Ranuccio Bianchi Bandinelli, tra politica e archeologia
Ranuccio Bianchi Bandinelli è stato un archeologo e storico dell’arte tra i più influenti del XX secolo. Si spense a Roma il 17 Gennaio del 1975. I suoi manuali di Storia dell’arte romana restano una lettura essenziale per tutti gli studenti di archeologia.
La formazione
Nato a Siena il 19 febbraio 1900, da una famiglia appartenente all’antica nobiltà toscana, Ranuccio ebbe un’educazione tesa a sviluppare in lui l’amore per la cultura umanistica. Dopo aver passato gli anni del liceo classico nel pieno della prima guerra mondiale e frequentato per un anno e mezzo l’Accademia militare a Torino, nel 1919 si iscrisse alla Facoltà di Lettere classiche a Roma. Qui, da subito, dimostrò un grandissimo interesse per la storia dell’arte greca e romana. Tuttavia conseguì la laurea in Archeologia etrusca con una tesi su “Chiusi e il suo territorio” discussa nel 1923, di cui fu relatore il professor G.Q. Giglioli. Iniziò, quindi, il suo percorso di insegnamento dapprima nella scuola superiore, poi in varie facoltà di Lettere classiche tra il 1929 e il 1938: Cagliari, Groeningen, Pisa.
Tra archeologia e Fascismo
Nonostante nel 1938 avesse pronunciato il giuramento di fedeltà al fascismo, Bandinelli rifiutò l’incarico di direttore della Scuola Archeologica di Atene (incarico resosi disponibile a seguito delle leggi razziali e della destituzione del precedente direttore, Della Seta, di origine ebraica).
Il 1938 fu un anno cruciale per Bandinelli, stretto tra il desiderio di continuare a fare ricerca e la mentalità democratica e antifascista che, come apprendiamo dai suoi diari, proprio in quegli anni iniziò a farsi strada nelle sue riflessioni politiche: già alla fine degli anni ’30, Ranuccio era tra i maggiori storici dell’arte antica in Italia e, proprio per questo, venne scelto per fare da guida durante la visita di Hitler in Italia.
Bandinelli nei suoi diari (raccolti, poi, nel libro autobiografico “Dal diario di un borghese”) ci descrive tutta l’angoscia di un simile compito, che, pare, fino all’ultimo cercò di risparmiarsi. Apprendiamo infatti che, una volta appurata l’ineluttabilità del compito, in lui si insinuò l’idea di compiere un attentato e uccidere i due dittatori. Scrisse nei suoi appunti che avrebbe avuto l’opportunità e i mezzi ma che non ne fu capace. Nel racconto di quei giorni, disincantato e ironico, Bandinelli traccia il ritratto di Hitler, appassionato d’arte ma incapace di una qualsiasi riflessione su di essa, e di Mussolini, disinteressato, ignorante e arrogante.
La didattica di Bianchi Bandinelli
Dal 1939 al 1944 tornò ad insegnare all’Università di Firenze. Nel 1944, al centro della catastrofe bellica, scrisse “A che serve la storia dell’arte antica?”, testo in cui si poneva la questione dell’utilità degli studi classici in un momento così drammatico e in cui si ribadisce la necessità di spendersi per la conservazione del passato.
Dopo una parentesi come direttore delle antichità e belle arti, tornò all’insegnamento universitario prima a Cagliari, poi a Firenze e, infine, dal 1957 a Roma, dove fu mentore di alcuni dei maggiori archeologi contemporanei, quali Andrea Carandini, Filippo Coarelli, Mario Torelli, Adriano La Regina.
Come scrive Ida Baldassarre nel Dizionario biografico degli italiani: “La sua intensa attività di ricerca scientifica, di pubblicistica, di promozione culturale e di lotte civili contro la degradazione del patrimonio artistico nazionale e, soprattutto, di fecondo scambio con i giovani, studenti e studiosi, non conobbe soste, anche dopo l’abbandono dell’insegnamento universitario.”
L’iscrizione al PCI
Iscritto al PCI (ndc. Partito Comunista Italiano) fin dal 1944, Bandinelli riuscì a dare agli studi di storia dell’arte classica una svolta in senso moderno, introducendo l’interpretazione marxista dei fenomeni artistici quali risultato della struttura ideologica del potere delle classi dominanti.
La grandezza di Ranuccio Bianchi Bandinelli, a parere di chi scrive, fu infatti proprio di passare, dalla ricerca storico-artistica di carattere filologico, imperante in Italia nei primi decenni del XX secolo, ad una visione dell’oggetto antico come testimonianza sociologica e storica. La visione del reperto, quindi, non più come mero oggetto d’arte ma come testimonianza della temperie culturale e politica che quell’oggetto aveva contribuito a creare.
I lavori di Bianchi Bandinelli
Innumerevoli i suoi scritti. Ricordiamo solamente la fondazione di due riviste scientifiche, La critica d’arte (1935) e Dialoghi di Archeologia nel1967.
Ideò e diresse l’Enciclopedia dell’arte antica classica e orientale, collaborò a importanti pubblicazioni politiche quali Rinascita, Il Contemporaneo e l’Unità.
Il ricordo che di Ranuccio Bianchi Bandinelli ha scritto il suo amico e contemporaneo Giulio Carlo Argan ci sembra il miglior modo di tratteggiare una figura complessa sia per il mondo della ricerca archeologica sia per quello della cultura italiana in generale.
Lo ammirai soprattutto perché, davanti al disastro e senza soldi in cassa, riusciva a trovarne abbastanza per finanziare qualche scavo. Pensava che soprattutto era importante mantenere vivo lo spirito della ricerca: per conservare le cose bisogna conservare la mentalità che vuole conservate le cose. L’importante era non rompere l’unità teorico-pragmatica della scienza. Il teorico deve sapere discendere alle cose se vuole che poi dalle cose si possa risalire al grande disegno storico e alla teoresi, magari alla filosofia dell’arte.
Giulio Carlo Argan