La Guerra di Etiopia fu un conflitto armato fra l’Italia fascista e l’Impero di Etiopia. Si svolse tra il 3 ottobre 1935 e il 5 maggio 1936 e vide le truppe italiane vincere e conquistare la regione Abissina. Ma cosa spinse l’Italia a conquistare il territorio Africano?
Antefatti
L’Italia dell’immediato primo Dopoguerra voleva espandere la propria influenza coloniale in Africa, oltre l’Eritrea, la Somalia e la Libia. Riteneva, infatti, suo diritto avere un numero maggiore di colonie, al pari almeno delle altre potenze vincitrici del conflitto.
Nel 1926, Jacopo Gasparini, governatore italiano dell’Eritrea, stipulò contratti di amicizia nello Yemen del Nord, al confine col Protettorato di Aden (colonia britannica). Lo scopo era quello di allargare la propria influenza dal punto di vista economico, commerciale e politico. Tuttavia, Mussolini trascurò tale campagna coloniale, non volendosi, nei suoi primi anni di regime, nemicare gli ambienti liberali vicini alla Gran Bretagna. In Somalia, infatti, Cesare Maria De Vecchi aveva già occupato la regione meridionale dell’Oltregiuba nel 1925, proprio su concessione della Gran Bretagna.
L’interesse dell’espansione coloniale italiana, però, crebbe progressivamente agli inizi degli anni Trenta. La causa va ricercata principalmente negli ideali del Duce, che voleva la ricostruzione di un’Impero Italiano sullo stile di quello Romano. A questo, inoltre, si aggiungeva il problema emigratorio italiano, che sarebbe stato facilmente arginabile con la conquista di colonie.
La guerra
Negli anni Trenta, l’Etiopia, governata dall’imperatore Hailé Selassié, era uno dei pochi paesi africani ancora indipendente. Proprio per questo motivo divenne la meta prediletta di Mussolini per iniziare la propria campagna coloniale.
Il 3 ottobre 1935, quindi, l’Italia dichiarò guerra all’Etiopia, sfruttando come pretesto una serie di incidenti reiterati tra soldati italiani ed etiopi (fra tutti, l’incidente di Ual Ual nel 1934). A condurre il conflitto fu inizialmente Emilio De Bono, poi continuato e concluso dal Maresciallo Pietro Badoglio. Nonostante le pesanti sanzioni economiche da parte della Società delle Nazioni, l’Italia perseverò nel conflitto e, il 5 maggio 1936, le truppe italiane entrarono nella capitale Addis Abeba, conquistando nelle successive 48 ore l’Abissinia.
Il 9 maggio 1936 terminò la Guerra, con Mussolini che proclamò la nascita dell’Impero Italiano e della A.O.I (Africa Orientale Italiana), composta da Eritrea, Somalia e Abissinia.
Le conseguenze della guerra
Le conseguenze della guerra furono terribili. Persero la vita 275.000 soldati etiopi, con 500.000 feriti; 4.350 tra soldati e civili italiani e 4000 ascari, militi indigeni che combattevano con le forze coloniali.
In termini economici, invece, il 4 luglio 1936 la Società delle Nazioni revocò le sanzioni inflitte all’Italia, grazie soprattutto alle pressioni provenienti dai partner commerciali del Bel Paese. Proprio per questo motivo, la Guerra di Etiopia è ritenuta da molti storici il punto più alto del ventennio fascista.
«È una bella domenica di luglio, avete preso il torpedone* e siete arrivati al mare. Per il pranzo, niente di meglio che una bella insalata tricolore da gustare sotto l’ombrellone mentre un vostro caro amico, arrivato dall’Argentina per le vacanze, vi racconta com’è bella la vita nella capitale, Buonaria. Per cena avete prenotato in quel posto carino in cima alla scogliera, per ammirare un tuttochesivede* mozzafiato, e da bere vi gustate quella bevanda arlecchina* estiva che vi da un po’ alla testa, non siete abituati a bere àlcole! Dopo cena tutti alla sala da danzare, speriamo che passino in radio qualche pezzo di quel trombettista famoso, come si chiama? Ah si, Luigi Braccioforte!».
Vi sentite confusi? Oggi è comprensibile, ma per gli italiani del ventennio fascista era assolutamente normale utilizzare questi termini, ovvero l’italianizzazione delle parole straniere, assolutamente proibite dal fascismo a partire dal 1923.
La comunità slovena subì per prima il fenomeno dell’Italianizzazione
Nel 1923, tre anni dopo il Trattato di Rapallo (che ridisegnò i confini dell’Italia nord-orientale annettendo Gorizia, Trieste, Pola e Zara), il regime fascista intraprese una politica di italianizzazione forzata nei confronti della comunità slovena. Politica che, successivamente, fu estesa a tutto lo stivale.
Con la legge n. 2185 del 1/10/1923, fu abolito l’insegnamento della lingua slovena nelle scuole. Non solo, parlare una lingua che non fosse l’Italiano (in questo caso la lingua slava) venne assolutamente vietato in tutti i luoghi pubblici. Ma non era abbastanza: anche la toponomastica subì l’italianizzazione. Migliaia di cognomi di origine slava e croata vennero modificati e tradotti in italiano.
La traduzione forzata dei termini stranieri
«Basta con gli usi e costumi dell’Italia umbertina, con le ridicole scimmiottature delle usanze straniere. Dobbiamo ritornare alla nostra tradizione, dobbiamo rinnegare, respingere le varie mode di Parigi o di Londra o d’America. Se mai, dovranno essere gli altri popoli a guardare a noi, come guardarono a Roma o all’Italia del Rinascimento… basta con gli abiti da società, coi tubi di stufa, le code, i pantaloni cascanti, i colletti duri, le parole ostrogote». Così riportava Il costume de Il Popolo d’Italia il 10 luglio 1938.
Che il grande sogno di Mussolini fosse quello di riportare Roma ai fasti del periodo imperiale è cosa nota; questa gloriosa rinascita doveva essere presente in ogni aspetto della vita degli italiani, soprattutto nella lingua. Basta “elemosinare” termini stranieri, basta copiare modi di dire e parole ai popoli inferiori. Cosa avrebbe pensato un imperatore romano se avesse sentito noi, i “Romani”, parlare utilizzando termini “barbari”? Tramite il controllo diretto su ogni organo di stampa, in poco tempo si favorì l’utilizzo e la diffusione dei nuovi termini italianizzati per volere del regime fascista.
Parole proibite e parole inventate: ci pensa D’Annunzio
Tra i numerosi linguisti e intellettuali favorevoli al processo di italianizzazione, non poteva di certo mancare il poeta-“vate”. Termini come velivolo e tramezzino (al posto di sandwich) ed espressioni come eja eja alalà! (al posto di hip hip hurrà) sono da attribuire proprio a Gabriele D’Annunzio. Furono più di 500 le parole tradotte in italiano, dai termini della sofisticata cucina francese ai termini inglesi utilizzati per lo sport, passando per i nomi propri di persona (George Washington divenne GiorgioVosintone, Louis Armstrong fu Luigi Braccioforte) e le città straniere come Buenos Aires, Buonaria.
Con la caduta del regime fascista molte di queste parole italianizzate tornarono alla loro forma “straniera” e nelle scuole dell’Italia nord-occidentale fu riammesso l’insegnamento bilingue. D’altra parte, in un mondo totalmente globalizzato come il nostro, il dizionario di parole da italianizzare dovrebbe essere aggiornato ogni giorno. E poi, il mondo sa già di che pasta solida sono fatti gli italiani, sono stati i ragazzi della nazionale di Palla al calcio a ricordarglielo!
In questo clima di ritrovata normalità, tutta l’Italia è riunita davanti agli schermi per tifare la nostra nazionale, i nostri Azzurri. Vi siete mai chiesti perché il colore che rappresenta l’Italia nello sport è l’azzurro? E sapevate che la maglia azzurra è stata indossata per la prima volta proprio dalla Nazionale Italiana di Calcio? L’azzurro, però, non è stato l’unico colore indossato dai calciatori. Nell’attesa della sfida tra Italia e Belgio, oggi 2 luglio 2021, ripercorriamo alcune tappe importanti della storia della Nazionale Italiana.
L’esordio della Nazionale Italiana di Calcio
15 maggio 1910, sul campo da gioco dell’Arena di Milano è tutto pronto per la prima sfida della neonata Nazionale Italiana. Il primo avversario dell’Italia è proprio l’avversario per eccellenza, l’eterna rivale d’oltralpe: la Francia. Negli spogliatoi non ci sono calciatori professionisti, non i campioni di oggi, macchine fisicamente perfette cresciute a pane e pallone. Un meccanico della Fiat, un ragioniere e uno studente universitario: sono loro i primi a indossare la maglia della Nazionale Italiana, la maglia bianca. L’esordio della Nazionale, infatti, avviene con una maglia bianca decorata dallo stemma dei regnanti di allora, i Savoia. Il colore della divisa non ha un particolare significato, fu scelto il bianco perché non si era ancora giunti ad un accordo sul colore ufficiale da adottare. L’ Italia scende così per la prima volta in campo e batte la Francia, 6 a 2.
Un azzurro intenso per la maglia della Nazionale: il blu Savoia
È il 6 gennaio 1911 quando la Nazionale Italiana, guidata dal CT Umberto Meazza, torna nell’ Arena di Milano, questa volta contro l’Ungheria. Il colore della maglia è cambiato: si è giunti a un accordo. La maglia adesso è di un azzurro intenso, colore con un nome particolare: blu Savoia, in onore della famiglia reale. Quell’azzurro, infatti, rappresentava il colore della casata regnante fin dal 1360. Alcune ipotesi vedevano l’azzurro in onore dei cieli e dei mari italiani, ma, a riprova delle origini monarchiche della maglia, sul lato sinistro di ognuna venne cucita una croce bianca in campo rosso, la croce sabauda. Il colore bianco, con il quale aveva esordito la Nazionale, rimase come seconda divisa e continuò a essere utilizzato negli altri sport. L’azzurro, infatti, si estese a tutte le discipline sportive italiane soltanto nel 1932, durante i giochi della X Olimpiade.
Mussolini colora di nero la maglia della Nazionale
Nel 1927 la maglia azzurra subisce una modifica. Accanto alla croce sabauda viene cucito un nuovo simbolo: il fascio littorio, per volontà di Benito Mussolini. Dopo il bronzo conquistato alle Olimpiadi di Amsterdam, nel 1934 l’Italia ospita i mondiali di calcio e sono proprio gli azzurri, quell’anno, a vincere la coppa del mondo. Quattro anni dopo, nel 1938, è la Francia a ospitare la terza edizione dei mondiali di calcio. Proprio a oltralpe si scrive una pagina nera del calcio italiano, nera in tutti i sensi. Il 12 giugno 1938, la Nazionale Italiana sfida quella Francese. Ma a scendere in campo, a Marsiglia, non sono gli Azzurri, non questa volta. Per la prima e unica volta, la Nazionale Italiana scende in campo con la maglia nera, pura propaganda fascista. Al saluto romano, fatto dai giocatori prima della partita, il pubblico risponde con i fischi. Nonostante il ritorno all’azzurro nelle partite successive, la Nazionale di quell’anno non suscita la simpatia del pubblico, in nessuna occasione. Ma se pensate che questo abbia demoralizzato i giocatori sbagliate, perché, anche quell’anno, l’Italia il mondiale lo vince!
L’Italia vittoriosa ai mondiali del 1934
Nasce la Repubblica, ma la maglia resta azzurra
1947, l’anno del cambiamento in Italia. Non c’è più la monarchia, non c’è più nemmeno la dittatura fascista. Ma una cosa è rimasta: la maglia azzurra. Solo che adesso sul lato sinistro non c’è più la croce sabauda e nemmeno il fascio littorio, sulla maglia della Nazionale adesso è cucito lo scudetto tricolore: è nata la Repubblica Italiana. Sullo scudetto tricolore, oggi, troviamo quattro stelle, simbolo dei quattro mondiali vinti nella storia della Nazionale. In Europa solo la Germania può vantare un simile primato.
La Nazionale Italiana di Calcio con la maglia azzurra e lo scudetto tricolore, Azzurri campioni del mondo nel 1982
28 aprile 1945: 76 anni dal giorno in cui Benito Mussolini venne giustiziato con la sua amante, Claretta Petacci, a Giulino di Mezzegra, in provincia di Como.
L’ultimo baluardo fascista
Nel dicembre del 1944 Mussolini ipotizzò una possibile ritirata in Valtellina, dove attuare l’ultima resistenza tramite il piano militare RAR (Ridotto Alpino Repubblicano). Il piano non venne mai eseguito a causa del mancato sostegno da parte di alcuni gerarchi fascisti e del ritardo nell’approvvigionamento di armamenti e vettovaglie.
Mussolini impegnato in un discorso
La fuga e l’arresto
Già a marzo del 1945 il dittatore tentò un primo tentativo di tregua con gli alleati anglo-americani tramite il cardinale di Milano Ildefonso Schuster; tentativo fallito a causa della richiesta di resa incondizionata fatta a Mussolini.
Il 19 aprile si stabilì nella prefettura di Milano. Lì, resosi conto che la situazione stava precipitando velocemente, cominciò ad intrattenere contatti con le autorità svizzere per un possibile asilo politico, ma quelle rifiutarono. In seguito, il 25 aprile (giorno dell’insurrezione di Milano), Mussolini fece un ultimo tentativo con il cardinale e i delegati del CLNAI (Comitato di liberazione nazionale Alta Italia) per evitare una fine rovinosa. Durante questo incontro il dittatore apprese anche che i tedeschi stavano trattando una tregua in segreto, rendendolo un uomo solo, senza alleati: decise quindi di abbandonare il “campo”. Se il piano fosse stato quello di espatriare in Svizzera o Germania o, più probabilmente, di tentare un ultimo baluardo difensivo in Valtellina per avere maggior tempo per trattare una tregua, non sarebbe stato sicuro.
25 aprile 1945: Mussolini abbandona la Prefettura di Milano; l’ultima foto che lo ritrae vivo
La sera del 25 aprile si mise in marcia verso Como; il giorno seguente, a Menaggio (CO), venne raggiunto dall’amante Claretta Petacci e lì si unì, insieme ai gerarchi fascisti che lo accompagnavano, ad un convoglio tedesco in ritirata. La colonna di automezzi venne fermata dalla 52esima brigata partigiana «Luigi Clerici»il 27 aprile a Dongo (CO), dove Mussolini venne riconosciuto e arrestato. L’ormai ex dittatore venne portato prima nella caserma della Guardia di Finanza di Germasino (CO), poi, per precauzione, venne portato con la Petacci a Bonzanigo (CO), dove passò l’ultima notte in un’abitazione di contadini, i De Maria.
L’annuncio al popolo
Venne annunciato l’arresto nello stesso giorno su Radio Milano Libera da Sandro Pertini: «Lavoratori, il fascismo è caduto. […] Il capo di questa associazione a delinquere, Mussolini, mentre giallo di livore e di paura tentava di varcare la frontiera svizzera, è stato arrestato. Egli dovrà essere consegnato a un tribunale del popolo perché lo giudichi per direttissima. E per tutte le vittime del fascismo e per il popolo italiano, dal fascismo gettato in tanta rovina, egli dovrà e sarà giustiziato. Questo noi vogliamo, nonostante pensiamo che per quest’uomo il plotone di esecuzione sia troppo onore. Egli meriterebbe di essere ucciso come un cane tignoso».
La morte del dittatore
Cancello di Villa Belmonte, Giulino di Mezzegra (CO)
Il 28 aprile alle 16.10Mussolini e la Petacci vennero fucilati davanti al cancello di Villa Belmonte, a Giulino di Mezzegra sul Lago di Como. Secondo la versione ufficiale, a compiere l’atto fu il colonnello partigiano Walter Audisio, conosciuto come “Valerio”, affiancato da altri due partigiani: Aldo Lampredi e Michele Moretti. La condanna non includeva la compagna del dittatore, ma, secondo le testimonianze, si aggrappò a lui nel momento degli spari. I corpi furono poi trasportati in piazzale Loreto, nel punto in cui circa 8 mesi prima erano stati fucilati 15 partigiani.
La Difesa della Razza era una rivista quindicinale, pubblicata il 6 agosto 1938 e diretta da Telesio Interlandi. Uomo da sempre aderente alle posizioni estreme del fascismo, era considerato il giornalista di fiducia del Duce, ricordato per la sua ferocia nelle campagne antisemite e razziste. La copertina del primo numero riportava la data del giorno precedente, il 5 agosto 1938. In quel giorno, il Ministro dell’Educazione Nazionale, Giuseppe Bottai, emetteva quattro circolari riguardanti la diffusione della rivista, indirizzate ai rettori e ai direttori degli Istituti superiori, ai presidenti degli Istituti d’arte, al presidente della Giunta centrale per gli studi storici e ai presidenti delle accademie e delle associazioni culturali. L’8 agosto, la Commissione ministeriale per gli acquisti delle pubblicazioni varava l’acquisto e la distribuzione di mille copie.
Copertina de La Difesa della Razza
I sostenitori della Rivista
La rivista non era solo sostenuta da Bottai ma anche da Dino Alfieri, Ministro della Cultura popolare e da Achille Starace, Segretario del Partito Nazionale Fascista. La rivista era rivolta ai ceti medi ed era stata pensata come vetrina del razzismo italiano, che avrebbe dovuto propagandare la superiorità della razza italiana in un momento focale della storia del fascismo, considerato che il 14 luglio 1938 era stato pubblicato il Manifesto degli scienziati razzisti.
La sede della redazione
Inizialmente la redazione della rivista era situata in Largo Cavalleggeri a Roma, per poi trovare, nel novembre del 1938, la sua sede definitiva a Palazzo Wedekind in Piazza Colonna. Questa sede era un punto importante, poiché crocevia di diversi simbolismi. Si ritrovava nel cuore della Roma degli Antonini e nei pressi della colonna di Marco Aurelio. Inoltre, le colonne del porticato provenivano dagli scavi archeologici di Veio. Da ciò, risulta ben chiaro come già la sola sede evocasse gli antichi fasti della romanità.
La prestigiosa sede della Rivista
Una grafica d’avanguardia
La rivista aveva una grafica curata e d’avanguardia, con una tiratura iniziale di circa 150.000 copie, distribuite nella quasi totalità dei casi a titolo gratuito con un prezzo di copertina basso, di appena una lira. Fondamentale risultava essere l’organicità della rivista, nel quadro della campagna razziale messa in atto dal fascismo. Ben presto però, il costo alto della tiratura, il basso prezzo di vendita e la prestigiosa sede porteranno i costi di produzione alle stelle, producendo saldi passivi coperti dal Ministero della Cultura Popolare. Nel secondo semestre del 1940 la tiratura si ridusse, attestandosi a circa 20.000 copie, ma il saldo passivo continuava ad essere alto. Così, a partire dal 1º dicembre 1940, Mussolini incaricava il ministero di ridurre le spese e, con i nuovi accordi, la gestione della rivista veniva direttamente assunta dall’Istituto di arti grafiche Tumminelli e il numero delle pagine veniva ridotto.
Alcune copertine de La Difesa della Razza
Lo strumento del regime
La Difesa della Razza rimase in vita durante gli anni della guerra, rappresentando un ausilio importante e strategico per la propaganda di regime. Cessò le pubblicazioni con la caduta del fascismo nel giugno-luglio del 1943. I membri più importanti del comitato di redazione furono Guido Landra, Lidio Cipriani, Lino Businco, Leone Franzì e Marcello Ricci, che esaltavano lo stretto legame esistente tra la genesi della rivista e le vicende del Manifesto della Razza del 14 luglio 1938.
Il Manifesto della Razza, 14 luglio 1938
Scienza, Documentazione e Politica
La Difesa della Razza era caratterizzata dall’uso spregiudicato delle immagini, rivolte sempre a contrapporre la razza ariana a quelle “imbastardite”. Si articolava in tre sezioni, di cui la prima incentrata sulla Scienza: «Dimostreremo che la scienza è con noi; perché noi siamo con la vita e la scienza non è che la sistemazione di concetti e di nozioni nascenti dal perenne fluire della vita dell’uomo». Alla Scienza seguiva la Documentazione, tesa a dimostrare «quali sono le forze che si oppongono all’affermazione d’un razzismo italiano, perché si oppongono, da chi sono mosse, che cosa valgono, come possono esser distrutte e come saranno distrutte». Infine, la Polemica, ovvero la battaglia «contro le menzogne, le insinuazioni, le deformazioni, le falsità, le stupidità che accompagneranno questa affermazione fascista dell’orgoglio razziale».
Per Interlandi la polemica sarà il “sale nel pane della scienza, quindicinalmente spezzato”.
Il progetto della Città universitaria era simbolo del fascismo e della Roma intera. Il complesso, inaugurato il 21 Aprile del 1935, rappresentò un’impresa importante per il regime perché Mussolini decise di concentrare gli edifici in un’unica zona, esaminare e modificare i diversi disegni e visitare spesso il cantiere. Il complesso diveniva un’opera creata per il popolo e dal popolo veniva in qualche modo santificata.
Una progettazione collettiva
Mussolini affidava a Marcello Piacentini, accademico d’Italia, il compito di realizzare questo grande complesso di edifici che doveva costituire non solo l’Università di Roma ma il più grande centro studi dell’Italia e del Mediterraneo. Insieme a Piacentini, molti altri erano gli architetti chiamati dal Duce a collaborare in modo che risultasse un’impresa di progettazione collettiva. Nonostante l’operato dei diversi architetti, viene realizzata un’unità di stile poiché si ricorre al tipo classico della basilica e ad elementi architettonici comuni, come l’uso delle stesse finestre e degli stessi materiali di rivestimento come il travertino e l’intonaco giallo o rosso.
L’impostazione architettonica
Il terreno scelto, a forma quadrangolare, è situato tra i Viali del Policlinico, dell’Università e della Regina. I diversi istituti si raggruppano intorno ad uno spazio vuoto centrale, centro del progetto. Un progetto essenziale, con visioni monumentali, viali e giardini. L’ingresso monumentale, formato da alti e solenni propilei, si apre verso il Viale del Policlinico, largo 60 m, delimitato dagli edifici delle diverse facoltà. Di fronte al Viale, sul suo asse e posto a chiudere il lato lungo del Foro, si erge l’edificio del Rettorato e della Biblioteca, che forma con gli edifici di Lettere e Giurisprudenza un complesso unitario. Il viale alberato confluisce in un ampio spazio trasversale, una piazza di 68 x 240 m, dimensioni simili a quelle di Piazza Navona. Alle due estremità si ergono gli Istituti di Matematica di Giò Ponti e l’Istituto di Mineralogia, Geologia e Paleontologia di Giovanni Michelucci. Nella parte posteriore, nei pressi dell’aula Magna, si apriva un vasto piazzale utilizzato per le adunate e le diverse cerimonie. Molte le zone destinate a parchi e giardini, come il quadriportico costruito sulla sinistra del viale. Il pronao, i pilastri di travertino, le grandi finestre incorniciate di marmo rosso, la statua della Minerva posta di fronte all’atrio rappresentano un’armonia di forma e di valori.
Planimetria generale
Il grande viale visto dall’edificio del Rettorato
Il portico d’ingresso visto dall’esterno
La tecnica costruttiva degli edifici
La costruzione degli edifici era ad ingabbiatura di cemento armato con le fondazioni costituite da pali di cemento. Le facciate esterne erano rivestite con cortina di litoceramica e travertino romano. Molte le applicazioni speciali, come rivestimenti di mattoni in vetro, solai leggeri in cemento armato o pensiline di vetro-cemento.
L’edificio del rettorato con la statua della Minerva
Architettura come stile di epoca fascista
La Città universitaria costituisce un esperimento di collaborazione e coordinamento ben riuscito che verrà riproposto con l’E42. L’architettura semplice non rinuncia alla modernità nata in un clima classico e mediterraneo. Un compromesso politico e artistico: il punto di equilibrio sarà poi trovato a seconda degli orientamenti e delle necessità che il Regime richiedeva alla realizzazione di un’architettura moderna come stile di un’epoca fascista, un’arte di Stato.
Il progetto dell’E42 rappresenta l’episodio più importante della volontà fascista con la cui costruzione viene data una svolta al rapporto tra regime e architettura. Il Duce identifica la “città mussoliniana” con l’architettura che richiama la classicità romana. Il progetto nasce dall’idea di Giuseppe Bottai, Governatore di Roma che prospettò nel 1935 a Mussolini l’intenzione di organizzare a Roma un’Esposizione Universale. L’intento era creare un’“Olimpiade delle Civiltà”, che avrebbe dovuto sancire l’approdo dell’Italia ad una pace e confrontarsi a livello culturale con le altre nazioni. L’Esposizione è denominata E42 poiché termine dei lavori è il 1942, ventennale della presa del potere da parte dei fascisti.
La sede dell’E42
L’ E42 è un progetto costituito da edifici permanenti, ad eccezione del Palazzo delle Acque, della Luce e del Turismo, che dovevano lasciare il posto ad un ulteriore espansione della città. Venne scelta un’area di circa 400 ettari, situata nella zona sud di Roma, in prossimità dell’abbazia delle Tre Fontane, intensificando così i collegamenti tra la città e il mare.
L’équipe del progetto
Mussolini nomina come commissario Vittorio Cini, uomo proveniente dall’ambito dell’industria e della finanza, e sceglie personalmente i sei architetti a cui affidare la realizzazione del progetto: Pagano, Piacentini, Piccinato, Muzio, Rossi e Vietti. La costruzione dell’E42 coinvolse tutti, non solo gli addetti ai lavori. Il Duce in quest’occasione parla di pace e di collaborazione tra le Nazioni, ma in realtà mira al successo economico per rinforzare le casse dello Stato e far fronte all’impegno bellico, previsto non prima del 1943-1944.
Il castrum romano
L’E42 fu concepito con lo schema tipico dei castra romani, con palazzi di vetro e acciaio, tutti riferibili ad un unico stile, lo “stile E42” della XX Era Fascista. Un’espressione che rivelava le tendenze di un’epoca, quindi sentimento classico, monumentalità e grandiosità.
Progetto urbanistico dell’E42
Nella seconda versione del progetto, redatta nel 1938, Piacentini assunse il controllo diretto dell’operazione. L’architetto usò stilemi classici come l’arco, il colonnato e l’esedra. Ci si trovava di fronte ad un’atmosfera quasi sospesa, tendente alla solennità. Gran parte della superficie, poi, era occupata da parchi e giardini.
L’intero progetto era impostato sul sistema di cardo e decumano massimo: il cardo era la via dell’Impero, che avrebbe congiunto Roma al mare, mentre il decumano era l’asse che metteva in comunicazione il Palazzo dei Congressi con il Palazzo della Civiltà e del Lavoro. All’incrocio delle due strade, si innesta la Piazza Imperiale, cuore scenografico di tutto il progetto, con l’affaccio dei quattro palazzi simmetrici che dovevano ospitare i Musei delle Arti e delle Tradizioni Popolari e il Museo della Scienza. Questo tipo di sistema richiama l’acropoli di Selinunte e l’agorà di Mileto, mentre la forma pentagonale dell’impianto è ispirata alla pianta di Versailles di Blondel; infine, le aree verdi ricordano quelle di Villa Aldobrandini a Frascati.
La Porta imperiale e la Porta del Mare
Gli accessi monumentali erano la Porta Imperiale e la Porta del Mare, che conducevano agli ingressi dell’Esposizione. Per la Porta Imperiale, gli architetti inizialmente avevano pensato ad una sequenza allineata di torri, ma poi si optò per una fascia di fontane. Purtroppo, l’interruzione dei lavori a causa della guerra ne impedì la realizzazione. La Porta del Mare, invece, era un arco monumentale che avrebbe dovuto attraversare la Via Imperiale, a sud del lago artificiale. Tra i diversi progetti presentati fu approvato quello dell’ingegnere Covre, due archi in lega di alluminio di 200 e 320 m di luce. Il progetto definitivo venne completato nel marzo del 1941, troppo tardi per realizzare i lavori.
Progetto della Porta del Mare di Adalberto Libera, 1942
I Palazzi dell’INA e dell’INPS
La struttura definitiva dell’Esposizione comportò diverse modifiche nella sistemazione del primo piazzale d’ingresso, con l’introduzione delle due esedre contrapposte che davano forma ai due edifici dell’INA e dell’INPS, nella zona del grande bacino artificiale del lago, in cui si scorge un riferimento ai Mercati di Traiano. Il doppio colonnato delle esedre non aveva una funzione statica, ma solo decorativa ed era realizzato in marmo. Inoltre, i due palazzi erano ornati con quattro colossali bassorilievi di forma quadrata.
Palazzo dell’INA, EUR
L’EUR negli anni Cinquanta
Nel 1940, a causa dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, molti monumenti dell’E42 non furono completati e l’immenso cantiere viene abbandonato, assumendo un aspetto quasi spettrale. I lavori furono ripresi, sotto la guida di Virgilio Testa, Segretario generale del Governatorato di Roma, soltanto negli anni ’50. L’intera area, ribattezzata EUR, fu trasformata in un quartiere per uffici e residenze e divenne la sede delle Olimpiadi nel 1960.
La zona dell’EUR negli anni Cinquanta
L’architettura dell’E42
L’architettura dell’E42 si rivolge alle masse. Rappresentava uno strumento di educazione delle stesse in senso fascista e testimonianza della missione di civiltà. L’architettura dell’Impero simboleggiava il mito della romanità, cogliendo immediatamente il legame tra la modernità del presente e la tradizione romana antica. Nell’antica Roma il Duce vede il modello di un rapporto tra l’individuo-artista e la collettività, da riprendere e inquadrare nella concezione totalitaria dello Stato.
Mussolini aveva utilizzato il mito di Roma per fornire una legittimazione storica al fascismo. Il richiamo al passato si riscontrava nelle spoliazioni eseguite dal Duce per riportare alla luce i fasti dell’antica Roma. Uno dei luoghi più importanti del regime fascista era il Foro di Mussolini. Progettato da Enrico Del Debbio, fu uno dei luoghi creati per durare nel tempo. Mantenne intatta la sua funzione originaria e simbolica per la qualità architettonica e per il nome stesso, Foro Italico, con cui era stato denominato a partire dall’agosto del 1943.
Veduta aerea del Foro Mussolini
L’ubicazione del complesso
Il luogo scelto per la costruzione del Foro Mussolini è la piana della Farnesina, tra Ponte Milvio e i quartieri di Piazza D’Armi, cui fanno da corona le colline di Monte Mario e Macchia. Luogo in cui la vegetazione e il silenzio dei boschi contribuivano a creare una sorta di immaginario classico in cui di solito erano situati stadi e teatri. Un luogo non scelto a caso: infatti, la via Flaminia collega il Foro con il centro della città tramite il ponte Duca d’Aosta, che funge da direttrice. Un luogo, però, anche considerato malsano, fino al momento della costruzione del Foro, per il ristagno delle acque e per la difficoltà degli scoli verso il Tevere. Per questo motivo, tutta l’area fu rialzata di 5 metri.
Il richiamo all’antico
Per la costruzione del Foro viene ripreso il concetto dell’antico Gymnasium, ampliato e modernizzato. Del Debbio non crea un foro alla maniera classica, con colonnati, archi e mura scenografiche, ma edifici corrispondenti alla concezione moderna della loro funzione. Esempio di questo sono gli edifici centrali dell’Opera Nazionale Balilla, dove gli adolescenti italiani avevano a disposizione tutto ciò di cui avevano bisogno per l’addestramento e l’educazione fisica. Il Duce, come i grandi imperatori romani, si fece costruire il proprio foro richiamando il mito del “nuovo Cesare”. Il Foro Mussolini era, dunque, un insieme monumentale che si riallacciava, per ricchezza di marmi, opere d’arte e per grandiosità di linee, ai più solenni monumenti dell’antichità romana. Attraverso di esso si voleva celebrare la bellezza, creando un’opera immortale, grazie all’utilizzo del marmo di Carrara, di un bianco candido, che si adattava perfettamente al verde delle pendici del Monte Mario.
L’impianto architettonico del Foro
L’Accademia fascista di Educazione fisica
Il Foro di Mussolini aveva una funzione pedagogica, sportiva, politica, monumentale e simbolica. Era costituito da un nucleo centrale, l’Accademia fascista di Educazione fisica, composto da due blocchi simmetrici, congiunti tra loro da un blocco centrale trasversale. L’edificio era intonacato di rosso pompeiano, con finestre incorniciate da sottili colonne, sormontate da timpani spezzati di marmo bianco.
L’Accademia fascista di Educazione fisica
Lo Stadio dei Marmi
Attraverso un passaggio, si accedeva allo Stadio dei Marmi, costituito da 10 ordini di gradinate, ricavate grazie al dislivello derivato dai rinterri della zona. La capacità dello Stadio era di circa 200.000 persone. Le fondazioni dell’edificio erano in cemento armato, mentre l’ossatura di sostegno delle gradinate, in muratura di tufo e mattoni. Le gradinate erano in blocchi di marmo bianco di Carrara e ospitavano 60 statue, di 4 m di altezza, poste a coronamento, sopra basamenti alti 1,20 m e 2 m di diametro. Le statue rappresentavano degli atleti, intenti in varie azioni di gioco, e furono donate dalle Province italiane. A completamento della parte scultorea, in corrispondenza delle testate degli ingressi, vi erano due nicchie in cui erano poste due statue bronzee, mentre ai lati della tribuna d’onore si ergevano due gruppi di lottatori in bronzo.
Ingresso dello Stadio dei marmi
Le gradinate e le statue di marmo dello stadio
Il monolite di Mussolini
Il monolite di Mussolini
L’ingresso al Foro era caratterizzato dalla presenza di un grande obelisco in marmo di Carrara, eretto nel 1932. Realizzato a partire dai disegni di Costantino Costantini, è il più grande blocco di marmo mai estratto dalle Alpi Apuane. L’intero progetto descrive uno spazio solenne, il cuore dell’intero complesso del Foro, ulteriore dimostrazione di come Mussolini prendesse ispirazione dalle maestose architetture della Roma imperiale per manifestare il potere fascista. Inizialmente posto al centro del Foro, venne poi spostato all’ingresso.
Il Viale del Foro Italico
Posizionato tra il monolite e la Fontana della Sfera è il viale del Foro italico. Realizzato nel 1937, è decorato con mosaici in bianco e nero che, insieme con i simboli e le parole d’ordine del regime, illustrano le fasi storiche della conquista del potere, i Balilla, la sottomissione dell’Etiopia, le arti, le attività sportive e le realizzazioni del regime. I tasselli utilizzati sono gli stessi in uso nell’antica Roma, della dimensione di circa un centimetro.
Planimetria generale del Viale
Mosaici del Viale
La Fontana della Sfera
All’estremità occidentale del piazzale sorge la Fontana della Sfera. È costituita da un’ampia vasca circolare di 3 metri di diametro e da una grande sfera, realizzata da un unico blocco di marmo proveniente dalle cave di Carrara. Il bacino anulare della fontana è decorato con mosaico a tessere di marmo bianche e nere con soggetti marini.
Piazza della Fontana della sfera in asse con il monolite
Lo Stadio dei Cipressi
Alle spalle dell’Accademia c’è lo Stadio dei Cipressi, formato da terrazze tagliate nel fianco della collina, con una capienza di centomila spettatori. Durante la guerra il cantiere fu abbandonato e venne utilizzato come autoparco dalle truppe alleate fino al 1949. Poi, il CONI, suo proprietario, affidò il progetto di completamento ad Annibale Vitellozzi, che lo ultimò nel 1953. Dopo la riapertura era noto come “Stadio dei Centomila”, vista la sua capienza, ma fu ribattezzato “Stadio Olimpico” quando, nel 1960, vennero assegnati a Roma i giochi della XVII Olimpiade.
Lo Stadio dei Centomila
La parte meridionale del Foro
In posizione simmetrica rispetto all’Accademia Fascista si colloca l’edificio destinato alle Terme e all’Accademia di musica, realizzato nel 1937. Ci sono poi gli impianti sportivi dedicati al tennis, che consistevano nel monumentale Stadio Olimpionico, uno stadio contenente 6 campi di allenamento ed una palazzina adibita agli ambienti di servizio dei due campi. Il lato meridionale del Foro si concludeva con la Casa delle Armi, assegnata alla disciplina della scherma, e le foresterie usate per ospitare gli atleti.
Lo Stadio Olimpionico
Veduta della Casa delle Armi
Il Foro di Mussolini è uno dei maggiori interventi urbanistici realizzati durante il regime e tutte le sue opere devono essere valutate dal punto di vista architettonico. Nato inizialmente come Foro dello Sport diverrà uno dei luoghi di mobilitazione di massa assumendo una grande valenza politica e simbolica. Anche lo sport viene utilizzato come strumento di propaganda, capace di far presa sugli uomini. Il coraggio, il sacrificio, la volontà, la forza, aspetti tipici dello sport diventano caratteri identificativi della razza italiana e costituenti del nuovo uomo mussoliniano
Durante il ventennio fascista il teatro e, in particolare il cinema, dovevano adattarsi ad una nuova mentalità, quella del regime di massa. Uno degli esempi più importanti è sicuramente la produzione di “Scipione l’Africano”. Il film kolossal del 1936-1937, diretto da Carmine Gallone, esaltava la potenza imperiale di Roma identificata con quella fascista e sovrapponeva la figura di Mussolini vincitore sugli Etiopi a quella del condottiero romano.
Locandina di “Scipione l’Africano” (1936-1937)
Carmine Gallone, regista cosmopolita
Carmine Gallone fu definito dalla critica “regista cosmopolita” per i suoi lavori all’estero, svolti tra il 1926 e il 1935. Girò centinaia di film tra muto e sonoro. Ebbe grande padronanza delle innovazioni tecniche come il lungometraggio, il sonoro, il playback nei film d’opera, l’introduzione del colore e i cambiamenti di stile dai film veristi ai film storici.
Il regista Carmine Gallone
La trama di “Scipione l’Africano”
“Scipione l’Africano” ricostruiva le vicende della seconda guerra punica, dalla partenza di Scipione per l’Africa nel 207 a.C. alla battaglia di Zama del 202 a.C. Il console Scipione, adorato dal popolo romano, ottiene dal Senato il controllo della provincia di Sicilia e prepara la campagna militare contro l’esercito cartaginese. I veterani della battaglia di Canne raggiungono le truppe in partenza mentre un gran numero di volontari accorre da ogni parte. Nel frattempo, Annibale è bloccato nel Bruttium a causa della mancanza di viveri, così le sue truppe saccheggiano villaggi e raccolti. I soldati fanno irruzione nella villa di Velia, una nobile romana e la fanno prigioniera insieme al fidanzato Arunte e alla servitù. A Cirta, Sofonisba, la figlia di Asdrubale, spinge il marito Siface ad allearsi con i Cartaginesi. Scipione, dopo aver assediato Utica e sconfitto l’esercito di Asdrubale e Siface, si prepara ad affrontare Annibale, che lascia l’Italia per difendere Cartagine. Velia e Arunte riescono a fuggire e a raggiungere l’accampamento di Scipione. I due condottieri si affrontano, Scipione su un cavallo bianco, Annibale su di uno nero. Gli elefanti ostacolano i soldati romani, ma l’unione tra cavalleria e fanteria garantisce la vittoria. Annibale fugge insieme a pochi altri sopravvissuti mentre Scipione, avendo così vendicato la disfatta di Canne, fa ritorno a Roma, dove viene celebrato con una festa notturna.
Scena tratta da “Scipione l’Africano” (1937)
Il giudizio della critica
Scipione l’Africano” fu realizzato in dieci mesi di lavoro e costò circa otto milioni di lire. Costituiva il maggior sforzo organizzativo realizzato dall’industria cinematografica per l’impiego di masse, per la fastosità degli interni e per le imponenti ricostruzioni. Nonostante ciò, fu considerato dalla critica dell’epoca un totale fallimento per diversi motivi: rappresentava un film d’opera sia per la costruzione drammaturgica e le comparse (come il coro) che per la musica e la recitazione teatrale; non esisteva collaborazione tra i vari, anzi troppi, aiuto-registi; altri puntavano il dito contro la produzione e non il regista, considerato soltanto un coordinatore. Negativa era considerata l’interpretazione di Annibale Ninchi nel ruolo di Scipione, non amato dalla folla, poco carismatico. Non riusciva a trasportare sullo schermo la figura forte e audace del condottiero romano, al contrario del personaggio di Annibale interpretato da Camillo Pilotto. La cattiva interpretazione della figura di Scipione accentuò di conseguenza il carattere melodrammatico del film. Si leggeva chiaramente la differenza con i kolossal americani, che erano basati su regole ferree e divisioni di compiti supervisionati dal produttore. Giudizi abbastanza duri su “Scipione l’Africano” si riscontravano anche nella critica moderna. Carlo Lizzani scriveva:
Scipione l’Africano è il classico colosso d’argilla che vorrebbe glorificare impossibili parentele fra fascismo e romanità. Tanto è ridondante il film, quanto provinciale e penosa l’illusione di Mussolini di rassomigliare ai Cesari.
Scipione l’Africano (1937). Carlo Nicchi, Fosco Giachetti, Francesca Bragiotti
Un progetto di stampo politico
Il film, voluto da Mussolini, doveva essere una sfida produttiva e spettacolare, in competizione con la cinematografia americana, e fu l’occasione per mettere in risalto la conquista d’Etiopia e l’impero coloniale nato ad opera del Duce. Scipione non doveva essere solo un film, ma un kolossal in grado di essere superiore a tutte le altre pellicole girate fino a quel momento. Il progetto Scipione era semplicemente un progetto a stampo politico, non era stato creato per lo spettacolo e Gallone, ingenuamente, accettò consigli e suggerimenti da tutti, soprattutto da coloro i quali vedevano il mondo del cinema e, in generale, dello spettacolo solo come un mezzo di propaganda per il consenso politico. Ciò spiegava il motivo per il quale Mussolini scelse come regista proprio Gallone: regista con esperienza, soprattutto estera, capace di adattarsi ad ogni circostanza e soprattutto politicamente accondiscendente.
Mussolini sul set del film
Mussolini come Scipione l’Africano
“Scipione l’Africano” era un film realizzato per celebrare i fasti dell’antica e della nuova Roma e due importanti personalità Scipione e Mussolini che, nonostante il divario cronologico, avevano compiuto la medesima impresa. Mentre Scipione aveva sconfitto una delle massime potenze della propria epoca, Mussolini aveva usato tecnologie avanzate per distruggere un esercito, sotto quel punto di vista, arretrato. Dopo la vittoriosa impresa africana, il fascismo si presentava come una nuova potenza imperiale. Una potenza che aveva cambiato le sorti dell’Italia, che da paese arretrato diveniva potenza economica e militare. L’impresa africana soddisfaceva le masse, perché in quelle regioni subalterne avrebbero trovato il lavoro e la terra che da tempo cercavano. Il continente africano era visto come un mito sognato da molto tempo e ottenuto solo grazie a Benito Mussolini. La vittoria africana risollevò il morale nazionalistico, ma sul piano storico ci furono esiti negativi in merito ai rapporti internazionali. L’Italia si andava allontanando dalle democrazie occidentali avvicinandosi sempre più alla Germania nazista di Hitler; la seconda guerra mondiale spazzerà via il ricordo delle conquiste coloniali, che erano state fin da subito paragonate alle conquiste dell’Impero Romano. Scipione era considerato un film che univa gli Italiani e che spronava al consenso politico nei confronti del fascismo e del Duce.
27 ottobre 1937. Il pubblico in attesa di assistere alla visione del film davanti al teatro Barberini di Roma
La contrapposizione tra società romana e cartaginese
La realizzazione di Scipione l’Africano portava inevitabilmente al lancio della figura del condottiero romano e, di conseguenza, Mussolini diveniva il massimo protagonista. La figura del Duce si caricava di un alone mistico, quasi di una luce divina. Il film inseriva al suo interno una notevole quantità di simboli e metteva anche in contrapposizione la società romana con quella cartaginese: i Romani erano presentati come modello di disciplina, mentre i cartaginesi come persone “odiose” che non rispettavano la tregua e feroci con le donne. La società cartaginese era priva di principi morali e dominata soltanto dal dio denaro, come al tempo di Mussolini era considerata l’Inghilterra. Al contrario, la società romana, dopo la presa del potere da parte di Scipione, era compatta e costruttiva, basata sul consenso popolare. Scipione come Mussolini, era considerato un predestinato, un capo naturale che aveva un rapporto privilegiato con il popolo.
Una classicità fasulla
Scipione fu un insuccesso su più fronti. Il film rappresentava la fine del filone dei “film di massa” e Garrone, nonostante la lunga e soddisfacente carriera rimarrà etichettato, per sempre, come il regista di Scipione l’Africano. La produzione di Scipione mostra come il mito di Roma antica sia stato largamente utilizzato dalla propaganda fascista e come sia stato modificato e plasmato secondo le sole idee di Mussolini. Un uso del passato, però, che rischiava di ridurre la storia a mito, che conduceva a una classicità fasulla, svuotata di contenuto e ridotta a semplice estetica celebrativa.
Mussolini si ispirava alla Roma dell’antichità formata dai “romani puri”. Credeva in una nuova romanità, autoritaria ed imperiale. All’inizio della Grande Guerra, abbandonò il socialismo per convertirsi all’interventismo e al mito di Roma. Soltanto nel 1921 la romanità divenne la principale fisionomia simbolica del fascismo, che adottò per definire la sua individualità politica, il suo stile di vita e di lotta. Mussolini elaborò l’idea di una nuova “romanità fascista”, che si concentrava sul recupero di alcuni elementi della Roma antica: non solo i più famosi “passo romano” o “fascio littorio”, ma tanto altro.
Il bassorilievo di Publio Morbiducci
La corrispondenza della romanità fascista col modello storico romano era in molti casi arbitraria, immaginaria ed inesistente. La propaganda fascista eseguì una vera e propria distorsione della storia, concentrandosi, in particolare, solo sul recupero di elementi importanti della classicità, come si evince in maniera emblematica dal bassorilievo, realizzato da Publio Morbiducci nel 1939, nell’atrio del Palazzo degli Uffici dell’Eur. Quest’opera, realizzata in lastre di travertino, illustrava attraverso una serie di edifici rappresentativi la storia di Roma, dalle origini mitiche fino ad arrivare alla rappresentazione di Mussolini a cavallo acclamato da due fanciulli. L’intento propagandistico era evidente, poiché l’autore, ispirandosi al modello della Colonna Traiana, rappresentava i fasti del regime come il momento culminante cui tutta la storia di Roma era profeticamente tesa.
Il bassorilievo di Publio Morbiducci
Bassorilievo di Publio Morbiducci, particolare di Benito Mussolini
Le mappe marmoree di Antonio Munõz
Ulteriore recupero di elementi classici erano le mappe marmoree, affisse per iniziativa di Antonio Munõz, Ispettore Generale delle Antichità, sul muro settentrionale della Basilica di Massenzio, ispirate senz’ombra di dubbio alla Forma Urbis Romae. Nel 1934 vi vennero collocate quattro mappe, che rappresentavano le varie fasi dell’espansionismo romano, dalla fondazione dell’Urbe al principato di Traiano. Nel 1936 se ne aggiunse una quinta, sulla quale erano riportati i nuovi confini dell’Impero fascista all’indomani della conquista d’Etiopia.
La quinta mappa di Antonio Munõz
Il Natalis Urbis – 21 Aprile
Esemplificativo recupero di elementi classici del glorioso passato romano era la commemorazione del Natale di Roma, associato all’atto di nascita della civiltà italiana, il 21 aprile. In realtà, il significato del 21 aprile venne modificato radicalmente dal fascismo, che lo adattò alle proprie necessità ideologiche, eliminandone del tutto il contesto storico. Come ricordava Aulo Persio Flacco, scrittore dell’età di Nerone, il 21 aprile era una festa della natura, consacrata ai Pales, divinità protettrice degli allevatori e del bestiame. Soltanto nel 121 d.C. sarà elevata da Adriano a Natalis Urbis, con la trasformazione della festa dei Parilia (o Palilia) in Romaia, connessa alla fondazione della città di Roma da parte di Romolo nel 753 a.C.
Il regime fascista non tenne minimamente conto della complessità sottesa in antico al 21 aprile e Mussolini finirà per dare a una delle feste più antiche di Roma una connotazione razzista. Sulla famigerata Difesa della Razza, venne pubblicato un fotomontaggio, rappresentante un’immagine tripartita che ritraeva sul lato sinistro un “legionario romano del tempo di Giulio Cesare” e su quello destro un “legionario romano del tempo di Mussolini”. Al centro era posta la lupa capitolina che, circondata da insegne romane e dai gonfaloni dei fasci di combattimento, campeggiava sulla mappa dell’Impero fascista di Munõz; sul registro superiore si trovava la legenda: “Natale di Roma Festa della razza italica”. Nasceva così una comparazione inconsistente tra il legionario romano e il soldato italiano e indirettamente la sovrapposizione tra Cesare e il Duce.
Natale di Roma, Festa della Razza italica. Da La Difesa della Razza, III, 12, 1940
La modifica del calendario e il sulcus primigenius
Mussolini iniziò anche ad incarnare alcune consuetudini tipiche degli eroi e dei capi del passato. Dal 1926, considerato il fondatore della Terza Roma, modificò il calendario, così come avevano fatto prima di lui Romolo e Augusto. Iniziò a segnare con un aratro meccanico i confini delle nuove colonie fasciste dell’Agro pontino, tracciando un moderno pomerium, che faceva sicuramente riferimento al sulcus primigenius.
Queste posizioni prese dal regime erano alquanto estreme e trovarono il loro culmine nella fondazione della Scuola mistica nel 1930 ad opera di Niccolò Giani. Motto della Scuola era “Per orbis unionem sub Lictorii signo”, il cui scopo era forgiare la futura classe dirigente del Partito Nazionale Fascista facendo rivivere il fascismo dei primi anni, quello della trincea. La mistica rappresentava per i fascisti un vero e proprio anelito verso una vita alta e piena. Era un’ispirazione a migliorarsi, a progredire e costituiva la forza stessa della giovinezza fascista.
La distorsione del concetto di romanitas giunse a dei livelli grotteschi con la traduzione in latino dei discorsi del Duce, come quelli etiopici raccolti da Nicola Festa. Era la triplice invocazione agli Italiani, che ad ogni inizio suonava alle nostre orecchie come tre squilli attenti: “Camicie nere della Rivoluzione! Uomini e donne di tutta Italia! Italiani sparsi pel mondo, oltre i monti e oltre i mari: ascoltate!”, che diviene in latino “Nigra subucula induti vos novi rerum ordinis auctores! Italiae universae cives utriusque sexus! Itali per terram orbem trans montes trans maria dispersi: audite!”
La campagna di Etiopia e il tema del cittadino-soldato
Il rapporto tra romanità e fascismo era utilizzato anche come giustificazione ideologica della politica coloniale e, in particolar modo, della vittoriosa campagna di Etiopia del 1911. L’impresa coincideva con l’anno in cui in Italia si commemorava il primo cinquantenario dell’unità, celebrato in maniera solenne con la Mostra Archeologica alle Terme di Diocleziano. La mostra, organizzata da Rodolfo Lanciani, forniva una panoramica delle antiche province create da Roma e ad ognuno dei rispettivi stati moderni si chiedeva testimonianza del loro passato romano; inoltre, intendeva mostrare un quadro, pur se sintetico, dei progressi raggiunti dall’Italia in campo archeologico.
Per la dottrina fascista, il colonialismo diventava un’esigenza vitale, che creava posti di lavoro ed evitava l’emigrazione in terra straniera. Mussolini potenziò il richiamo all’idea romana di “impero”, permettendo alla pubblicistica di distinguere un imperialismo “sconveniente”, rivolto solo allo sfruttamento delle regioni, da un imperialismo “giusto”, come quello fascista, che aveva la sola necessità di acquisire terre da affidare alla popolazione italiana in eccesso. Soggetto principale della propaganda coloniale fascista era il tema del cittadino-soldato. Mussolini cercò di sovrapporre la tematica guerriera a quella rurale, la politica agraria di Roma antica su quella della sua Italia. In realtà, come ben sappiamo, nella Roma antica si elaborò un sistema religioso-rituale che facesse in modo che nessuno dei due piani interferisse con l’altro; invece, il regime fascista considerava la dimensione agraria strettamente connessa a quella militare.
Esempio significativo ne è la cartolina “Pane per la vittoria”, realizzata da Luigi Martinati per il Ministero dell’Agricoltura e delle Risorse, ispirata proprio a questo modello. In primo piano era raffigurato un contadino intento nella semina e, sullo sfondo, un soldato che lanciava una granata, mentre in alto campeggiava la dicitura: “Il dovere dei rurali, seminare molto e bene”.
Cartolina “Pane per la vittoria”, 1940
Il fascismo aveva “fascistizzato” la Roma antica, la sua storia e il suo mito, in sostanza le sue vestigia fondamentali, utilizzandole secondo le esigenze della nuova Roma fascista.
BACK TO FASCISM | The reference to the concept of “romanitas”
Mussolini was inspired by the Rome of antiquity formed by the “pure Romans”. He believed in a new authoritarian and imperial Romanity. At the beginning of the Great War, he abandoned socialism to convert to interventionism and the myth of Rome. Only in 1921 Romanity become the main symbolic physiognomy of Fascism, which it adopted to define its political individuality, its way of life and struggle. Mussolini elaborated the idea of a new “fascist Romanity”, which focused on the recovery of some elements of ancient Rome: not only the most famous “Roman step” or “fascio littorio”, but much more.
The bas-relief of Publio Morbiducci
The correspondence of Fascist Romanity with the Roman historical model was in many cases arbitrary, imaginary and non-existent. Fascist propaganda carried out a real distortion of history, concentrating, in particular, only on the recovery of important elements of classicism, as can be seen in an emblematic way from the bas-relief, made by Publio Morbiducci in 1939, in the atrium of the Eur Office Palace. This work, made of travertine slabs, illustrated through a series of buildings representing the history of Rome, from its mythical origins to the representation of Mussolini on horseback acclaimed by two children. The propaganda aim was evident, since the author, inspired by the model of the Trajan Column, represented the splendour of the regime as the culminating moment to which the whole history of Rome was prophetically strained.
The marble maps by Antonio Munõz
Further recovery of classical elements were the marble maps, posted by Antonio Munõz, General Inspector of Antiquities, on the northern wall of the Basilica of Maxentius, inspired by the Forma Urbis Romae. In 1934 four maps were placed there, representing the various phases of Roman expansionism, from the foundation of the city to the principality of Trajan. In 1936, a fifth map was added, showing the new borders of the Fascist Empire in the aftermath of the conquest of Ethiopia.
The Natalis Urbis – April 21st
Recovery model of classical elements of the glorious Roman past was the commemoration of Christmas in Rome, associated with the birth of Italian civilization on 21st April. Actually, the meaning of 21 April radically changed by Fascism, which adapted it to its own ideological needs, completely deleting its historical context. As Aulus Persio Flacco, a writer of Nero’s age, recalled, April 21st was a feast of nature, consecrated to the Pales, gods protector of breeders and cattle. Only in 121 A.C. i twill be elevated from Hadrian to Natalis Urbis, thanks to the transformation of the feast of the Parilia (or Palilia) into Romaia, linked to the foundation of the city of Rome by Romulus in 753 B.C.
The Fascist regime did not take into account the complexity underlying the ancient 21 April and Mussolini ended up giving a racist connotation to one of the the oldest festivals in Rome. A photomontage of the infamous Defense of Race has been published, representing a tripartite image depicting on the left side a “Roman legionary of Julius Caesar’s time” and on the right side a “Roman legionary of Mussolini’s time”. In the centre there is the Capitoline she-wolf which, surrounded by Roman insignia and the gonfalons of the fighting beams, stood out on the map of the Fascist Empire of Munõz; on the upper register there was the legend: “Christmas of Rome Feast of the Italic race”. This gave rise to an inconsistent comparison between the Roman legionnaire and the Italian soldier and indirectly on the overlap between Caesar and the Duce.
Calendar modification and the sulcus primigenius
Mussolini also began to embody some customs typical of the heroes and leaders of the past. From 1926, considered the founder of the Third Rome, he changed the calendar, just as Romulus and Augustus had done before him. He began to mark the boundaries of the new fascist colonies of the Pontine Agro with a mechanical plough, tracing a modern pomerium, which certainly referred to the sulcus primigenius.
These positions taken by the regime were rather extreme and found their climax in the foundation of the Mystic School in 1930 by Niccolò Giani. Motto of the School was “Per orbis unionem sub Lictorii signo”, whose aim was to forge the future ruling class of the National Fascist Part by let reviving the fascism of the early years, that of the trenches. Mysticism represented a real yearning for a high and full life for the fascists. It was an inspiration to improve, to progress and it was the very strength of the Fascist youth.
The distortion of the concept of romanitas reached grotesque levels through the translation into Latin of the Duce’s speeches, like the Ethiopian ones collected by Nicola Festa. It was the triple invocation to the Italians, which at each beginning sounded to our ears like three attentive rings: “Black shirts of the Revolution! Men and women from all over Italy! Italians scattered throughout the world, beyond the mountains and beyond the seas: listen!”, which became in Latin “Nigra subucula induti vos novi rerum ordinis auctores! Italiae universae cives utriusque sexus! Italians per terram orbem trans montes trans maria dispersi: audite!”
Ethiopia’s campaign and the citizen-soldier theme
The relationship between Romanity and Fascism was also used as an ideological justification for colonial politics and, in particular, for the victorious campaign of Ethiopia in 1911. The enterprise coincided with the year in which the first fiftieth anniversary of unity was commemorated in Italy, solemnly celebrated with the Archaeological Exhibition at the Baths of Diocletian. The exhibition, organised by Rodolfo Lanciani, provided an overview of the ancient provinces created by Rome and each of the respective modern states were asked to bear witness to their Roman past; moreover, it was intended to show a picture,altough concise, of the progress achieved by Italy in the archaeological field.
For the Fascist doctrine, colonialism became a vital necessity, creating jobs and avoiding emigration to foreign lands. Mussolini reinforced the reference to the Roman idea of “empire”, allowing the public to distinguish an “unseemly” imperialism, whose aim was just the exploitation of the regions, from “fair” imperialism, like the fascist one, which only needed to acquire lands to be entrusted to the redundant Italian population. The main subject of fascist colonial propaganda was the theme of the citizen-soldier. Mussolini tried to superimpose the warrior theme on the rural one, the agricultural policy of ancient Rome on that of his Italy. Actually, as we well know, in ancient Rome the religious-ritual system was elaborated in such a way that neither plan interfered with the other; instead, the Fascist regime considered the agrarian dimension strictly connected to the military one.
A significant example is the postcard “Bread for the victory”, created by Luigi Martinati for the Minister of Agriculture and Resources, inspired by this precise model. In the foreground there was a farmer sowing and, in the background, a soldier throwing a grenade, while at the top there was the inscription: “The duty of the rural people, sow much and well”.
Fascism had “fascistized” ancient Rome, its history and myth, essentially its fundamental vestiges, using them according to the needs of the new fascist Rome.
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