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DANTEDÌ | In cammino nella selva oscura, un luogo dai tanti significati

Il Poema ha inizio con la rappresentazione di uno stato di smarrimento angoscioso: la “selva oscura”. Dante, durante la notte tra il 24 e il 25 marzo del 1300, si smarrisce all’inizio del Poema (Inf., I,1 ss.) nella selva (descritta da Dante stesso come selvaggia, aspra e forte). Appena uscito dalla foresta, il cammino di Dante è ostacolato da tre belve feroci (una lonza, un leone e una lupa) che lo sospingono di nuovo verso la selva.

Le tre fiere rappresentano l’allegoria dei tre vizi capitali (lonza – lussuria, leone – superbia, lupa – avarizia), a causa dei quali non è possibile condurre una vita retta e proseguire nell’ascesa verso Dio. Esistono altre interpretazioni delle tre fiere: secondo alcuni la lonza, il leone e la lupa rappresentano rispettivamente l’incontinenza, la violenza e la frode; i tre tipi di peccati puniti nell’Alto, Medio e Basso Inferno. Altri pensano ad un’allegoria delle tre potenze guelfe (Firenze, Francia e Roma) che avrebbero contribuito alla corruzione della società.

Per raggiungere il sole (il colle che si intravede dopo la selva) Dante dovrà percorrere un’altra via, quella dell’oltremondo, guidato da Virgilio, inviato in suo soccorso da Beatrice. Tutti gli elementi della figurazione della “selva oscura”, dall’intrico delle piante al sonno che coglie il viandante, dal colle che si intravvede oltre di essa alle fiere che impediscono l’ascesa verso il sole, sono immagini care alla letteratura religiosa e morale del Medioevo.

La Voragine infernale, l’unica illustrazione della Commedia completata da Botticelli

Ma cosa significa la selva oscura? Lo chiediamo direttamente a Dante!

D: Oh Sommo Poeta, che cosa voleva far capire ai futuri lettori con “selva oscura”?

R: “Con la selva oscura ho voluto rappresentare lo smarrimento morale in cui ero caduto dopo la morte di Beatrice, mio modello ideale di virtù e di religiosità. È inoltre un’allegoria del peccato in cui ogni uomo può smarrirsi durante il cammino della vita”.

Il bosco buio e fitto potrebbe essere paragonato alla società odierna sotto molti aspetti: corruzione della Chiesa, cattivo governo, decadenza dell’umanità. Ma anche nella vita quotidiana ha un suo significato. Può spaziare in svariate situazioni, tutte accomunate in genere dalla debolezza interiore: scomparsa di una persona cara, perdita temporanea di fede, intrapresa di una vita peccaminosa, perdita di principi morali ecc. In poche parole, un momento della propria vita in cui si commettono errori o si è infelici a causa di avvenimenti o torti subiti.

Infatti già all’epoca del poeta questo paesaggio naturale era qualcosa di misterioso e di poco conosciuto, un luogo insidioso e terrificante: il bosco fitto, esteso, a volte una foresta, popolata da animali feroci e briganti, richiama alla mente una difficoltà, un luogo, una situazione da cui è difficile uscire sia fisicamente che psicologicamente. Nella selva penetra con difficoltà la luce, il pericolo è in agguato, non vi sono sentieri, percorsi segnati, non vi sono certezze. Inoltre l’oscurità rappresenta, in quasi tutte le culture, il male e di conseguenza, talvolta, la morte.

È forse per questo che spesso nei film horror o nei thriller la trama si delinea in una foresta buia in cui accadono terribili sventure? Il principio è lo stesso: vedendo un bosco, fitto e per giunta buio, si è subito inquieti perché non si sa cosa nasconda né dove porti, ma è un gigantesco mistero in cui ci si può perdere e talvolta non fare più ritorno. L’idea stessa del bosco e della foresta si individua spesso con perdizione, pericolo, oscurità ed è un luogo quasi quotidiano poiché spesso passiamo di fronte ad un boschetto. Forse è proprio questa quotidianità che lo rende così spaventoso, perché rende i pericoli e gli orrori descritti nei film rischi quasi reali, cose che potrebbero veramente capitare.

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L’altro viaggio per la conversione

La Commedia inizia, quindi, con una situazione di stallo: il personaggio-Dante si “ritrova” in una selva oscura e, fuggendola, si incammina verso il colle, ma il suo viaggio è subito frenato dalle tre fiere. Fin dal primo verso compare prepotentemente la figura dell’io (mi ritrovai). Secondo la convenzione scrittoria del Medioevo, non era consentito a qualsiasi autore parlare di sé, a meno che la propria esperienza non potesse rivestire un qualche valore universale. Come dire che l’io può ergersi a protagonista solo se ha valore per la nostra vita, cioè per l’esperienza vitale di tutti gli uomini. Dante è consapevole di questa prassi (ne fa riferimento in Convivio, I, II, 12-14) e, se parla di sé, lo fa perché mira ad attribuire alla sua opera valore di exemplum.

Così facendo, egli si ricollega a un illustre precedente, ossia alle Confessioni di Sant’Agostino, testo capitale della tradizione occidentale, nel quale il Santo ripercorre le tappe della propria esistenza, narrandole in un discorso ininterrotto rivolto a Dio, in modo da dare vita, appunto, a una “confessione”. Gli elementi in comune tra i due testi sono molteplici: entrambi parlano di una conversione come di un viaggio necessario ed entrambi, inoltre, ne parlano in termini di lotta e di fatica, indicandolo un processo lungo e laborioso.

La conversione non è infatti un atto istantaneo, una folgorazione che consente di cambiare vita in modo immediato, quanto piuttosto un duraturo e faticoso processo di umiltà, attuabile solo con un “altro viaggio”, che nella Commedia è rappresentato dalla discesa all’inferno. Per questo motivo Dante non riesce subito a scalare il monte, anche se lo vede (guardai in alto): nella scena iniziale, appena uscito dalla selva. Egli sa dove deve arrivare ma non sa come arrivarci. Scalerà il monte solo nel Purgatorio, cioè quando sarà già avviato il processo di conversione.

E infatti un confronto tra i versi di Inferno I e di Purgatorio XXVIII è illuminante:

 Nel mezzo del cammin di nostra vita
 mi ritrovai per una selva oscura,
 [...]
 Io non so ben ridir com’i’ v’intrai
 [...]
 Ed ecco, quasi al cominciar dell’erta

 Inf. I, 1-2, 10, 31 
 Già m’avevan trasportato i lenti passi
 dentro a la selva antica tanto, ch’io
 non potea rivedere ond’io mi ’ntrassi;
 ed ecco più andar mi tolse un rio,
 che 'nver' sinistra con sue picciole onde
 piegava l'erba che 'n sua ripa uscìo.

 Purg. XXVIII, 22-25 

Questa analogia fra i due canti, sulla base delle parole significative che vengono ripetute, è sottolineata da diversi commentatori: Dante ormai può procedere senza quegli ostacoli che gli avevano sbarrato il cammino. Da qui inizierà un altro viaggio e sarà pronto per salire al Purgatorio e poi nei cieli del Paradiso.

selva
La selva oscura di Gustave Doré