d’acqua provenienti dalle fondazioni che, per capillarità, hanno deteriorato i ricchi stucchi del Seicento e le pitture.
Gi interventi da effettuare riguardano anche il recupero funzionale dei locali e la creazione di un sistema di accesso con camminamenti e pedane adatte anche a un pubblico con difficoltà motorie. Interventi significativi vanno, inoltre effettuati a salvaguardia e per il ripristino degli stucchi e dei dipinti nonché della pavimentazione originaria.
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