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ACCADDE OGGI | Il sacrificio di Borsellino nella lotta alla Mafia

Paolo Borsellino viene considerato, insieme a Giovanni Falcone, una delle personalità più importanti nella lotta alla mafia in Italia e a livello internazionale. Nacque a Palermo nel 1940, nello stesso quartiere dell’amico d’infanzia Giovanni Falcone.

Paolo Borsellino

La vita e l’ingresso nella magistratura

Nel 1958 si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza presso l’Università di Palermo. Si laureò cinque anni più tardi e nel 1963, dopo aver vinto il bando del concorso per entrare nella Magistratura Italiana, diventò il più giovane magistrato d’Italia e cominciò il tirocinio come uditore giudiziario.


La nascita del primo pool antimafia

Il capo dell’Ufficio Istruzione di quegli anni, Rocco Chinnici, istituì il primo “pool antimafia”, ossia un gruppo di magistrati che si sarebbero occupati esclusivamente dei reati di stampo mafioso e, lavorando in gruppo, avrebbero avuto una visione più chiara e completa del fenomeno mafioso e, di conseguenza, la possibilità di combatterlo in modo più efficace. Chinnici chiamò Borsellino a fare parte del pool insieme a Giovanni Falcone, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta.

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Rocco Chinnici, l’ideatore del primo “pool antimafia”

 

Nel 1983, dopo che Chinnici rimase ucciso nell’esplosione di un’autobomba, giunse a Palermo da Firenze il giudice Antonio Caponnetto che ne prese il posto.

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Il giudice Antonio Caponnetto

Su cosa lavorava il pool

Secondo il racconto dello stesso Borsellino, il pool nacque per risolvere il problema dei magistrati che lavoravano individualmente e separatamente, senza che avvenisse scambio di informazioni fra quelli che si occupavano di materie contigue. Le indagini del pool si basarono soprattutto su accertamenti bancari e patrimoniali, vecchi rapporti di polizia e carabinieri, ma anche su nuovi procedimenti penali, che consentirono di raccogliere un abbondante materiale probatorio. Nello stesso periodo Falcone incominciò a raccogliere le dichiarazioni di due collaboratori di giustizia: Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno. La loro attendibilità venne confermata dalle indagini del pool: infatti, le dichiarazioni di Buscetta produssero 366 ordini di cattura, mentre quelle di Contorno altri 127 mandati di cattura; nonché una serie di arresti eseguiti tra Palermo, Roma, Bari e Bologna.

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Tommaso Buscetta (Foto: Livio Anticoli/Gamma-Rapho via Getty Images)
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Salvatore Contorno

La protezione all’Asinara e il maxiprocesso

Nell’estate del 1985, per ragioni di sicurezza, Falcone e Borsellino furono trasferiti insieme con le loro famiglie nella foresteria del carcere dell’Asinara per scrivere l’ordinanza-sentenza di 8000 pagine che rinviava a giudizio 475 indagati in base alle indagini del pool. Il maxiprocesso di Palermo, che scaturì dagli sforzi del pool, cominciò nel 1986 in un’aula bunker appositamente costruita all’interno del carcere dell’Ucciardone per accogliere i numerosi imputati e avvocati, per concludersi nel 1987 con 342 condanne, tra cui 19 ergastoli.

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Il carcere dell’Ucciardone a Palermo, sede del maxiprocesso

Mentre il maxiprocesso di Palermo si stava avviando verso la sua conclusione, Antonio Caponnetto lasciò il pool per motivi di salute e tutti – Borsellino compreso – si aspettavano che al suo posto fosse nominato Falcone, ma, contrariamente alle aspettative, il Consiglio superiore della magistratura nominò Antonino Meli.

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Antonino Meli

Borsellino parlò allora in pubblico raccontando quel che stava accadendo alla Procura della Repubblica di Palermo: «Si doveva nominare Falcone per garantire la continuità all’Ufficio», «Hanno disfatto il pool antimafia», «Hanno tolto a Falcone le grandi inchieste», «La squadra mobile non esiste più», «Stiamo tornando indietro, come 10 o 20 anni fa». A causa di queste dichiarazioni rischiò un provvedimento disciplinare e fu messo sotto inchiesta. Però, a seguito di un intervento del Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, si decise di indagare su ciò che succedeva nel Palazzo di Giustizia.

La strage di Capaci

Nel maggio del 1992, in un attentato dinamitardo sull’autostrada A29 all’altezza di Capaci, persero la vita Giovanni Falcone, la moglie e tre agenti della scorta. Falcone morì fra le braccia di Borsellino in ospedale, senza riprendere mai conoscenza. Borsellino dichiarò a Lamberto Sposini: «Convinciamoci che siamo dei cadaveri che camminano».

Il momento della strage – Capaci (PA), 1992

Gli ultimi 57 giorni e la strage in via D’Amelio

I 57 giorni che separarono la strage di Capaci da quella in via D’Amelio furono i più difficili per Borsellino, il quale, duramente colpito dalla morte del collega e amico e nonostante fosse consapevole di essere il prossimo obiettivo della vendetta di Cosa Nostra, continuò a lavorare con frenetica intensità; fu ostacolato, però, dal capo della Procura palermitana che arrivò a nascondergli il contenuto di un’informativa del ROS dei Carabinieri che segnalava il pericolo di un imminente attentato nei suoi confronti, circostanza che Borsellino apprese solo casualmente durante una conversazione con l’allora Ministro della Difesa. Borsellino non solo era a conoscenza di essere nel mirino di Cosa Nostra, ma preferiva che non si stringesse troppo la protezione attorno a sé, così da evitare che l’organizzazione scegliesse come bersaglio qualcuno della sua famiglia.

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nel 1992, anno in cui furono uccisi entrambi

A giugno Borsellino tenne il suo ultimo discorso nell’atrio della biblioteca di Casa Professa: «Giovanni Falcone lavorava con perfetta coscienza che la forza del male, la mafia, lo avrebbe un giorno ucciso. Francesca Morvillo stava accanto al suo uomo con perfetta coscienza che avrebbe condiviso la sua sorte. Gli uomini della scorta proteggevano Falcone con perfetta coscienza che sarebbero stati partecipi della sua sorte. Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché non si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore! La sua vita è stata un atto d’amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato».

Il 19 luglio 1992, alle 16:58, una Fiat 126 imbottita di esplosivo, che era parcheggiata sotto l’abitazione della madre, detonò al passaggio di Borsellino che stava andando a trovarla, uccidendo lui e anche i cinque agenti di scorta.

La strage di Via D’Amelio a Palermo

Circa 10.000 persone parteciparono ai funerali privati di Borsellino; i familiari rifiutarono il rito di Stato: la moglie Agnese, infatti, accusava il governo di non aver saputo proteggere il marito e volle una cerimonia privata senza la presenza dei politici. L’orazione funebre fu pronunciata da Antonino Caponnetto: «Caro Paolo, la lotta che hai sostenuto dovrà diventare e diventerà la lotta di ciascuno di noi».

Fu una strage di Stato?

Molti hanno parlato della strage di via D’Amelio come “strage di Stato”.

Il fratello di Paolo Borsellino, Salvatore Borsellino, ne parlò in modo esplicito: «Perché quello che è stato fatto è proprio cercare di fare passare l’assassinio di Paolo e di quei ragazzi che sono morti in via D’Amelio come una strage di mafia. Devo dire che, purtroppo, una buona parte dell’opinione pubblica, cioè quella parte che assume le proprie informazioni semplicemente dai canali di massa – televisione e giornali – è caduta in questa “trappola”».

Salvatore Borsellino, fratello di Paolo

Bisogna ricordare

In occasione della ricorrenza dei 25 anni dalla strage di via D’Amelio, Fiammetta Borsellino, ultimogenita del magistrato Paolo, in un’intervista ha detto: «Ai magistrati in servizio dopo la strage di Capaci rimprovero di non aver sentito mio padre nonostante avesse detto di voler parlare con loro. Non hanno nemmeno disposto l’esame del DNA. Non furono adottate le più elementari procedure sulla scena del crimine. Il dovere di chi investigava era di non alterare i luoghi del delitto. Ma su via D’Amelio passò la mandria di bufali».

Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo

Alla memoria del magistrato italiano, inoltre, furono intitolate numerose scuole e associazioni, nonché (insieme all’amico e collega Falcone) l’aeroporto internazionale “Falcone e Borsellino” di Palermo (ex “Punta Raisi”) e l’aula principale (Aula I) della Facoltà di Giurisprudenza alla Sapienza di Roma.

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ATTUALITÀ | Brusca “U Scannacristiani”: torna libero uno dei più spietati killer di Cosa Nostra

«Ho ucciso Giovanni Falcone. Ma non era la prima volta (ndr. che uccidevo così): avevo già adoperato l’auto bomba per uccidere il giudice Rocco Chinnici e gli uomini della sua scorta. Sono responsabile del sequestro e della morte del piccolo Giuseppe Di Matteo, che aveva tredici anni quando fu rapito e quindici quando fu ammazzato. Ho commesso e ordinato personalmente oltre centocinquanta delitti. Ancora oggi non riesco a ricordare tutti, uno per uno, i nomi di quelli che ho ucciso. Molti più di cento, di sicuro meno di duecento». Con questa dichiarazione dal libro Ho ucciso Giovanni Falcone, di Saverio Lodato, Giovanni Brusca presenta se stesso.

Giovanni Brusca
La “guerra” contro lo Stato Italiano

Capo del mandamento di San Giuseppe Jato ed esponente dei Corleonesi, Brusca è stato uno dei membri più attivi, a livello delittuoso, di Cosa Nostra. Già a 19 anni, Giovanni Brusca entrò nella cosca del padre per diventare, in breve tempo, uno dei più spietati killer al servizio di Totò Riina. Questa sua indole particolarmente feroce gli valse i soprannomi di Scannacristiani e u Verru (“il porco”); lui stesso, in una dichiarazione in relazione all’elevato numero di omicidi, si definì «un animale». Nel 1977 prese parte all’omicidio del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo; nel 1983 si occupò di preparare l’autobomba che uccise il giudice Rocco Chinnici e nello stesso anno uccise il capitano dei carabinieri Mario d’Aleo, in un agguato in cui rimasero coinvolti anche i colleghi Giuseppe Bommarito e Pietro Morici.

Uccisione di Rocco Chinnici, 23 luglio 1983

Nonostante il soggiorno obbligato a Linosa, a seguito di mandato per associazione mafiosa dopo le dichiarazioni di Buscetta, Brusca diventò latitante e nel 1991 riprese in mano le redini della “Famiglia” di San Giuseppe Jato. Di lì a breve, nel 1992, sarebbe diventato una figura chiave nella guerra che la mafia stava facendo allo Stato. Brusca si dedicò, così, all’attentato omicida che avrebbe scosso profondamente la legalità italiana: la strage di Capaci. Infatti, fu proprio Brusca a organizzare l’attentato dinamitardo e, soprattutto, ad azionare il radiocomando responsabile dell’esplosione in cui morirono Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta. Brusca continuò, così, la strategia degli attentati dinamitardi, insieme ai boss Leoluca Bagarella, Matteo Messina Denaro e ai fratelli Filippo e Giuseppe Graviano. Nell’estate del ’93, diversi attentati colpirono alcune città italiane, tra cui Roma, Firenze e Milano, provocando una decina di morti e più di cento feriti.

Una vita di vendette e violenza

Giovanni Brusca è noto anche per aver intrapreso diverse spedizioni punitive nei confronti di coloro che, in seno a Cosa Nostra, diventavano collaboratori di giustizia o si sottraevano al volere della “Famiglia”. Fu il caso di Vincenzo Milazzo, capo della “famiglia” di Alcamo che si era opposto al volere di Riina, ucciso da Brusca per aver detto no, tra le altre cose, alla strage di Via d’Amelio. Pochi mesi dopo anche la sua compagna, Antonella Bonomo, venne barbaramente strangolata mentre era incinta di tre mesi.

Ma la spedizione punitiva più clamorosa e discussa fu, sicuramente, quella nei confronti di Santino Di Matteo, ex mafioso, pentito e collaboratore di giustizia. Il 23 novembre 1993, Giovanni Brusca ordinò il rapimento del figlio, Giuseppe di Matteo, che aveva solo 12 anni, nel tentativo di far cessare la collaborazione di Santino con la giustizia.

Il piccolo Giuseppe di Matteo

«Tappaci la bocca» aveva scritto in un biglietto recapitato alla moglie di Santino, che avrebbe denunciato la scomparsa del figlio solo a metà dicembre. Per tutto il 1994 Giuseppe venne trasferito da un posto a un altro fino a quanto, nell’estate del ’95 venne rinchiuso in un vano sotto al pavimento in un casolare-bunker nei pressi di San Giuseppe Jato. Nel frattempo, Brusca latitante era stato condannato all’ergastolo e Santino Di Matteo aveva deciso di continuare la collaborazione di giustizia. Il piccolo Giuseppe era rimasto rinchiuso per 180 giorni, fino a quando Giovanni Brusca, insieme al fratello Enzo e a Monticciolo, lo strangolarono prima di scioglierlo nell’acido. I dettagli agghiaccianti dell’uccisione sono stati resi noti dallo stesso Giovanni in occasione dell’udienza del 28 luglio 1998. «Mi dispiace», aveva detto Monticciolo al piccolo mentre lo uccideva «tuo papà ha fatto il cornuto».

L’arresto e la scarcerazione

Nel ’96, alcuni sui stretti collaboratori, tra cui Monticciolo, vennero arrestati e decisero di collaborare per l’individuazione dello stesso Brusca ancora latitante. Venne così individuato il casolare-bunker dell’uccisione del piccolo Di Matteo, in cui era presente un vero e proprio arsenale. Il 20 maggio del 1996, Giovanni Brusca venne arrestato in una frazione di Agrigento.

Arresto di Giovanni Brusca (Immagine via Palermo Today)

Già nel giugno dello stesso anno gli viene riconosciuto lo status di collaboratore di giustizia. E così, in virtù di una legge voluta, tra gli altri dallo stesso Falcone, la pena viene notevolmente ridotta. Dall’ergastolo iniziale, la sentenza prevede che Brusca debba scontare 25 anni. Così, il 31 maggio 2021 Brusca, dopo soli 25 anni in carcere, è tornato in libertà per aver scontato la sua pena. Rimarrà, adesso, sottoposto a libertà vigilata per ulteriori quattro anni, secondo quanto stabilito dalla Corte d’Appello di Milano.

L’indignazione dei parenti delle vittime

L’indignazione per la notizia della scarcerazione è stata tanta. La sorella di Falcone, Maria, ha dichiarato: «Umanamente è una notizia che mi addolora, ma questa è la legge, una legge che peraltro ha voluto mio fratello e quindi va rispettata. Mi auguro solo che magistratura e le forze dell’ordine vigilino con estrema attenzione in modo da scongiurare il pericolo che torni a delinquere, visto che stiamo parlando di un soggetto che ha avuto un percorso di collaborazione con la giustizia assai tortuoso. A restare in carcere devono essere i boss che non collaborano. Ogni altro commento mi pare del tutto inopportuno».

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Maria Falcone

Sebbene, quindi, l’iter legislativo abbia fatto il suo corso, il malcontento generale si fa sentire, in virtù anche del fatto che Brusca non si sia dimostrato sempre chiaro e diretto nelle sue collaborazioni. E rimane, innegabilmente, la rabbia per le atrocità commesse, imperdonabili.

Le parole dure della famiglia del piccolo Giuseppe di Matteo

In questi giorni, la madre di Giuseppe di Matteo ha infatti dichiarato: «Rispettiamo le leggi e le sentenze dello Stato. Ma Giovanni Brusca non potrò mai perdonarlo. Mi ha ucciso il figlio che conosceva bene e con cui ha giocato a casa. Nel mio cuore come posso perdonarlo?». Ma è il padre, Santino di Matteo, che, con tutt’altro carattere, ha apertamente minacciato Brusca: «Sciolse mio figlio nell’acido, se lo trovo per strada non so che succede. Non trovo le parole per spiegare l’amarezza, lo Stato si è fatto fregare».

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Santino Di Matteo

Santino Di Matteo continua a prendere parte a processi come collaboratore di giustizia: «Io vado per dire quello che so. Ma a che cosa serve se poi lo stesso Stato si lascia fregare da un imbroglione, da un depistatore? La legge non può essere uguale per questa gente. Brusca non merita niente. Oltre a mio figlio, ha pure ucciso una ragazza di 23 anni, incinta, Antonella Bonomo, dopo aver strangolato il fidanzato. Strangolata, senza motivo, senza che sapesse niente di affari e cosacce loro. Questa gente non fa parte dell’umanità». Si rammarica Santino per la libertà ottenuta da un uomo che, a parere di molti, non avrebbe mai dovuto lasciare il carcere.

Il deputato Francesco D’Uva, espressosi in merito alla vicenda, si augura che le cose cambino perché «La magistratura ha fatto la sua parte applicando la legge. Un conto, però, è concedere sconti di pena con chi collabora con la giustizia. Diverso è far uscire, dopo 25 anni, chi ha sciolto nell’acido un bambino e ha materialmente fatto saltare in aria un’autostrada uccidendo Falcone, la moglie Francesca e la sua scorta». D’Uva ha inoltre dichiarato: «Allo Stato tocca vigilare attentamente su chi, oggi, riacquista la libertà e valutare una riforma complessiva sull’entità delle pene e sui benefici per i reati mafiosi».

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Francesco D’Uva
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La strage di Capaci: il sacrificio di Falcone in nome della legalità

Era un sabato quel 23 maggio del 1992 in cui Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta morirono ammazzati da Cosa Nostra. Si trattò di un attentato di stampo terroristico-mafioso, volto ad uccidere il magistrato palermitano Giovanni Falcone, da sempre in lotta contro l’illegalità e la mafia. Impegnato, negli ultimi anni della sua vita, nelle indagini di ricerca del latitante Totò Riina, Falcone aveva fatto parte di grandi operazioni antimafia, in Italia e all’estero: tra queste pizza connection, l’esperienza del pool antimafia e il maxiprocesso di Palermo.

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I magistrati e coniugi Giovanni Falcone e Francesca Morvillo (immagine via Antimafia Duemila)

La strage di Capaci

Il 23 maggio del 1992, Falcone atterrava all’aeroporto Punta Raisi di Palermo per il suo solito fine settimana in Sicilia, di ritorno da Roma. Il jet, partito da Ciampino intorno alle 16:45, atterrava dopo 53 minuti di volo. Ad attenderlo c’erano diversi agenti, tra cui la scorta, e l’autista con tre Fiat Croma blindate. Nel giro di pochissimi minuti sarebbe partito il corteo di auto: in testa la Fiat Croma marrone con gli agenti di scorta Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani; al centro la Fiat Croma bianca con Giovanni Falcone (alla guida), la moglie Francesca Morvillo (accanto al marito) e l’autista giudiziario Giuseppe Costanza (sul sedile posteriore perché, spesso, Falcone era solito guidare al ritorno da Roma); la terza auto, una Fiat Croma azzurra con gli agenti Paolo Capuzza, Gaspare Cervello e Angelo Corbo.

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Gli agenti della scorta di Falcone, sulla Fiat Croma marrone (Immagine via Antimafia Duemila)

L’esplosione

Nel frattempo, Gioacchino la Barbera, uno dei mafiosi coinvolti, fiancheggiava le auto su una strada esterna, parallela alla corsia autostradale, per avvisare Giovanni Brusca, braccio destro di Riina, coordinatore dell’operazione e addetto ad azionare il detonatore. Le auto viaggiavano da pochi minuti sulla A29 in direzione Palermo, quando, all’altezza del bivio per Capaci, Brusca azionò il detonatore provocando l’esplosione di circa 500kg di tritolo.

La Fiat Croma marrone, investita in pieno dall’esplosione, venne sbalzata in aria, finendo in un uliveto ad alcune decine di metri di distanza. I tre agenti di scorta morirono sul colpo. La Fiat Croma bianca, invece, aveva rallentato perché Falcone era impegnato in una conversazione con Costanza. Non fu, quindi, investita in pieno dall’esplosione, ma andò a schiantarsi contro il muro di cemento e detriti appena creato. Giovanni e Francesca, senza cinture di sicurezza, furono scaraventati contro il parabrezza. Gli agenti sulla Fiat Croma azzurra, invece, riportarono ferite non mortali.

La morte della legalità

Erano le 17:57:48 del 23 maggio 1992. Giovanni Falcone sarebbe morto alle 19:05, in ospedale, tra le braccia di Paolo Borsellino. Alle 22, in sala operatoria, moriva anche Francesca Morvillo.

«Chi tace e chi piega la testa muore ogni volta che lo fa, chi parla e cammina a testa alta muore una volta sola» – Giovanni Falcone

L’Istituto Nazionale di Geofisica comunicava che si poteva stabilire il momento esatto dell’avvenuta esplosione poiché l’Osservatorio geofisico del monte Cammarata (AG) aveva registrato l’esplosione dai sismografi, a ben 106 chilometri di distanza da Capaci.

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino

Un duro colpo alla legalità e alla giustizia italiana, che da lì a qualche mese avrebbero perso anche Paolo Borsellino negli attentati di Via d’Amelio.

Ma l’uccisione di Giovanni Falcone aveva invece scatenato un fenomeno mediatico volto a risvegliare le coscienze a lungo sopite degli italiani, un risveglio rafforzato dalla rabbia nei confronti della mafia assassina (anche di Borsellino). E, sebbene si sia ancora, purtroppo,  ben distanti dall’estirpare definitivamente il cancro che sgretola la nostra terra, un moto di ribellione sempre più forte ha portato, negli anni, a innumerevoli arresti e condanne. Tra questi anche quelli di Salvatore Riina, nel 1997, condannato all’ergastolo e morto nel novembre del 2017 nel reparto detenuti dell’Ospedale Maggiore di Parma.

La vita della legalità

Proprio il 23 Maggio, in ricordo di Giovanni Falcone e di Francesca Morvillo, ricorre la Giornata della Legalità, nel nome della quale hanno dedicato e sacrificato le proprie vite. Molte le iniziative previste per onorarne la memoria (insieme anche a quella degli agenti di scorta). A Palermo si svolgono diverse manifestazioni che vedono anche il coinvolgimento del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. La cerimonia istituzionale solenne si tiene, come ogni anno, nel carcere dell’Ucciardone, nell’aula bunker protagonista del maxiprocesso. Altre iniziative in tutta la Sicilia e nel resto del Paese.

Così come in occasione del ricordo di Peppino Impastato ai tempi del Covid, molte sono anche le iniziative online, tra cui quella promossa da Wikimafia che consiste nella raccolta di foto e video dei partecipanti contenenti frasi del magistrato. L’amministrazione di Monreale, alle porte di Palermo, ha invitato, inoltre, i cittadini a compiere un gesto simbolico: spegnere le luci delle proprie abitazioni alle 21 del 23 maggio, affacciandosi alle finestre e ai balconi con una candela, per ricordare il sacrificio di tutte le vittime di mafia. L’iniziativa partirà dallo stesso Palazzo di Città.

«La mafia non è affatto invincibile. È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio, e avrà anche una fine» – Giovanni Falcone

Il murales di Falcone e Borsellino in Piazza Bologna a Roma – foto: Omniroma
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SPECIALE GIORNO BUIO | Nel ricordo delle vittime di mafia: Nino D’Uva nelle parole del figlio Gennaro

Il 6 maggio del 1986 a Messina venne ucciso Nino D’Uva, avvocato penalista e difensore del maxiprocesso contro la mafia messinese, iniziato il 14 aprile dello stesso anno. Su 283 imputati, esponenti di spicco delle associazioni mafiose cittadine, una ventina avevano scelto lui come difensore; il processo fu estremamente complesso e D’Uva dimostrò tutta la sua professionalità cercando dialogo costruttivo tra le parti in causa. Nonostante ciò, circa un mese dopo, nell’ufficio del legale, nella centralissima via di San Giacomo a Messina, si consumò il suo brutale omicidio. Nino D’Uva spalancò inconsciamente le porte al suo assassino, che lo colse alle spalle, durante una telefonata, piantandogli un colpo di pistola alla nuca

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L’avvocato Nino D’uva

Lunga e complessa è stata la vicenda giudiziaria che ha seguito l’assassinio D’Uva. In occasione della Giornata e dello speciale dedicatoparla per la nostra redazione Gennaro D’Uva, figlio di Nino; ringraziamo il deputato Francesco D’Uva, figlio di Gennaro, per averci messo in contatto con il padre.

Gennaro D’Uva, figlio di Nino D’Uva
Che persona era Nino D’Uva? Si sente di condividere con noi qualche ricordo in particolare di suo padre?

Non parlo di papà come avvocato, parlavamo pochissimo della sua attività professionale. Papà era un uomo di svariati interessi: se non avesse fatto l’avvocato avrebbe potuto fare l’insegnante di lettere, il critico d’ arte, magari lavorare in un teatro. Quando finiva la sua attività in studio ascoltava musica classica. Amava giocare a carte con gli amici: briscola e tressetteAmava tanto la buona cucina ed il mare e faceva lunghissime nuotate. Mi ha insegnato ad amare la musica. Ricordo che da piccolo mi portò a Taormina, in piazza Duomo eseguivano l’Histoire du soldat di Stravinsky e fu il primo dei tanti concerti insieme.

Quando compii 21 anni lo accompagnai a Roma in Cassazione e poi mi portò all’Auditorium di via della Conciliazione per ascoltare Natal Milnstein che eseguiva i concerti per violino di Mozart e Bruch e poi l’indomani al teatro dell’Opera in loggione per Cavalleria Rusticana e Pagliacci. Fino alla riapertura del Teatro «Vittorio Emanuele» con la difesa sulla Gazzetta del Sud della compagnia polacca – mediocre in verità – che eseguiva le opere: “Spezzo una lancia in favore dei polacchi” era il titolo. Vedeva sempre il bicchiere mezzo pieno.

Come ha appreso la notizia della sua scomparsa? Ricorda il momento?

Ero a Roma per il primo giorno di corso di medicina del lavoro, un corso di 8 settimane. Alloggiavo all’hotel King in via Sistina ed avevo cenato al Circolo Ufficiali delle Forze Armate al Palazzo Barberini, ritornavo in albergo e vidi la gente che sfollava dal Teatro Sistina. Vidi gli zii romani di mia moglie e pensai che avessero preso parte allo spettacolo, ma, quando mi comunicarono la notizia, feci i bagagli, pagai il conto, il mio collega Stefano Tiano che aveva appreso la notizia dalla TV mi diede un tranquillante. Gli zii mi accompagnarono a Roma Tiburtina e presi il treno notturno per la Sicilia.

Il treno era deserto, feci un viaggio allucinante. La mattina a Villa San Giovanni mi prese mio cognato e mi accompagnò a casa di papà. La salma non c’era, era all’Istituto di Medicina Legale.

L’avvocato Nino D’Uva
Secondo lei oggi a Messina esiste ancora un circuito mafioso articolato oppure, negli ultimi anni, la lotta alle mafie sta debellando questa piaga?

Non so rispondere con vera cognizione. Ho l’impressione che la lotta alla mafia stia dando dei risultati qui a Messina. Ma la battaglia è ancora lunga e le recenti retate della Polizia indicano quanto ci sia ancora da fare.

E in Sicilia o, più in generale, in Italia?

La mafia mi pare di capire che abbia cambiato pelle e cerchi di insinuarsi nelle istituzioni, nelle gare d’appalto, nella grande corruzione. Magari spara di meno, ma per questo forse è ancora più pericolosa perché riesce a mimetizzarsi molto meglio. E ricordiamoci come la ‘ndrangheta stia proliferando al Nord e all’estero. Quando apprendo le notizie di arresti di colletti bianchi qui in Sicilia mi sento cascare le braccia.

Oggi è la ricorrenza della “Giornata più buia di Italia” che corrisponde agli omicidi di Aldo Moro, Peppino Impastato e generalmente di tutte le vittime delle mafie. Cosa prova in questo giorno particolare?

Magari tutti i Siciliani avessero lo stesso coraggio di Impastato. Ho vissuto il caso Moro, ero imbarcato su Nave Proteo quando arrivò la notizia. Il caso Moro è una delle pagine più buie della nostra Repubblica. Ancora oggi la verità non è venuta fuori, la sapremo mai?

Cosa si sente di dire a chi, come lei, ha vissuto situazioni simili o di consigliare a chi magari le sta vivendo ancora?

Io, malgrado tutto, continuo ad avere fiducia nello Stato, non mi voglio arrendere. Bisogna lavorare sui giovani, inculcare loro il valore della legalità, della correttezza e della giustizia. Assistiamo purtroppo a casi di mala politica, mala giustizia ecc… ebbene, non tutto è così! Ecco guardiamo come faceva papà al bicchiere mezzo pieno perché, nonostante tutto, io sono come lui: un ingenuo ottimista. Prima o poi ne verremo fuori.

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SPECIALE GIORNO BUIO | Chi era Peppino Impastato, ucciso da Cosa Nostra nella notte buia dello Stato Italiano

Negli occhi si leggeva la voglia di cambiare
La voglia di Giustizia che lo portò a lottare
[…]
Era la notte buia dello Stato Italiano
Quella del nove maggio settantotto
La notte di via Caetani, del corpo di Aldo Moro, l’alba dei funerali di uno stato…

Cantavano così, nel 2004, i Modena City Ramblers con la canzone I cento passi che, insieme all’omonimo film di Giordana, celebra la vita e denuncia la morte di Giuseppe «Peppino» Impastato. Versi importanti che si soffermano non solo su Impastato, ma anche sull’uccisione di Moro, avvenuta nella stessa notte. «L’alba dei funerali di uno stato», dicono. Perché così è stato. La mattina del 9 maggio 1978 l’Italia si sveglia sotto una cattiva bandiera, quella dell’illegalità e della soppressione di figure coraggiosamente “scomode”: l’onorevole Aldo Moro, ucciso dalle Brigate Rosse, e Giuseppe Impastato, ucciso a soli 30 anni dai suoi vicini di casa, boss di «Cosa Nostra».

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Peppino Impastato (immagine da: La voce di New York)

Ma chi era Giuseppe Impastato e perché la mafia l’ha ucciso?

Il coraggio di ribellarsi
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Peppino con il padre Luigi negli anni ’50

Giuseppe Impastato nasce a Cinisi (PA) il 5 gennaio del 1948 da Felicia Bartolotta e Luigi Impastato. Una famiglia ben inserita nella realtà locale, quella mafiosa. Il padre era stato mandato al confino di polizia durante il periodo fascista. Una zia di Giuseppe, sorella di Luigi, aveva sposato Cesare Manzella, boss mafioso che aveva visto nel traffico di droga la nuova strada per accumulare denaro. Manzella, infatti, morirà nella sua Alfa Romeo Giulietta imbottita di tritolo, in un agguato mafioso nel 1963.

Giuseppe si ritrova a crescere, dunque, in un ambiente che non fa sconti a nessuno, uno di quei posti dove si ha già il destino segnato. Perché se nasci in una famiglia mafiosa sai già cosa farai “da grande”. Ma Giuseppe non si arrende a questo “destino”. No, “Peppino” lo capisce subito che qualcosa non va, che non è quello il modo di farsi strada nella vita. E proprio l’uccisione di Manzella scuote fortemente la coscienza “antimafiosa” di Giuseppe. A soli quindici anni termina i rapporti con il padre, che lo caccerà di casa giurando «E questa è la mafia? Se questa è la mafia allora io la combatterò per il resto della mia vita».

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Peppino Impastato (foto via Left)

Quando, nel ’77, il padre morirà in un incidente stradale sospetto, al funerale, Giuseppe rifiuterà di stringere la mano dei boss locali.

L’impegno politico
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Un numero de L’idea socialista del 1965 (foto da: Gruppo Laico di Ricerca)

Terminati gli studi al Liceo Classico di Partinico (PA), Peppino si avvicina alla politica. Nel 1965 fonda il giornalino L’idea socialista, aderendo al PSIUP, Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria. Un impegno politico che va oltre la lotta alla mafia. Dal 1968 in poi partecipa in qualità di dirigente alle attività dei gruppi comunisti. Fa proprie le lotte dei contadini espropriati per la costruzione della terza pista dell’aeroporto di Palermo in territorio di Cinisi, degli edili e dei disoccupati.

«Arrivai alla politica nel lontano novembre del ’65, su basi puramente emozionali: a partire cioè da una mia esigenza di reagire ad una condizione familiare ormai divenuta insostenibile». Con queste parole Giuseppe racconta, in una sua autobiografia abbozzata, di come sia arrivato a intraprendere un cammino coraggioso e rischioso. «Mio padre», continua, «capo del piccolo clan e membro di un clan più vasto, con connotati ideologici tipici di una civiltà tardo-contadina e preindustriale, aveva concentrato tutti i suoi sforzi, sin dalla mia nascita, nel tentativo di impormi le sue scelte e il suo codice comportamentale. È riuscito soltanto a tagliarmi ogni canale di comunicazione affettiva e compromettere definitivamente ogni possibilità di espansione lineare della mia soggettività. Approdai al PSIUP con la rabbia e la disperazione di chi, al tempo stesso, vuole rompere tutto e cerca protezione… Erano i tempi della rivoluzione culturale e del “Che”. Il ’68 mi prese quasi alla sprovvista. Partecipai disordinatamente alle lotte studentesche e alle prime occupazioni.
Poi l’adesione, ancora una volta su un piano più emozionale che politico, alle tesi di uno dei tanti gruppi marxisti-leninisti, la Lega… Passavo, con continuità ininterrotta, da fasi di cupa disperazione a momenti di autentica esaltazione e capacità creativa: la costruzione di un vastissimo movimento d’opinione a livello giovanile, il proliferare delle sedi di partito nella zona, le prime esperienze di lotta di quartiere, stavano lì a dimostrarlo».

Radio Aut

Il suo impegno sul territorio non riguarda, però, solo l’aspetto politico. Nel ’75 istituisce il Circolo Musica e cultura, promotore di una serie di attività culturali come cineforum, musica dal vivo, teatro e dibattiti. Del circolo facevano parte anche il Collettivo Femminista e il Collettivo Antinucleare.

impastato
Locandina del primo concerto al Circolo Musica e cultura. Ancora oggi appesa nella stanza di Peppino visitabile a Casa Memoria di Cinisi (foto via Rete 100 passi)

Ma la sua lotta agli interessi mafiosi di Cinisi (PA) si fa concreta quando, nel 1977, fonda Radio Aut giornale di controinformazione radiodiffuso, emittente autofinanziata con sede a Terrasini (PA). Lo scopo era quello di fare controinformazione e, soprattutto, di fare satira nei confronti della mafia e degli esponenti della politica locale, denunciando i crimini e gli affari dei mafiosi di Cinisi e Terrasini. Ridicolizzando così la mafia, andrà a colpire proprio i pilastri dell’organizzazione: l’onore e il rispetto. Principale bersaglio degli attacchi radiofonici era il capomafia Gaetano Badalamenti («Tano Seduto», come lo chiamava Peppino), che aveva un ruolo di primo piano nei traffici internazionali di droga attraverso il controllo dell’aeroporto di Punta Raisi (PA).

Radio Aut, la sede a Terrasini (foto via Nando dalla Chiesa)
L’omicidio ha un nome chiaro: MAFIA

Nel 1978, invece, Peppino si candida alle elezioni comunali di Cinisi (PA) nelle liste della Democrazia Proletaria. Le elezioni si sarebbero tenute il 14 maggio 1978, ma Giuseppe non fa in tempo a vederne i risultati. Nonostante gli avvertimenti ricevuti durante una campagna elettorale incentrata sui continui attacchi ai Badalamenti, qualche giorno prima delle elezioni era avvenuta l’esposizione di una documentata mostra fotografica sulla devastazione del territorio ad opera di speculatori e gruppi mafiosi. La notte tra 8 e 9 maggio, Peppino Impastato viene rapito e assassinato, a 30 anni, dalla mafia locale, dai Badalamenti, suoi vicini di casa che abitavano a 100 passi di distanza.

Il corpo di Impastato viene fatto saltare in aria con una carica di tritolo sui binari della ferrovia di Cinisi, sulla tratta Palermo-Trapani. Il corpo, sì. Perché Peppino Impastato era già stato ucciso, in un casolare in una stradina nei pressi dell’aeroporto, prima di essere adagiato sui binari della vicina ferrovia per simulare un’esplosione accidentale nel corso di un fallito attentato.

Un omicidio che, da subito, si era tentato di far passare come un attentato terroristico, nel quale Giuseppe sarebbe rimasto vittima del suo stesso tentativo di sabotare la ferrovia. In un fonogramma del 9 maggio, infatti, il procuratore Gaetano Martorana scriveva:

«Attentato alla sicurezza dei trasporti mediante esplosione dinamitarda. Verso le ore 00.30-1 del 9.05.1978 persona allo stato ignota, ma presumibilmente identificata in tale Impastato Giuseppe si recava a bordo della propria autovettura all’altezza del km. 30+180 della strada ferrata Trapani-Palermo per ivi collocare un ordigno dinamitardo che, esplodendo, dilaniava lo stesso attentatore».

Una spiegazione che non ha mai convinto. Sui muri di Cinisi (PA) appare da subito un manifesto di Democrazia Proletaria che dichiara la matrice mafiosa. A Palermo un altro manifesto recitava: «Peppino Impastato è stato assassinato dalla mafia».

Manifesto che rende note le vere cause della morte di Peppino. Democrazia Proletaria, 9 maggio ’78 (foto via Il Compagno)
La vicenda giudiziaria
Gaetano Badalamenti

Il processo per l’individuazione dei responsabili non è stato né semplice né immediato. Nel maggio del 1984 l’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, sulla base delle indicazioni del giudice Consigliere istruttore Rocco Chinnici (avviatore del primo pool antimafia, assassinato nel luglio 1983), emette una sentenza, firmata dal consigliere istruttore Antonino Caponnetto, sostituto di Chinnici, in cui si riconosce la matrice mafiosa del delitto, attribuito però ad ignoti.

Nel 1986 il Centro Impastato pubblica la biografia della madre di Peppino, nel volume La mafia in casa mia, indicando come mandante del delitto il

boss Gaetano Badalamenti, condannato intanto a 45 anni di reclusione per traffico di droga dalla Corte di New York, nel processo alla Pizza connection. Il caso viene però archiviato nel maggio del 1992 ribadendo la matrice mafiosa, ma escludendo la possibilità di individuare i responsabili.

Soltanto nel giugno del 1996, in seguito alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Salvatore Palazzolo, che aveva indicato Gaetano Badalamenti come mandante dell’omicidio, l’inchiesta viene riaperta. Nel novembre del 1997 viene emesso un ordine di cattura per Gaetano Badalamenti, incriminato come mandante del delitto. L’11 aprile 2002 Gaetano Badalamenti è riconosciuto colpevole e condannato all’ergastolo.

La memoria di Peppino, “amico siciliano”

La rabbia per la perdita e l’ingiustizia hanno però contribuito a mantenere viva sin da subito la memoria di un giovane coraggioso. Alle elezioni comunali di Cinisi (PA) del 14 maggio 1978, infatti, Giuseppe Impastato era stato simbolicamente eletto al Consiglio comunale, nonostante fosse morto 5 giorni prima. Al funerale di Peppino Impastato parteciparono più di mille persone, provenienti da Palermo e dai comuni vicini.

I funerali di Peppino Impastato (via Globalist)

Peppino Impastato è stato uno dei primi a ribellarsi e a denunciare l’operato della mafia. E l’ha fatto, sin da ragazzino, nel modo più brutale possibile, distruggendo uno dei vincoli più importanti dell’organizzazione mafiosa: la “famiglia”. Oramai simbolo di lotta, coraggio e giustizia, Peppino è il destinatario di numerose commemorazioni e iniziative.

Dal cinema, con uno straordinario Luigi Lo Cascio agli esordi ne I cento passi di Marco Tullio Giordana, alla musica, con l’oramai celebre I cento passi dei Modena City Ramblers.

Luigi Lo Cascio sul set de I cento passi (foto via La Repubblica)

Ma oltre al cinema e alla musica, molte sono le iniziative volte a onorare la sua memoria e il suo operato. Tra le tante si ricordano:

  • l’8 maggio 1998, l’Università degli Studi di Palermo gli conferisce la laurea honoris causa in Filosofia alla memoria;
  • dal maggio 2002 si svolge a Cinisi il Forum Sociale Antimafia «Felicia e Peppino Impastato»;
  • Acireale, Taranto, Torino, Velletri e Quartu Sant’Elena (CA) gli hanno dedicato vie, piazze, giardini e laghetti;
  • il 10 marzo 2010, il Partito della Rifondazione Comunista di Taranto inaugura un circolo intitolato in suo nome, alla presenza del fratello;
  • il 20 aprile 2010 a Perugia, in occasione del Festival Internazionale del Giornalismo, presso i giardini del Pincetto, è stato piantato un ulivo e posta una targa in memoria di Peppino Impastato e dei giornalisti uccisi per mano della mafia;
  • il 15 maggio 2010 la chiave della casa di Gaetano Badalamenti, sita in corso Umberto, è stata consegnata al sindaco di Cinisi; successivamente, l’immobile è stato consegnato ufficialmente all’Associazione Culturale Peppino Impastato di Cinisi (PA);
  • nel 2012 la casa di Peppino Impastato diventa bene culturale come “testimonianza della storia collettiva e per la sua valenza simbolica di esempio di civiltà e di lotta alla mafia”.

Inoltre, ogni anno, a Cinisi (PA), in occasione dell’anniversario della morte, si organizza un corteo cui prendono parte sindaci da tutta Italia insieme a migliaia di giovani. Non si tratta di un corte fine solo al ricordo di Peppino Impastato, ma anche di una forte presa di posizione contro la mafia per portare avanti le idee e l’impegno di un giovane eroe. Quest’anno, a causa dell’attuale situazione pandemica, il corteo si è svolto in maniera anomala: un corteo virtuale. Perché la pandemia può anche “costringere” a casa, ma la lotta alla mafia e all’illegalità, unite al ricordo di Peppino Impastato, non si ferma.

Il corteo in ricordo di Peppino Impastato a Cinisi (PA) – foto: Giornale di Sicilia
«La mafia è una montagna di merda!».

- Peppino Impastato, 1948-1978
Accadde oggi

SPECIALE GIORNO BUIO | Il 9 maggio del 1978 l’Italia morì due volte

9 maggio 1978: l’Italia venne scossa da due episodi talmente gravi da poter affermare che in questa data, 43 anni fa, l’Italia morì due volte. Oggi, a causa di questi avvenimenti, ricorre il «Giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice»; la Giornata venne istituita il 4 maggio 2007 e viene celebrata il 9 maggio in considerazione del fatto che in questa data venne ucciso brutalmente dalle Brigate Rosse Aldo Moro; lo stesso giorno venne assassinato il giornalista Peppino Impastato.

Caso Moro
italia
Aldo Moro in una foto scattata durante la prigionia

L’episodio di Moro ha suscitato fin da subito un grande interesse mediatico, data la posizione pubblica del politico. Il presidente della DC venne rapito il 16 marzo 1978 dalle Brigate Rosse; durante l’atto vennero uccisi anche gli uomini della scorta. Durante il periodo di prigionia il Paese si divise in due schieramenti: chi sosteneva si dovesse trattare con i terroristi e chi, invece, si rifiutava di scendere a compromessi. Lo Stato alla fine scelse la linea dura e il 9 maggio il corpo del politico venne rinvenuto senza vita all’interno del bagagliaio di una Renault 4 in via Michelangelo Caetani a Roma.

Il ritrovamento del corpo di Moro dentro la Renault 4 (foto: ANSA)
Caso Impastato
italia
Peppino Impastato (foto: ANCI)

La vicenda di Peppino Impastato ha avuto inizialmente un impatto minore. Il giornalista e attivista nel 1978 si candidò al consiglio comunale della sua città, Cinisi (PA), nella lista di Democrazia Proletaria; tra l’8 e il 9 maggio dello stesso anno venne brutalmente ucciso, legato ai binari con una carica di tritolo posta sotto al corpo. A causa di possibili depistaggi di stampo mafioso, all’inizio venne considerato come lui stesso un attentatore a cui andò storto qualcosa o alcuni pensarono a un episodio di suicidio. Si dovette attendere il 1984 per avere una prima sentenza dove si leggeva dell’ombra della mafia dietro la sua morte. Dopo alcune archiviazioni negli anni ’90, nonostante la matrice mafiosa fosse oramai confermata, si dovettero aspettare due date significative:

  • 5 marzo 2001, la corte d’assise condanna Vito Palazzolo a trent’anni di carcere poiché mandante dell’omicidio Impastato;
  • 11 aprile 2002, venne inflitto l’ergastolo a Gaetano Badalamenti per aver ordinato l’omicidio Impastato.
Foto di Paolo Chirco
News

NEWS | “Sicilian Ghost Story”, il film in ricordo di Giuseppe Di Matteo (VIDEO)

L’11 gennaio del 1996 il piccolo Giuseppe Di Matteo, in un casolare nelle campagne di San Giuseppe Jato, venne strangolato e sciolto nell’acido dai suoi carcerieri: Giuseppe Monticciolo, Enzo Brusca e Vincenzo Chiodo. I tre assassini erano stati mandati lì dal boss Giovanni Brusca che aveva ordinato: “Alliberateve de lu cagnuleddu”.

Erano passati 779 giorni da quando il piccolo Di Matteo, allora dodicenne, era stato rapito dal maneggio di Piana degli Albanesi, il 23 novembre 1993, da un commando di Brancaccio su ordine dei capimafia Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro, Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca. L’obiettivo dei mafiosi era di convincere Santino, il padre di Giuseppe, diventato collaboratore di giustizia, a ritrattare le accuse verso i suoi ex amici mafiosi e smettere di rivelare i retroscena della Strage di Capaci.

Giuseppe, durante la prigionia, venne spostato in diverse celle nei paesi del Palermitano, il Trapanese e l’Agrigentino, con la complicità di decine di uomini del disonore. E decine sono state le condanne dei mafiosi che hanno partecipato al rapimento e all’omicidio di quello che è diventato un simbolo: il bambino che ha sconfitto la mafia.

Giuseppe di Matteo
Giuseppe Di Matteo (Il Messaggero)
L’impegno per il ricordo

Grazie all’impegno del fratello Nicola, la giornata del prossimo lunedì sarà dedicata a ricordare la figura e il sacrificio di Giuseppe tra i comuni di Altofonte, in cui il piccolo era nato, e San Giuseppe Jato. Oggi Giuseppe avrebbe quarant’anni, ha detto il Sindaco di Altofonte Angelina De Luca, all’incirca la mia età. Per noi, allora ragazzini del paese, la sua scomparsa e poi la morte è sempre stato un trauma incancellabile. Ma è solo andando sul luogo del suo martirio, nel casolare di Giambascio, che ci si rende conto della brutalità e della desolazione di questa immane tragedia.

Giuseppe Di Matteo (Antimafia Duemila)
La cerimonia commemorativa: il programma

Le iniziative avranno luogo lunedì 11 gennaio 2021.

– Ore 10, Salone parrocchiale della Chiesa madre Santa Maria di Altofonte, piazza Falcone e Borsellino:

CERIMONIA COMMEMORATIVA (Coordina Pino Nazio, giornalista e autore de Il bambino che sognava i cavalli).

Partecipano: Arciprete Vincenzo La Versa, parroco di Santa Maria; Angela De Luca, sindaco di Altofonte; Nicola Di Matteo, fratello di Giuseppe; Roberto La Galla, assessore Istruzione e Formazione professionale Regione Siciliana; Claudio Fava, presidente della Commissione Antimafia dell’Assemblea Regionale Siciliana; Salvatore Graziano, commissario del Comune di San Giuseppe Jato; Nicolò Mannino, presidente del Parlamento della legalità internazionale; Caterina Pellingra, referente Presidio Libera Valle Jato Giuseppe Di Matteo e Mario Nicosia; Monica Genovese, legale della famiglia Di Matteo; Irene Iannello, ex preside dell’Istituto comprensivo di Altofonte.

In collegamento con il Senato della Repubblica: Nicola Morra, presidente della Commissione parlamentare antimafia; Cinzia Leone, vicepresidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio e la violenza di genere.

– Ore 11.30, Giardino della Memoria, San Giuseppe Jato, località Giambascio: Omaggio floreale al luogo del martirio di Giuseppe Di Matteo

– Ore 12:30, San Giuseppe Jato, piazza Falcone e Borsellino: Scopertura di una mattonella commemorativa con gli insegnanti e gli alunni coinvolti nel campo estivo di Libera dedicato al ricordo di Giuseppe Di Matteo. Le manifestazioni si terranno nel rispetto delle norme per il contenimento della diffusione del Covid19. La partecipazione alla commemorazione nella chiesa di Altofonte è riservata a coloro i quali abbiano ricevuto l’invito.

Sicilian Ghost Story

Sicilian Ghost Story è un film del 2017 diretto dai registi Fabio GrassadoniaAntonio Piazza (la loro pagina a questo link).

Sicilian Ghost Story, locandina (IMDB)

Si tratta di un film liberamente tratto dal racconto Un cavaliere bianco, di Marco Mancassola e contenuto nella raccolta Non saremo confusi per sempre. Il film è basato sulle vicende legate alla sparizione e all’omicidio di Giuseppe Di Matteo. Il film, vincitore di numerosi premi, tra cui il David di Donatello per la miglior sceneggiatura non originale, è disponibile gratuitamente su RaiPlay a questo link.

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NEWS | Confiscati oggetti d’arte dal valore di 27 milioni

Si sono concluse le indagini patrimoniali degli imputati. Tra i beni sequestrati ci sono ville, quadri e sculture.

 

Venerdì 20 novembre la polizia ha confiscato definitivamente alla mafia molti beni e oggetti d’arte per il valore di 27 milioni di euro. L’operazione è stata eseguita da parte dei militari del Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Roma, dopo che il Tribunale delle misure di prevenzione aveva emesso il provvedimento. I beni sequestrati agli otto imputati, tra cui Carminati e Buzzi, e di altri complici (Riccardo Brugia, Roberto Lacopo, Agostino Gaglianone, Fabio Gaudenzi, Cristiano Guarnera e Giovanni De Carlo), sono numerosi e di grande valore.  La confisca segna la fine delle lunghe indagini patrimoniali delegate dalla DDA di Roma al nucleo di Polizia Economico-Finanziaria. 

Una vera e propria galleria d’arte

La polizia ha confiscato non solo 4 società, 13 unità immobiliari, un terreno e 13 veicoli, ma anche ben 69 opere d’arte. Uno degli imputati, Massimo Carminati, custodiva nella sua abitazione di Sarcofano (RM) una vera e propria galleria d’arte. Al suo interno sono stati rinvenuti quadri relativi alla Pop Art, al Nouveau Réalisme, al Futurismo e al Surrealismo, dal valore inestimabile. Prima della confisca, Isabella Quattrociocchi ha catalogato e valutato le opere, analizzandone anche il peso, le tele e i disegni. Lo stesso procedimento ha coinvolto le sculture trovate all’interno della villa. Uno dei pezzi scultorei porta la firmata di Pietro Consagra sul basamento e ha un valore che oscilla tra i 12 e i 25mila euro. Un dipinto olio su tela di 64 x 64 cm, firmato «FuturBalla»,  ha un valore che si colloca fra i 15 e i 25mila euro.

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Illustri Siciliani | La forza di Paolo Borsellino

Il 19 Luglio 1992 Palermo ode nuovamente un forte boato, come un ruggito che scuote la terra ed echeggia nei cuori: l’ennesima autobomba. Stavolta, la vita strappata è quella di Paolo Borsellino e degli agenti della sua scorta. Così se ne andava un altro fondamentale pilastro della feroce battaglia tra giustizia e mafia che imperversava da oltre 10 anni a Palermo. Un uomo buono, un uomo forte e caparbio, ricco di ideali e che era in grado di trasmette valori positivi ai posteri. Un uomo speciale.  

Paolo Borsellino nasce il 19 Gennaio 1940 a Palermo, nell’antico quartiere di origine araba della Kalsa, da madre e padre farmacisti. È lo stesso quartiere che ha dato i natali a Giovanni Falcone e che li ha visti giocare insieme tante partite di calcio. Frequenta il Liceo classico “Meli” e dopo si dedica anima e corpo allo studio delle leggi presso la facoltà di Giurisprudenza di Palermo, laureandosi a pieni voti a soli 22 anni.

La perdita del padre pochi giorni dopo la laurea catapulta il giovane Paolo tra le fauci delle dure responsabilità: tocca a lui provvedere alla famiglia e farsi strada tra i ranghi della magistratura. Prende accordi con l’ordine dei farmacisti, così da tenere aperta la farmacia del padre fino al conseguimento della laurea in farmacia della sorella, e si dedica agli studi per il concorso in magistratura.

I primi incarichi arrivano fin dal 1965 ma è solo nel 1975 che comincia quella attività di giudice per il quale Borsellino è amato e ricordato: Paolo viene trasferito al Tribunale di Palermo nell’Ufficio Istruzione Processi Penali sotto la guida di Rocco Chinnici.

Paolo Borsellino e Giovanni Falcone

Nel 1980, a seguito dei primi arresti mafiosi, Rocco Chinnici, assieme ad altri tre magistrati (Falcone, Borsellino e Barrile) fonda il primo Pool Antimafia. Quest’organo porta ad una più concreta collaborazione con le forze dell’ordine ed aveva un unico e solo forte obiettivo: smantellare Cosa Nostra. Purtroppo, un così forte grido di battaglia porta anche spiacevoli conseguenze: i magistrati e le loro famiglie vengono messi sotto scorta e sono costretti a modificare le proprie abitudini quotidiane.

Il Pool va avanti senza sosta per poter istituire il primo maxi-processo contro la mafia siciliana. Paolo Borsellino è il primo che, nel tempo che gli rimane dopo il lavoro, si impegna a parlare con i civili, con i giovani, facendo conferenze e promuovendo la legalità e la giustizia per le strade della città; egli cercava di svegliare gli animi delle persone per bene affinché potessero ribellarsi a quella finta normalità che si voleva ostentare, affinchè il motto “la mafia non esiste” venisse scardinato.

Nel 1983 l’assassinio di Rocco Chinnici è un pugno in faccia ai componenti del Pool che perdono il loro leader. Fortunatamente, gli ideali che avevano fondato il gruppo non vanno perduti e il duro lavoroporta i primi frutti: l’arresto di Vito Ciancimino e il pentimento di Tommaso Buscetta. Ma il sangue di chi combatte la mafia continua a scorrere per le strade di Palermo e Borsellino viene trasferito, assieme a Falcone, al Carcere dell’Asinara così da poter concludere la monumentale istruttoria del primo maxi-processo a Cosa Nostra. Conclusa l’opera Borsellino chiede e ottiene subito il trasferimento al Tribunale di Marsala per ricoprire il posto di Procuratore Capo.

La scorta non lascia mai la famiglia Borsellino e l’inizio dei processi reca con se un voltafaccia inaspettato: il popolo, i civili, che avevano combattuto al fianco dei magistrati, ora erano i primi a far fiorire le critiche e a tacciarli quali servi del potere che ad esso si erano svenduti. Borsellino rischia il provvedimento disciplinare per le risposte alle accuse ma viene fortemente sostenuto dal Presidente della Repubblica Cossiga, che lo difende e ne riabilita il nome.

A Marsala, Paolo Borsellino fa da mentore a numerosi giovani magistrati che, affascinati e contagiati dal suo carisma, lo affiancano nelle indagini mafiose e ne ereditano i principi morali. Ma, ben presto, Paolo chiede alla Procura della Repubblica di Marsala il trasferimento alla Procura della Repubblica di Palermo nei panni di Procuratore Aggiunto; lo ottiene e, grazie ai suoi indiscussi meriti, diviene delegato al coordinamento dell’attività dei Sostituti facenti parte della Direzione Distrettuale Antimafia: è il 1991.

Poi il dramma. Il 23 Maggio 1992 Borsellino riceve la notizia della Strage di Capaci e della morte dell’amato amico e collega Giovanni Falcone. Paolo soffre molto, il suo rapporto con Giovanni era speciale, era un legame a doppio filo, un legame che era stato spezzato. La cosa peggiore è che Paolo Borsellino sentiva in cuor suo che presto sarebbe giunto il suo momento: i più forti componenti del Pool Antimafia erano stati assassinati, l’opinione pubblica, che tanta parte aveva avuto nella resa dei primi criminali, gli era contro e lo Stato, tranne pochi onorati componenti, aveva voltato le spalle.

Nonostante tutto il giudice non aveva paura, anzi egli sosteneva fieramente che “È normale che esiste la paura, in ogni uomo, l’importante è che sia accompagnata dal coraggio. Non bisogna lasciarsi sopraffare dalla paura, altrimenti diventa un ostacolo che impedisce di andare avanti”. Infatti, la giustizia siciliana è andata avanti, ferita da quel 23 Maggio e dilaniata da quel 19 Luglio 1992, ha proseguito il lavoro di Falcone e Borsellino e, soprattutto, non ha mai dimenticato queste date e il loro operato. Dopo il 19 Luglio tutti sanno che la mafia esiste.