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REDAZIONALE | Cancel Culture, il “politicamente corretto” che annulla la cultura

Qualcuno conoscerà l’espressione Cancel Culture perché usata da vari opinionisti per commentare la storia del bacio non consensuale di Biancaneve, altri la ricorderanno associata al deturpamento e all’abbattimento in America delle statue di Cristoforo Colombo. La tematica, discussa da anni negli Stati Uniti, è arrivata anche in Europa e in Italia, e generalmente si sovrappone al politicamente corretto.

Statua di Colombo, Minneapolis  ©Stephen Maturen/Getty Images

Cultura della Cancellazione

Nei paesi anglofoni Cancel Culture è un’espressione che indica un fenomeno complesso e sfaccettato, traducibile con cultura della cancellazione. Indica quel fenomeno dove gruppi più o meno organizzati di persone vanno esercitando pressioni su una seconda parte in modo che punisca, o meglio ancora interrompa, i rapporti con una terza per via di ciò che ha fatto, detto o scritto, in passato. È un discorso che spazia dai libri ritirati dal commercio per le controversie sui loro autori alle proteste sui social network a seguito di espressioni razziste o sessiste da parte di personalità famose (pensiamo, ad esempio, alla vicenda di Indro Montanelli). Il movimento nasce dalla necessità sociale di sensibilizzare sui linguaggi da adottare, sia sulle parole da evitare che su quelle da introdurre nel lessico comune per essere più rispettosi delle attuali minoranze (e della comunità in ambito generale), ma tende purtroppo a sfociare nell’estremismo se unito all’ignoranza.

Indro Montanelli, giardini pubblici Montanelli (Milano, giugno 2020) ©Jacopo Raule/Getty Images

La cancellazione del mondo classico

Da qualche anno a questa parte, la Cancel Culture ha attaccato anche il mondo della tradizione classica, etichettata come razzista e omofoba. I Classici nel mondo accademico statunitense rappresentano l’onnipresente civiltà occidentale bianca che vuole imporre il white power: una rappresentazione, sia in positivo che in negativo, del modello iconico per democrazie e totalitarismi. La grandezza del pensiero e dell’arte dei greci e dei romani viene così accantonata perché facente parte di quel passato di cui alcuni non vanno più fieri. Per quanto riguarda le motivazioni sulla cancellazione dello studio dei classici, si fa leva sul fatto che queste popolazioni antiche praticavano socialmente la schiavitù, che la democrazia ateniese non fosse poi così democratica e che le donne, per i criteri attuali, fossero oppresse. Insomma, va avanti da tempo un vero e proprio attacco ai classici. Ma cosa intendiamo per cancellazione del mondo classico? Andiamo su esempi pratici.

Pittore di Polifemo, anfora di Eleusi

I suprematisti gessi bianchi di Cambridge

La Faculty of Classics di Cambridge dispone di una gipsoteca, il Museum of Classical Archaeology, che raccoglie un’ampia collezione di copie in gesso di opere greche e romane. Trattandosi di calchi, tutte le statue esposte sono bianche e questo dettaglio per alcuni oggi è un problema. Poniamo attenzione, ad esempio, alla lettera aperta sull’anti-razzismo del luglio 2020 che la facoltà ha ricevuto proprio a causa dei gessi: «dà un’impressione fuorviante sull’assenza di diversità del mondo greco e romano». Il fatto che una gipsoteca universitaria debba difendersi da accuse di razzismo, spiegando perché i gessi sono bianchi o perché le statue in oggetto non abbiano tutta questa varietà multiculturale, ha dell’ironico.

Museum of Classical Archaeology, Cambridge

Winckelmann, il suprematista

Nel 1970 alcuni credevano che le statue greche e romane fossero bianche per colpa dell’ossessione di Winckelmann, che nel 1764 scriveva: «poiché il colore bianco è quello che respinge la maggior parte dei raggi luminosi e che quindi si rende più percepibile, un bel corpo sarà allora tanto più bello quanto più è bianco». Winckelmann suprematista, colpevole di decontestualizzazione. Con l’evolvere del fenomeno Black Lives Matter, più di 250 studenti firmarono una lettera aperta denunciando: «il ruolo che i Classics hanno giocato nella continua oppressione ed emarginazione degli studiosi neri e delle vite nere». Rincara la dose la Christian Cole Society for Classicists of Colour con l’affermazione «riconoscere la complicità delle discipline classiche nel campo nella costruzione e nella partecipazione a strutture e atteggiamenti educativi razzisti e anti-neri». Insomma: Omero, Ovidio, Virgilio, così come Fidia, Lisippo, maledetti suprematisti!

Museum of Classical Archaeology, Cambridge

Omero, la mascolinità tossica

Vogliamo parlare di Omero, accusato di essere il capostipite della mascolinità tossica, la manliness di Harvey Mansfield? La Cancel Culture anche in questo caso si pone come un movimento anti intellettuale. Spaventa vedere come la tendenza alla censura continui a guadagnare terreno tra educatori ed editoria. Non sono casi isolati quelli che ci giungono da istituti superiori o corsi di laurea universitari americani che con orgoglio affermano la cancellazione di interi corsi di studi riguardo la tradizione classica. Possiamo citare, ad esempio, la fiera dichiarazione Heather Levine, docente alla Lawrence High School, nel Massachusetts: «Sono molto orgogliosa di dire che quest’anno abbiamo rimosso l’Odissea dal curriculum!».

Odissea, il poema omerico colpito dalla Cancel Culture 

#DisruptTexts

Sotto lo slogan #DisruptTexts, ideologi critici, insegnanti e agitatori del web si riuniscono sui social richiedendo l’eliminazione e infangando i classici, da Omero a Nathaniel Hawthorne. Tra le parole dell’insegnante di inglese di Seattle, Evin Shinn, leggiamo che preferirebbe morire piuttosto che portare in classe La lettera scarlatta, a meno che il romanzo di Hawthorne non sia usato per combattere la misoginia.

Totale è la decontestualizzazione. Con un hashtag si invoca la proibizione di ogni capolavoro letterario non conforme all’attuale idea di genere e razza, si pretende un ammodernamento o una damnatio memoriae per quei testi colpevoli semplicemente di esser figli del loro tempo.

Hashtag dell’iniziativa DisruptText

Il politicamente corretto

La crociata della Cancel Culture travolge tutto e tutti: dalle statue di Colombo, abbattute con l’accusa di colonialismo, al principe di Biancaneve incriminato per avere estorto un bacio in assenza di consenso alla sua amata addormenta. Non si salva neanche il grande schermo, basti pensare a Via col vento, prima cancellato e poi reinserito dal catalogo della HBO per aver offerto una visione stereotipata e totally white dell’epoca descritta. Anche la Disney è dovuta correre ai ripari perché film e riadattamenti come Dumbo e Peter Pan contengono rappresentazioni negative e insulti verso persone e culture non caucasiche: la Disney dovrebbe fare ammenda perché in Peter Pan i nativi americani sono stati chiamati “pellerossa”.

Ultima, ma non ultima, la decisione della Bicocca di cancellare il corso su Dostoevskij a seguito dello scoppio della guerra in Ucraina: l’episodio di Cancel Culture è stato denunciato ad inizio marzo dallo scrittore Paolo Nori.

Walt Disney’s Peter Pan, 1953

Intellettuali a confronto

Nonostante la cultura nell’era digitale sia a portata di tutti, la Cancel Culture ci avvicina sempre di più all’ignoranza. Iniziano le risposte da parte del mondo intellettuale: ricordiamo, ad esempio, i centocinquanta intellettuali americani hanno scritto una lettera aperta su Harper’s Magazine per denunciare il clima di intolleranza e di gogna pubblica che avvelena la società statunitense negli ultimi tempi. Vengono citati redattori licenziati per articoli controversi, libri ritirati, professori indagati per aver citato una particolare opera. Anche le Università italiane iniziano a mobilitarsi, sottolineando che il solo modo per sconfiggere le idee sbagliate è lasciando spazio al confronto, alla critica, alla cultura. Ma l’eco dell’intolleranza e del revisionismo non rallenta, anzi, e questo fa paura. Che mondo stiamo tratteggiando?

Locandina della conferenza tenuta presso il Dipartimento di scienze umanistiche dell’Università degli Studi di Catania

Qui trovate link della conferenza tenuta in collaborazione con l’Università degli Studi di Catania sul fenomeno della Cancel Culture il 6 dicembre scorso. A prescindere da quello che può essere il proprio bagaglio culturale, il proprio pensiero, dovremmo sempre ricordare che la censura e la negazione non hanno mai portato nessuna svolta positiva.

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ATTUALITÀ | Abolita la censura cinematografica, svolta storica ad opera del MiC

Abolita la censura cinematografica. Definitivamente superato quel sistema di controlli e interventi che consentiva ancora allo Stato di intervenire sulla libertà degli artisti”, dichiara Dario Franceschini. Il ministro della Cultura firma infatti il decreto che istituisce la Commissione per la classificazione delle opere cinematografiche presso la Direzione Generale Cinema del Ministero della Cultura, presieduta dal Presidente emerito del Consiglio di Stato Alessandro Pajno. La Commissione avrà il compito di verificare la corretta classificazione delle opere cinematografiche da parte degli operatori. Il decreto attuativo firmato da Franceschini prevede che d’ora in poi i film destinati ai cinema siano divisi in quattro categorie: quelli adatti a ogni tipo di pubblico, e poi quelli vietati ai minori di 6, 14 e 18 anni. L’Italia si libera così di una censura cinematografica durata decenni. In questo modo i film in uscita non saranno più condizionati da tagli o modifiche.

censura cinematografica
Apparato scenografico realizzato, nel 1937, in occasione della fondazione della nuova sede dell’Istituto Luce

Della commissione fanno parte “quarantanove componenti, scelti tra esperti di comprovata professionalità e competenza nel settore cinematografico e negli aspetti pedagogico-educativi connessi alla tutela dei minori o nella comunicazione sociale, nonché designati dalle associazioni dei genitori e dalle associazioni per la protezione degli animali”. L’abolizione della censura cinematografica costituisce un vero e proprio fatto storico, teso ad un futuro artistico di libera espressione. Ora come ora, tuttavia, si spera quantomeno in un futuro che preveda la riapertura dei cinema.

L’Italia della censura cinematografica

La censura, nel corso degli anni, ha colpito non pochi artisti in Italia e – per citarne alcuni – registi come Pier Paolo Pasolini, Bernardo Bertolucci e Luchino Visconti hanno conosciuto bene gli effetti. “Ultimo tango a Parigi” di Bertolucci, infatti, fu bloccato dalla censura totale dal 1972 fino al 1987. Ma anche “Nodo alla gola” di Alfred Hitchcock, bloccato dalla censura italiana nel 1949 e distribuito solo nel 1956; “Arancia meccanica”, film del 1971 di Stanley Kubrick, trasmesso per la prima volta nel 1999 sulla Pay TV e solo nel 2007 sulla televisione in chiaro. E, ancora, Totò, più volte censurato per le sue battute contro politica e governi. Accanto alla censura totale, inoltre, dagli anni Trenta fino agli anni Novanta, in Italia è stata praticata un’altra forma di censura: i tagli mirati, quei tagli di scene o inquadrature che laceravano una pellicola per meglio adattarla ad esigenze a tratti politiche a tratti “etiche”.

Ultimo tango a Parigi
 

“Cinecensura”: la mostra virtuale per non dimenticare

Nasce “Cinecensura“, una grandiosa mostra virtuale permanente per raccontare ciò che è stato a lungo nascosto. La mostra è promossa dalla Direzione Generale Cinema del Ministero della Cultura, realizzata dalla Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia e dalla Cineteca Nazionale. Il percorso virtuale prevede quattro sezioni, Sesso, Violenza, Religione e Politica, in cui si trovano materiali relativi a 300 lungometraggi e a 80 cinegiornali, ma anche 100 tra pubblicità e cortometraggi, 28 manifesti censurati e filmati di tagli. Ognuna delle sezioni raccoglie una lista di contenuti, censurati dal dopoguerra in poi (la prima legge che stabilisce una censura, tuttavia, risale al 1913).

Le quattro categorie di “Cinecensura”

 

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ATTUALITÀ | La censura cinematografica italiana: una storia sbagliata al capolinea

Il 5 aprile scorso il ministro Dario Franceschini ha firmato un decreto che abolisce la censura cinematografica in Italia. Un atto importante, storico, che, a detta di Franceschini stesso, supera «definitivamente quel sistema di controlli e interventi che consentiva ancora allo Stato di intervenire sulla libertà degli artisti». Chiusa quindi quella fase che ha influenzato non poco la produzione e la distribuzione di tante opere, tra le quali si possono contare decine di film considerati oggi pietre miliari dell’arte cinematografica. Da adesso, come spiegato da Nicola Borrelli, direttore della Direzione Generale Cinema e Audiovisivo, «si mette in essere una sorta di autoregolamentazione» perché «saranno i produttori o i distributori ad autoclassificare l’opera cinematografica». 

Ma com’è possibile che questa legge sia durata fino ad oggi e abbia pesato come un “macigno” sul groppone di tanti registi? Qual è la sua storia?

La prima censura cinematografica in Italia risale a una legge del 1913 che impediva la rappresentazione di spettacoli osceni o contrari alla decenza. lI successivo regolamento del 1914 stabiliva, invece, che il Ministero dell’Interno rilasciasse un nulla osta per girare certe scene, ed eventualmente, in casi estremi, tagliava alcune parti se non addirittura tutta la scena; il regista aveva però un’ultima possibilità: fare ricorso a una seconda commissione competente che revisionava le parti incriminate. Bisogna attendere il 1920 per avere una vera e propria commissione istituita con un regio decreto e formata da componenti esterni alle istituzioni (un educatore, una madre di famiglia, un magistrato), il cui Il compito era quello di analizzare il copione prima dell’inizio delle riprese.

Nel periodo fascista la situazione non cambiò. Furono infatti confermate le disposizioni precedenti, eccezion fatta per la modifica che prevedeva il passaggio della regolamentazione dal Ministero dell’Interno al Ministero della Cultura Popolare e l’introduzione, nel 1926, del decreto per la tutela dei minori, che vietava la visione di alcuni film ai minori di 16 anni.

Nel 1946 nasce la Repubblica, ma – contrariamente a ciò che si potrebbe pensare – non portò ad un cambiamento della situazione, nonostante l’articolo 21 della Costituzione consentisse la libertà di stampa e di tutte le forme di espressione. Del 1949 la legge, voluta dall’allora sottosegretario allo spettacolo Giulio Andreotti, nata con i buoni propositi di sostenere il cinema italiano e di salvare l’Istituto Luce, ma anche di rilanciare le grandi produzioni Italiane. Intenzioni nobili che – almeno così parrebbe – nascevano per preservare il patrimonio cinematografico italiano, ma che subirono non poche pressioni del mondo cattolico che invece puntava al mantenimento della censura. Con l’articolo 21 della legge del 1949 si vietava la “pubblicazioni di scene sensibili”, riferite alle creazioni cinematografiche e teatrali. Non mancarono le reazioni dell’opinione pubblica che arrivò a definire la legge “fascista“: causa anche il vincolo per i produttori e registi di passare al vaglio di una commissione statale prima di ricevere dei finanziamenti pubblici. Inoltre, se si riteneva che un film diffamava l’Italia poteva essere negata la licenza di esportazione con una censura preventiva.

Questa legge fu accolta con numerose polemiche dagli addetti ai lavori, soprattutto a causa delle censure che furono attuate in questo periodo, esempio ne sono le dichiarazioni di Andreotti sul film Umberto D. diretto da Vittorio De Sica: «un pessimo servigio alla patria». Il regista rispose alle accuse del sottosegretario con una lettera molto rispettosa, in cui spiegava di non aver riconosciuto il disagio del suo protagonista.

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In copertina: celebre scena dal film “Umberto D.” di De Sica.