ATTUALITÀ | La censura cinematografica italiana: una storia sbagliata al capolinea
Il 5 aprile scorso il ministro Dario Franceschini ha firmato un decreto che abolisce la censura cinematografica in Italia. Un atto importante, storico, che, a detta di Franceschini stesso, supera «definitivamente quel sistema di controlli e interventi che consentiva ancora allo Stato di intervenire sulla libertà degli artisti». Chiusa quindi quella fase che ha influenzato non poco la produzione e la distribuzione di tante opere, tra le quali si possono contare decine di film considerati oggi pietre miliari dell’arte cinematografica. Da adesso, come spiegato da Nicola Borrelli, direttore della Direzione Generale Cinema e Audiovisivo, «si mette in essere una sorta di autoregolamentazione» perché «saranno i produttori o i distributori ad autoclassificare l’opera cinematografica».
Ma com’è possibile che questa legge sia durata fino ad oggi e abbia pesato come un “macigno” sul groppone di tanti registi? Qual è la sua storia?
La prima censura cinematografica in Italia risale a una legge del 1913 che impediva la rappresentazione di spettacoli osceni o contrari alla decenza. lI successivo regolamento del 1914 stabiliva, invece, che il Ministero dell’Interno rilasciasse un nulla osta per girare certe scene, ed eventualmente, in casi estremi, tagliava alcune parti se non addirittura tutta la scena; il regista aveva però un’ultima possibilità: fare ricorso a una seconda commissione competente che revisionava le parti incriminate. Bisogna attendere il 1920 per avere una vera e propria commissione istituita con un regio decreto e formata da componenti esterni alle istituzioni (un educatore, una madre di famiglia, un magistrato), il cui Il compito era quello di analizzare il copione prima dell’inizio delle riprese.
Nel periodo fascista la situazione non cambiò. Furono infatti confermate le disposizioni precedenti, eccezion fatta per la modifica che prevedeva il passaggio della regolamentazione dal Ministero dell’Interno al Ministero della Cultura Popolare e l’introduzione, nel 1926, del decreto per la tutela dei minori, che vietava la visione di alcuni film ai minori di 16 anni.
Nel 1946 nasce la Repubblica, ma – contrariamente a ciò che si potrebbe pensare – non portò ad un cambiamento della situazione, nonostante l’articolo 21 della Costituzione consentisse la libertà di stampa e di tutte le forme di espressione. Del 1949 la legge, voluta dall’allora sottosegretario allo spettacolo Giulio Andreotti, nata con i buoni propositi di sostenere il cinema italiano e di salvare l’Istituto Luce, ma anche di rilanciare le grandi produzioni Italiane. Intenzioni nobili che – almeno così parrebbe – nascevano per preservare il patrimonio cinematografico italiano, ma che subirono non poche pressioni del mondo cattolico che invece puntava al mantenimento della censura. Con l’articolo 21 della legge del 1949 si vietava la “pubblicazioni di scene sensibili”, riferite alle creazioni cinematografiche e teatrali. Non mancarono le reazioni dell’opinione pubblica che arrivò a definire la legge “fascista“: causa anche il vincolo per i produttori e registi di passare al vaglio di una commissione statale prima di ricevere dei finanziamenti pubblici. Inoltre, se si riteneva che un film diffamava l’Italia poteva essere negata la licenza di esportazione con una censura preventiva.
Questa legge fu accolta con numerose polemiche dagli addetti ai lavori, soprattutto a causa delle censure che furono attuate in questo periodo, esempio ne sono le dichiarazioni di Andreotti sul film Umberto D. diretto da Vittorio De Sica: «un pessimo servigio alla patria». Il regista rispose alle accuse del sottosegretario con una lettera molto rispettosa, in cui spiegava di non aver riconosciuto il disagio del suo protagonista.
In copertina: celebre scena dal film “Umberto D.” di De Sica.