UCRAINA | Armiamoci e ammaliamoci: quando la Peste Nera travolse la Crimea genovese
La Crimea fu terra di colonizzazione da parte della Repubblica di Genova a partire dal XIII secolo. Il domino genovese nella penisola prese il nome di Gazaria, in riferimento alla precedente presenza dei cazari nella regione. In effetti la Crimea, e l’Ucraina in generale, fu crocevia di genti già dall’età antica, e al tempo dei genovesi era ben presente nella penisola un caleidoscopio culturale veramente intrigante. In quest’occasione, tuttavia, si parlerà di un ospite sgradito, spiacevolmente invadente. Uno di quelli che non attende inviti: la Peste Nera, che non bussò alle porte di Caffa ma ci piombò dentro.
L’assedio di Caffa
Nel 1346 l’esercito mongolo dell’Orda d’Oro assediò il baluardo genovese in Crimea. Non era la prima volta: già quarant’anni prima Caffa subì l’aggressione dei guerrieri venuti dalla steppa per finire in pasto alle fiamme. Tuttavia, rinacque letteralmente dalle proprie ceneri e seppe imporsi come città egemone nel Mar Nero. A sua difesa, la colonia si munì di una doppia cinta muraria, che seppe resistere ad un primo assedio nel 1343 quando il Khan mongolo Ganī Bek tentò di sottometterla. Nulla di fatto: dopo un anno di assedio i genovesi fecero strage dei mongoli. Successivamente, il nuovo assedio del 1346 graffiò le mura di Caffa senza far danni. L’esercito mongolo si ritirò, infatti, a causa di una un’epidemia tra le sue fila. Qui entra nella storia un italiano, seppur poi precipitato nel dimenticatoio: Gabriele de’ Mussi, da Piacenza, che raccontò di Caffa e di come la peste l’avesse morsa.
Il morbo dilaga
Il fatto è abbastanza crudo e de’ Mussi non risparmia dettagli. Così scrive: Oh Dio! Guarda come le razze pagane dei Tartari, che si riversano da tutte le parti, hanno improvvisamente investito la città di Caffa e assediato i cristiani intrappolati lì per quasi tre anni […] Ma ecco, tutto l’esercito fu colpito da una malattia che invase i Tartari e uccideva migliaia e migliaia di persone ogni giorno.
Il cronista piacentino continua descrivendo la malattia come fosse una pioggia di frecce scagliate dal cielo, una punizione contro l’arroganza nemica. I sintomi del morbo erano sconosciuti, ma presto sarebbero diventati inequivocabili in occidente. Così li descrive de’ Mussi: “Inutili erano i consigli e le attenzioni dei medici: i Tartari morivano non appena i sintomi intaccavano il corpo, gonfiori alle ascelle o all’inguine causati da umori coagulanti, seguiti da una febbre putrida“. È la peste, la morte oltre le mura di Caffa.
Catapulte e morte dal cielo
L’esercito dell’Orda d’Oro è sfinito e i genovesi ne approfittano per bloccare, con la flotta, i porti mongoli sul Mar Nero. Così, nel 1347, Ganī Bek si ritroverà costretto a negoziare la pace. Eppure, vi è un colpo di scena. Così scrive de’ Mussi: (I Tartari) ordinarono che i cadaveri fossero caricati sulle catapulte e lanciati nella città così che il fetore estremo uccidesse chiunque all’interno. Il testo continua informando che i cristiani tentarono di gettar i cadaveri in mare, ma non servì a nulla: presto sia l’aria che l’acqua imputridirono. Il miasma è devastante: un uomo infetto poteva trasmettere il morbo ad altri, infettare persone e ambienti solo con lo sguardo; un modo per difendersi nessuno lo conosceva, né lo poteva scoprire. Il passato sembra farsi quel futuro distopico che tante volte si è visto al cinema o letto nei libri. Ma questa è realtà, accadde realmente.
La morte viaggia in barca
de’ Mussi arricchisce la propria cronaca con impressionanti dettagli. Ricordiamo che Caffa era una città portuale e fu proprio questo a favorire il disastro: si dà il caso che tra coloro che fuggirono da Caffa in barca ci fossero alcuni marinai che erano stati infettati dal morbo. Alcuni di loro, come racconta de’ Mussi, fecero vela verso Genova, altri verso Venezia. Ogni terra cristiana fornì un porto sicuro ai marinai di Caffa. E la subdola peste sorrise: mentre parlavamo con loro, mentre ci abbracciavano e ci baciavano, abbiamo sparso il veleno dalle nostre labbra. Dalla Crimea il morbo si diffuse in Sicilia, poi Genova, di lì a Piacenza, contesto caro a de’ Mussi che chiosa: “lamentando la nostra miseria, temevamo di fuggire, ma non osavamo restare“. L’Europa, al fine, fu sopraffatta, ma non sconfitta. In quella disperazione il dolore e l’angoscia furo tramutati nell’arte che ancor oggi impreziosisce il mondo.
Un’ultima precisazione
A lungo si è pensato che Gabriele de’ Mussi fosse stato uno dei marinai in fuga da Caffa. Molto probabilmente l’autore de Morbo sive Mortalitate quae fuit a.d. MCCCXLVIII, non lasciò mai Piacenza e visse l’assedio di Caffa. Seppur non sia certa la testimonianza oculare del de’ Mussi in sé, piuttosto il compendio di più fonti dell’epoca, l’episodio dei cadaveri lanciati con le catapulte è inteso come l’antecedente storico della guerra tossicologica propriamente detta. Il manoscritto originario del de’ Mussi è perduto ma una copia è inserita in una raccolta di contributi storico-geografici del 1367, conservata nella libreria dell’Università di Wroclaw, Polonia.