Salvador Dalì moriva il 23 gennaio 1989, nella sua città natale di Figueres, in Spagna. Egli viene ricordato per la sua personalità abbastanza eccentrica, per il suo modo di fare e di vestire, nonché per essere il rappresentante dell’avanguardia surrealista in ambito artistico.
L’artista fotografato nel 1953 (immagine dal web)
Lagiovinezza di Dalì
Salvator Domingo Felipe Jacinto Dalì nacque a Figueres, dopo la morte prematura del fratello maggiore, verso cui si sentì sempre in colpa. L’artista passò la sua infanzia nella campagna spagnola e fin da ragazzo dimostrò il suo talento e la sua passione per l’arte; all’inizio, i suoi soggetti erano contadini e pescatori, poi ci fu una svolta. Nel 1920 conobbe a Parigi Pablo Picasso, René Magritte e Joan Mirò, artisti già affermati. Si iscrisse all’Accademia delle belle arti a Madrid nel 1921 e nello stesso periodo subì anche l’influenza dei futuristi italiani. Durante la sua carriera, collaborò con figure di spicco, come Coco Chanel, per cui realizzò dei disegni, e Alfred Hitchcock, con cui lavorò alle sequenze del film Spellbound. Lui stesso nel 1929 fece un film con Luis Buñuel, Un chien andalou (Un cavallo andaluso).
Frammento preso dal film Un Chieu Andalou del 1929
Periodo surrealista
Egli ebbe modo di conoscere Sigmund Freud, che lo influenzò nella sua visione artistica. Il 1929 segnò la sua unione al gruppo surrealista, voluta da Mirò, e nel 1931 vide la luce l’opera che lo consacrò: La persistenza della memoria. Quest’opera rappresenta lo spirito del Surrealismo e il manifesto artistico di Dalì. La persistenza incarna i temi surrealisti come il sogno, l’irrazionale e l’inconscio. I Surrealisti ritenevano che la propria arte fosse spinta dall’automatismo psichico. Dalì definiva il suo stile paranoico-critico, giacché nelle sue opere si trovano le trasposizioni razionalizzate dei suoi deliri e della parte più nascosta dell’Io: l’inconscio. Nella Persistenza compaiono la paura del tempo che scorre e la relatività di questo, rappresentati con degli orologi di dimensione diversa. Altre opere che si ricordano sono: Sogno causato dal volo di un’ape intorno a una melagrana un attimo prima del risveglio (1944), Tentazioni di Sant’Antonio (1946), Gli elefanti (1948).
La persistenza della memoriaSogno causato dal volo di un’apeLe tentazioni di Sant’Antonio (immagine da thedalìuniverse.com)
Annisuccessivi
In poco tempo, l’artista divenne noto a livello mondiale grazie anche alle mostre surrealiste negli Stati Uniti. Nel 1936, Dalì espose la sua prima mostra al Museum of Modern Art. Tuttavia, André Breton, il fondatore del gruppo surrealista, lo espulse poiché il pittore si rifiutò di prendere posizioni politiche, dato che non voleva che influenzassero la sua arte. Dalì dipinse persino dei quadri che ritraevano Hitler (L’enigma di Hitler e la Metamorfosi di Hitler) e ciò non poté andare a genio a Breton, anti-nazista e di sinistra. Un cambiamento artistico si verificò quando l’artista si riavvicinò al cattolicesimo e soprattutto dopo la Seconda Guerra Mondiale; inoltre, aderì al cosiddetto “misticismo nucleare”. Galatea delle sfere (1952) è un esempio di tale periodo.
Galatea delle sfere (immagine da thedaliuniverse.com)
Ultimianni
Dopo essersi trasferito in America durante gli anni della guerra, tornò in Europa a Figueres. Qui visse ritirato nel suo castello, ad affrontare la malattia; nel 1963 dipinse il Ritratto di mio fratello morto. Negli ultimi anni, sperimentò il lutto per la perdita della moglie Gala, la sua musa. Salvador Dalì morì il 23 gennaio 1989 a 85 anni.
Il ritratto del fratello morto (immagine da thedalìuniverse.com)
L’importanza di Dalì
Dalì rivoluzionò a suo modo l’arte, rendendola libera da ogni tecnicismo e classicismo e portando l’inconscio, il sogno e la follia nell’arte. Quello che non avrebbe avuto senso, con il Surrealismo di Dalì lo ottenne. La sua notorietà è dovuta anche al suo stile particolare; ancora oggi viene ricordato per i suoi baffi. Nel 2017 divenne il simbolo di una serie tv spagnola: La casa de papel.
I protagonisti de La casa di carta con una maschera di Dalì
Lorenzo di Piero de Medici, noto anche come Lorenzo il Magnifico, nacque il 1° gennaio 1449 a Firenze da Piero de’ Medici, detto “il Gottoso”, e Lucrezia Tornabuoni. Rappresentò la famiglia più importante del Rinascimento, influente non solo in Italia ma anche nel resto d’Europa. Fu la personalità più rilevante del Quattrocento: come diplomatico, come signore di Firenze, come banchiere e soprattutto come mecenate e uomo di cultura; si circondò di poeti, artisti e scrittori, fino alla morte avvenuta l’8 aprile 1492 a causa della gotta e di un’ulcera non curata.
Ritratto di Agnolo Bronzino di Lorenzo il Magnifico risalente al XVI sec. ca.
Contesto storico
Lorenzo il Magnifico si trovò ad operare in un periodo storico particolare, in cui diverse famiglie cercavano di primeggiare per il controllo di Firenze. I Medici ben presto primeggiarono sulle altre famiglie di Firenze, tra cui gli Albizzi, gli Strozzi e i Pazzi. Dapprima grazie al prestigio di Cosimo, in seguito a quello del nipote Lorenzo, dal 1467 ebbero in mano tutta la Toscana, tranne Lucca, Pisa e Siena. Essi non toccarono mai ufficialmente le istituzioni comunali ma si assicurarono di averne tutte le cariche.
Piazza della Signoria e Palazzo Vecchio (immagine presa da Italia.it)
La giovinezza di Lorenzo
Lorenzo ricevette insieme ai fratelli un’educazione classica e umanistica così come un’eccellente preparazione politica, giacché sarebbe divenuto il prossimo a gestire gli affari. Già a dodici anni si interessò grazie a Marsilio Ficino all’Accademia neoplatonica. Inoltre, tra il 1465 e il 1466 gli vennero affidati degli incarichi diplomatici importanti a Milano, a Venezia, a Roma poiché avrebbe dovuto controllare le filiali di queste città. A Roma siglò un contratto che gli avrebbe assicurato delle miniere a Tolfa. Il suo prestigio fu tale che a diciassette anni sedette nel Consiglio dei Cento. Oltre a ciò, per rafforzare il suo legame con Roma, sposò Clarice Orsini nel 1469. Vi fu davvero affetto tra i due, come si evince dai suoi Ricordi.
Lorenzo de’ Medici in un affresco nel Palazzo dei Medici, 1459.
Ascesa al potere
I viaggi presso le varie corti gli diedero modo di conoscere la situazione politica ed economica italiana e di familiarizzare con l’attività di banchiere. Dopo la morte del padre nel 1469, Lorenzo prese le redini della famiglia a soli vent’anni. Il potere di Lorenzo avrebbe dovuto essere informale, tanto che restò un cittadino normale; nella realtà non fu così. Egli dominò non solo su Firenze ma anche sulla Toscana e giunse ad influire sulle sorti del resto d’Italia e d’Europa. Ciò gli valse l’appellativo di “ago della bilancia” poiché riuscì ad equilibrare i rapporti tra le varie signorie e diventare il fulcro della politica italiana.
Politica estera
Egli dimostrò fin da subito di voler governare Firenze, per tale motivo si assicurò la presenza di esponenti filomedicei nel Consiglio dei Cento. Ciò creò malcontento tra le altre famiglie nobili e perfino delle città vicine, che si ribellarono. La prima ad essere riportata all’ordine fu Prato poi nel 1472 toccò a Volterra, fondamentale soprattutto a livello economico dato che possedeva delle miniere di allume. Dopo una breve resistenza, Volterra capitolò e l’esercito dei Medici per ordine di Lorenzo, si macchiò della strage dei volterrani che suscitò lo sdegno pubblico.
Moneta raffigurante Lorenzo de’ Medici. (immagine presa via web)
Conflitto con il papa
Lo scontro di interessi portò Lorenzo ad incrinare nel 1474 il rapporto con Sisto IV; il papa voleva occupare Imola, Faenza e Città di Castello in Umbria per poi strappare Firenze ai Medici e darla al nipote Girolamo Riario: questo avrebbe comportato l’influenza del papa su tutta l’Italia centrale e Lorenzo non poteva permetterlo, così negò il versamento di 40.000 fiorini a Roma. A questo punto il papa tramò contro Lorenzo e Giuliano, insieme all’arcivescovo di Pisa Francesco Salviati, Federico da Montefeltro, il re di Napoli Ferrante d’Aragona e i Pazzi.
Nel 1478, durante la messa pasquale a Santa Maria del Fiore, i congiurati agirono e se Lorenzo riuscì a salvarsi grazie a Poliziano, lo stesso non fu per il fratello Giuliano, che perse la vita. Nel frattempo, coloro che avevano tramato vennero tutti impiccati in Piazza della Signoria, come monito per chiunque avesse voluto opporsi. Questo non fermò il papa che lo scomunicò per aver ucciso l’arcivescovo Salviati e chiuse il banco mediceo a Roma. Inoltre, dichiarò guerra a Firenze con il sostegno di Napoli, Ferrara, Lucca e Siena. Grazie alla sua pronta azione diplomatica nel 1480, il Magnifico riuscì ad ottenere l’alleanza di Napoli e Ferrara; a Sisto IV non restò che siglare la pace e togliere la scomunica. Successivamente, il Magnifico si legò al nuovo papa, Innocenzo VIII, mediante il matrimonio strategico della figlia Maddalena con il figlio del papa. Alla fine del 1487 anche Lucca e Siena erano sotto il suo controllo.
Politica interna
Lorenzo, grazie a questa rete di alleanze, riuscì ad imporsi ancora di più su Firenze, istituendo il Consiglio dei Settanta; in tal modo tolse l’autorità al gonfaloniere. La rotazione dei membri non era automatica come avrebbe dovuto essere in un’istituzione repubblicana. Gli ultimi anni furono segnati dal rapporto contrastato con il domenicano Girolamo Savonarola, chiamato a Firenze nel 1490, che dopo la sua morte porterà scompiglio nella città.
L’importanza di Lorenzo detto Il Magnifico
Egli rappresentò davvero l’ago della bilancia e durante il suo operato si mantenne un certo equilibrio; dopo la sua morte, l’Italia versò nel caos e iniziarono le cosiddette Guerre d’Italia. A partire dall’1492, l’Italia subì le invasioni degli stranieri, in primis dei francesi e non si vide più durante il Rinascimento un uomo così tanto carismatico, spregiudicato e influente come Lorenzo de Medici.
Nel 2016 è stata prodotta dalla rai una serie tv per raccontare le vicende dei Medici. (immagine presa da raiplay.it)
L’attività politica marciò congiunta con quella letteraria. Lorenzo fu il fautore della crescita culturale di Firenze, comportandosi come un vero e proprio mecenate. Sotto la sua tutela la città rinacque; egli fondò la prima accademia d’arte nel giardino di San Marco, che frequentò il giovane Michelangelo. In più commissionò il restauro di Santa Maria del Fiore e il rinnovo di Palazzo Vecchio. La sua corte eclettica fu assiduamente frequentata da Sandro Botticelli, Filippino Lippi, Michelangelo, Leonardo da Vinci, da Poliziano, Marsilio Ficino e il Pulci. Egli stesso compose poesie in volgare e altre opere, tra cui i Canti Carnascialeschi, di cui fa parte il Trionfo di Bacco e Arianna. Lorenzo il Magnifico rappresentò a pieno l’uomo rinascimentale, dedito alla politica, al contempo alla cultura classica e alla riflessione filosofica sulla caducità della vita. D’altronde del doman non v’è certezza!
Il Giardino di San Marco nel palazzo dei Medici. (immagine presa via web)
Roma si prepara ad accogliere 50 opere di Vincent Van Gogh, in mostra presso Palazzo Bonaparte dall’8 Ottobre 2022. Le opere del celeberrimo pittore olandese verranno trasferite dal Museo Kröller-Müller di Otterlo e saranno a disposizione del pubblico della capitale italiana fino a marzo 2023. La mostra avrà dunque luogo in autunno e ospiterà alcune delle opere più celebri, tra cui il famoso Autoritratto del 1887. Il Museo di Otterlo contiene uno dei più grandi patrimoni dell’arte vangoghiana e grazie alle sue testimonianze biografiche sarà possibile ripercorrere la storia umana e artistica del pittore. Si tratta di un percorso espositivo a cadenza cronologica che parte dal vissuto olandese, per fare tappa a Parigi, ad Arles in Provenza fino a St. Remy e Auvers-Sur-Oise, dove l’artista si suicidò con uno sparo di rivoltella all’età di 37 anni.
La mostra è un ottimo pretesto per fare un passo in avanti rispetto al desueto e addentrarci nell’inconscio del pittore per scoprire più a fondo la complessità del genio creativo che lo animava.
Dodici girasoli in un vaso, 1888, olio su tela. Monaco, Neue Pinakothek
La lettura patografica
Alla pittura di Vincent Van Gogh è quasi sempre stata attribuita, sia dalla storiografia sia dai critici, una validità creativa generatasi più che dal genio, dalla biografia dell’artista. L’obiettivo di questo articolo è di mettere da parte tale lettura patografica per dedicarsi all’analisi del genio creativo avulso dalla biografia del pittore, in altre parole; una lettura che mette in risalto l’io e i pensieri dell’autore a discapito di una biografia che giustifica tale innovatività tramite gli eventi drammatici che hanno segnato la sua breve esistenza.
Lo sforzo speculativo che ci accingiamo a fare, trae forza ed ispirazione dall’opera dello psicologo Massimo Recalcati, Melanconia e creazione in Vincent Van Gogh (Bollati Boringhieri 2014). La validità dell’analisi di Recalcati sta nel riuscire a far emergere la forza creativa del pittore senza però tracciarne un ritratto idealizzato, bensì disilluso e dinamico. Come ben sappiamo Van Gogh fu un’artista sui generis e famosissimi sono gli episodi di follia a cui la storiografia ci ha abituato. Prima di procedere con un’analisi più dettagliata dell’inconscio dell’autore, ripassiamo qualche vicenda biografica sempre utile per poterne tracciare un quadro complessivo.
Iris, olio su tela, 1889. Los Angeles, Getty Museum
Chi era Vincent Van Gogh? Cenni biografici
Vincent Van Gogh nasce in Olanda il 30 marzo 1853 e muore, suicida, il 29 luglio 1890 nei campi di Auvers. Il primogenito della famiglia, il primo Vincent, nasce morto e l’artista da noi conosciuto ne eredita il nome insieme alle aspettative riposte dai genitori (passo cruciale nell’analisi recalcatiana che attribuisce alle pressioni paterne parte dei tormenti del pittore). Dalla famiglia Vincent riceve un’educazione restrittiva e religiosa, al punto che la prima scelta del giovane è la carriera da predicatore. Fallita quest’ultima Vincent trova, grazie all’arte, il suo posto nel mondo e tramite il fratello Theo, il secondogenito mercante d’arte, riesce ad inserirsi in questo ambiente. In vita i suoi quadri non riscossero il benché minimo successo e incerte sono le fonti su quelli venduti, alcuni dicono addirittura nessuno.
Autoritratto, 1887, olio su cartone. Art Institute of Chicago (dettaglio in copertina)
La sua arte (clicca qui per conoscere le opere dell’artista nel database online) è in continua evoluzione e passa da una predilezione per i paesaggi scuri al famoso amore per il giallo. Il soggiorno a Parigi presso gli Impressionisti si rivela proficuo sia dal punto di vista artistico che umano, infatti è proprio qui che Vincent si lega a Gauguin, artista con lui in sintonia e con cui decide di avviare una breve convivenza.
Gauguin è protagonista dell’episodio dell’orecchio mozzato e causa degli isterismi presso la casa gialla, residenza che Vincent prende in affitto ad Arles e in cui sogna di riunire una fraterna comunità d’artisti in grado di stimolarsi reciprocamente. Il progetto tuttavia fallisce e, a seguito dell’incidente dell’orecchio, Gauguin si allontana da Vincent. Quest’ultimo continua ad andare avanti in solitudine accompagnato da paranoie e isterismi, entrando e uscendo dal manicomio di Saint-Rémy. Disperato e sempre più vittima di crisi, decide di suicidarsi sparandosi nel petto all’età di 37 anni.
Cielo tempestoso sulla spiaggia di Scheveningen, 1882 Olio su carta. Amsterdam, Van Gogh Museum
Un cromatismo melanconico
Uno dei primi punti da tenere in considerazione dell’arte di Vincent Van Gogh è la sua multiformità. Il dato emerge dalla continua ricerca di una scala cromatica che esprima l’assoluto nella sua essenza, un assoluto melanconico espresso progressivamente. La melanconia, come ben sappiamo, ha un ruolo fondamentale nella vita di Van Gogh ed è uno di quegli elementi imprescindibili per indagare seriamente la sua arte. La melanconia però non pregiudica l’arte a prescindere ma anzi dialoga con l’inconscio diventando la dimensione ontologica vangoghiana.
«In Van Gogh la pittura diventa un gorgo che lo trascina via, una incandescenza che brucia la vita e che frammenta l’essere dell’artista. Si pensi alla travagliata serie degli autoritratti, ma anche al problema della firma delle sue opere. Assistiamo a uno sciame di immagini e di segni, mai uno uguale all’altro, a un caleidoscopio vertiginoso che anziché dare consistenza all’identità del soggetto la sbriciola e la pluralizza senza alcuna possibilità di unificazione. […] Questa assenza di un centro permanente, irraggiungibile e, dunque, ideale in modo esorbitante, tende a produrre un’identificazione di tipo melanconico. È la nostra ipotesi clinico-diagnostica intorno a Van Gogh: la sua schizofrenia è secondaria a una posizione fondamentalmente melanconica del suo essere»¹.
La descrizione della realtà avviene attraverso questa lente melanconica, i soggetti delle sue opere sono la caducità e il vero. Ne I mangiatori di patate del 1885, che sono il compendio della sua prima fase creativa, l’obiettivo è quello di rappresentare le cose così come stanno. «Nella melanconia ciò che emerge senza veli è la “nuda vita”, il reale brutto dell’esistenza, l’esistenza nella sua contingenza più radicale»². Nel caso di questo dipinto – scrive Vincent al fratello Theo – «mi sono sforzato di dare a chi guarda l’idea che queste persone, hanno rivoltato la terra con le stesse mani con le quali prendono il cibo dalla ciotola». Dunque, sono la fatica e la precarietà gli obiettivi della rappresentazione.
I mangiatori di patate, 1885 olio su tela. Amsterdam, Van Gogh Museum
L’assoluto e la religione
Il ruolo della religione nella vita di Vincent si rivela improduttivo in ambito lavorativo – dato che la tanto attesa nomina a predicatore non arrivò mai – ma l’esperienza del sacro nei quadri appare onnipresente da un punto di vista ermeneutico, cioè interpretativo:
«Con la precisazione doverosa che per lui il sacro, l’assoluto, il volto del santo, non è mai accessibile attraverso una rappresentazione canonico-religiosa perché il volto del santo coincide con il volto del mondo. In questa opzione si fa presente tutto il peso della kenosis cristiana come dissoluzione di ogni versione puramente speculativa e teologale di Dio. […] Verbo che si fa carne, assoluto che abita il mondo, che è in ogni cosa, in ogni volto del mondo. Per questo egli non dipinge mai le icone religiose della tradizione, ma solo le cose del mondo, la natura e i volti degli umani elevandoli alla dignità dell’icona. Non c’è anima senza corpo, non c’è trascendenza se non nell’immanenza, non c’è volto del santo se non nei colori e nelle figure che abitano il mondo»³.
La sua arte è quindi da intendere come manifestazione e ricerca di un sacro-assoluto che si esplicita in ogni materia del mondo. Viene notevolmente influenzato dall’arte giapponese, di cui fu un grande collezionista di stampe, ma dal principio, sarà la scossa artistica ricevuta a Parigi dall’Impressionismo ad essere centrale nelle sue produzioni. Nei più di novecento quadri prodotti si ritrova nelle pennellate la necessità di rappresentare il mondo così com’è, senza mediazioni ne artifici.
Terrazza del caffè la sera, Place du Forum, Arles, olio su tela, 1888. Otterlo, Museo Kröller-Müller
La semplicità del linguaggio pittorico traduce nell’immediato la vera dimensione ontologica di ciò che lo circonda; una semplicità ravvisabile nella terza versione della Camera di Vincent ad Arles, in cui concede spazio alla pura espressività del colore con l’intento di semplificare e quindi di donare una dimensione universale agli oggetti. Una dimensione che non lascia spazio a interpretazioni individuali ma che comunica immediatamente l’intenzione del pittore, nel caso della camera, era quello di far pensare al riposo.
La camera di Vincent ad Arles, 1889, olio su tela. The Art Institute of Chicago
«Nonostante l’intenzione di rappresentare uno scenario sereno e pacifico, il dipinto non riesce nel suo intento: gli oggetti non hanno niente in comune, ognuno è isolato al proprio posto. Il senso d’inquietudine è dato inoltre dallo scorcio estremo con cui sono resi, oltre che dal pavimento, che si inclina in avanti e pare quasi sul punto di crollare, dalla finestra semiaperta, dai mobili disposti obliquamente nella stanza, come pure dai quadri che pendono storti dalla parete»4
L’intento vangoghiano di rappresentare uno scenario di tranquillità, non riesce ad emergere nonostante fosse proprio quello lo scopo. Pur approntando una lettura anti-patografica, ecco che la melanconia riappare. Tuttavia, ciò non deve far presuppore un’arte dominata dagli eventi, l’arte per Van Gogh è anzi il posto sicuro in cui rifugiarsi, il luogo dove la creatività dell’inconscio emerge nonostante tutto.
Caos e consapevolezza
Nell’ultimo Autoritratto, quello del fatale 1889, si percepisce che l’uso del colore – arrivato al suo culmine della vivacità negli ultimi anni – è intenzionalmente inquieto. Lo sfondo a spirali azzurro-verdi pulsa sulla tela; le forme «non sono originate né da un ritmo regolare né da un motivo fisso»5. Il forte contrasto emotivo è dato anche dalla contrapposizione di colori accesi come la barba rossiccia e la vivacità dei lineamenti tirati. Le forme in cui Van Gogh rinchiude l’autoritratto sono elementi dinamici, che non sono fuori controllo, bensì accuratamente scelti per rendere sulla tela uno stato tormentoso.
Autoritratto, 1889, olio su tela. Parigi, Musée d’Orsay
La lettura patografica è sicuramente tra le più valide per interpretare l’arte vangoghiana e ciò che la caratterizza; è però soffermandosi individualmente sul processo creativo di ogni opera che si riesce davvero a scorgere il genio dietro questa straordinaria arte multiforme.
«Tutto ciò che facciamo si affaccia sull’infinito»
– Vincent Van Gogh
Riferimenti bibliografici
M. Recalcati, Melanconia e creazione in Vincent Van Gogh, Bollati Boringhieri, Torino 2014, pp. 27-28.
Ivi, p. 48.
Ivi, p. 12.
I. Walther, VanGogh, Taschen, Slovakia 2020, pp. 77-78.
In rassegna, fino al prossimo 15 gennaio, settanta oggetti, tra sculture e affreschi, tutti provenienti dai depositi del Parco Archeologico, tra cui inediti frutto di recenti scoperte. Tra questi due medaglioni in bronzo con scene erotiche del carro cerimoniale da Civita Giuliana. Il percorso della mostra “Arte e sensualità nelle case di Pompei” si completa col supporto di una app specifica, mentre una guida per bambini aiuterà i più piccoli a visitare e comprendere la mostra.
Locandina della mostra
Arte e sensualità
A introdurre l’evento è stato il direttore del Parco archeologico, Gabriel Zuchtriegel, curatore insieme all’archeologa Maria Luisa Catoni, professoressa all’IMT Alti Studi Lucca, della mostra “Arte e sensualità nelle case di Pompei“. Stupore, curiosità e imbarazzo sono solo alcune tra le emozioni che sia archeologi che visitatori hanno provato posti dinnanzi alle pitture e alle sculture vesuviane. Con l’avanzare degli scavi diventa sempre più evidente che le immagini dal contenuto sensuale ed erotico, spesso distanti dell’immaginario classicista del mondo antico, caratterizzavano gran parte degli spazi della città, dalle case private agli spazi pubblici della collettività.
Negli ultimi mesi, complice un pubblico molto eterogeneo, si è tornati a porsi la fatidica domanda: “come spiegare l’onnipresenza della sensualità nel quotidiano pompeiano?”. Da questa esigenza didattica prende spunto la nuova mostra organizzata dal Parco Archeologico di Pompei, inaugurata il 21 aprile scorso alla Palestra grande degli scavi. La mostra propone una chiave di lettura, un ausilio, per comprendere meglio ciò che il pubblico può ammirare in situ.
Il progetto della mostra prevede un itinerario alla scoperta di vari edifici dell’antica Pompeii, caratterizzati da affreschi e riferimenti al tema, raggiungibili con il supporto dell’App My Pompeii. All’ingresso, apre il percorso una statua in marmo bianco di Priapo, simbolo per i romani di prosperità e fertilità. Tra le 70 opere in mostra, tutte provenienti dai depositi del Parco Archeologico, figurano inediti i due medaglioni in bronzo con scene erotiche del carro cerimoniale da Civita Giuliana, il raffinato soffitto del cubiculum, ossia la stanza da letto, della Casa di Leda ed il Cigno, rinvenuto in crollo sul pavimento, ricomposto e restaurato, e le tre pareti del cubiculum della Villa di Gragnano (Napoli), ricostruito dopo il recente restauro.
La mostra punta a valorizzare anche le recenti scoperte nell’ambito del Grande Progetto Pompeie delle nuove indagini condotte sotto la direzione di Massimo Osanna e Luana Toniolo, autori del saggio “Il mondo nascosto di Pompei. Il carro della sposa, la stanza degli schiavi e le ultime scoperte” edito da Rizzoli, dove si racconta l’avventura degli scavi di Civita Giuliana frutto di un progetto condiviso con la Procura di Torre Annunziata, avviato nel 2017 proprio per fermare lo scempio dei tombaroli.
Il nucleo centrale della mostra ospita opere da Oplontis, come Ermafrodito e Satiro e le statue di due coppie di Centauri, in un allestimento che cerca di ricostruire la dimensione esperienziale che, in maniera quasi cinematografica, evoca il contesto e l’immaginario antico. Le statue, gli oggetti di uso quotidiano e le raffigurazioni in mostra avranno lo scopo di puntatori che trasformeranno i visitatori in segugi alla ricerca delle immagini nei loro ambienti originari, rimandando alla visita dell’intero sito con una nuova consapevolezza.
Inoltre, per spiegare il tema ai bambini, è presente una guida a firma del direttore, I Centauri di Pompei. La guida è impreziosita dai disegni di Daniela Pergreffi: seguendo le tracce del centauro Mares, i più piccini si muoveranno alla ricerca di una centauressa. Oltre a godersi il percorso di mostra, lungo il racconto, piccoli e grandi lettori incontreranno una serie di figure centrali del mito antico, da Narciso a Dioniso e Arianna.
Senza memoria del passato non si ha consapevolezza del presente e si rischia di ipotecare il nostro futuro, ciò vale tanto per le persone quanto per le comunità. Vale anche per Messina: scienza, letteratura, storia e spettacolo con protagonista il mare mitico dello stretto che ogni giorno ricorda le origini della città, indicando la strada per il futuro. Sette incontri, di cui il primo il 23 maggio, tutti dedicati ai luoghi magici della città.
Riscoprire l’identità della città antica
Oggi Messina è alla costante ricerca di quest’identità ed il suo mare ne è testimone rispettoso ed esigente. È dovere comune fare sì che Messina incarni sempre di più lo spirito dei tempi passati con coraggio, forza e consapevolezza, al fine di ricostituire la sua identità collettiva più autentica, condivisa, al fine di modificare i rapporti col passato e trasformare i processi di apatia e diseducazione in sviluppi attivi per un futuro di evoluzione e di nuova formazione. La natura e il mare possono essere d’aiuto in tutto questo poiché l’uomo non è altro che l’architetto minore che deve ascoltare gli architetti maggiori: il sole, il vento, l’acqua e l’ombra.
Mare, Mito, Messina
Proprio per questo il Museo della Faunadell’Università di Messina, da sempre impegnato nella diffusione e nella divulgazione di tematiche riguardanti l’ambiente in particolare, ma anche la cultura in senso lato, propone una rassegna dal titolo: “Mare, Mito, Messina” articolata in un programma di sette incontri culturali il cui scenario è rappresentato dal nostro mare relativi a tematiche inerenti l’ambiente appunto ma anche la letteratura, lo spettacolo ed il turismo. La formula proposta mira alla riscoperta di luoghi magici della città, per cui la rassegna non avrà una location fissa ma sarà itinerante e all’aperto in piazze, vie e borghi così da valorizzare, oltre alle tematiche trattate nella singola giornata, gli scorci più belli di Messina.
Il comitato tecnico scientifico
A garanzia dell’alta qualità a cui il progetto ambisce è stato istituito un comitato tecnico scientifico composto dal Prof Filippo Spadola, Direttore del Museo della Fauna; dal Prof. Filippo Grasso, Delegato del Rettore alle Iniziative Scientifiche nel settore del turismo dell’Ateneo di Messina; dal Dott. Giuseppe Ruggeri, giornalista e vicepresidente dell’ Associazione Medici Scrittori Italiani e dalla Dott.ssa Milena Romeo, giornalista e presidente dell’Associazione Cara Beltà.
Lo storico e critico d’arte Vittorio Sgarbi stronca senza appello l’annuncio della restituzione di un presunto Tiziano da parte dei Carabinieri dei Nucleo Tutela Patrimonio artistico, la cui cerimonia è in programma proprio oggi a Palazzo Chiablese a Torino. Il “Gentiluomo col cappello”, attribuito a Tiziano Vecellio, esponente di spicco del Rinascimento italiano, secondo i Carabinieri sarebbe stato esportato illegalmente 20 anni fa in Svizzera.
L’accusa
“L’operazione di restituzione è letteralmente una truffa allo Stato, per ragioni di propaganda. […] Oggi a Palazzo Chiablese a Torino s’inscena una lugubre cerimonia. L’ostinazione di un pubblico ministero ha determinato l’insensata confisca di un’opera recuperata non in Svizzera ma in Italia, in un laboratorio di restauro dell’Astigiano” sono queste le dure parole di Sgarbi in relazione al quadro “Gentiluomo col cappello” attribuito a Tiziano Vecellio. In dettaglio: “È un’opera sicuramente non di Tiziano e di modesto valore. Ciò che conta […] è il luogo di un ritrovamento che indica una “non” esportazione. D’altra parte la proposta anonima per “l’avvenuta importazione” ha maggiore attendibilità dell’attribuzione interessata, presentando correttamente il “Ritratto di gentiluomo con berretto nero” con la generica attribuzione a scuola veneta”.
Il presunto “Tiziano”
Per un pugno di mosche
Sgarbi bacchetta la superficialità dei Carabinieri: “La pressapocaggine dei “recuperatori” arriva al punto di far riferimento a una perizia mercantile del 1998, per un’opera non pubblicata da nessuno studioso di Tiziano, che indica un valore commerciale impossibile e ingannevole: cinque, sei miliardi di lire nel 1998! Comicamente, per altro, l’articolo apparso oggi su “Repubblica” traduce i 5/6 miliardi in 7 milioni di euro (evidente falsità) e chiama il professore Augusto Gentili “Giovanni Gentile”. In conclusione, Sgarbi dichiara: “La vera truffa è allo Stato che, con questo inconsistente recupero, stringe un pugno di mosche. Non si è recuperato un bel niente!”.
A Bologna il Gruppo Hera sarà protagonista di un’innovativa mostra all’insegna dell’arte e della sostenibilità. In un momento in cui l’impatto umano sull’ambiente risulta sempre più gravoso gli artisti riescono a dimostrare come realizzare veri e propri oggetti artistici partendo da materiali di scarto.
Locandina dell’evento
Un progetto innovativo
L’arte è frutto di una complessa commistione di fattori storico-culturali e noi, uomini e donne del XXI secolo, siamo ben consapevoli di quanto la sopravvivenza stessa dell’umanità e del pianeta sia legata all’impatto sempre più gravoso dell’uomo sull’ambiente. È con questo spirito che il Gruppo Hera promuove la mostra “Emilia Romagna terra di cineasti“, ospitata a Bologna dall’8 al 21 aprile dall’Assemblea legislativa regionale e finalizzata a dimostrare la reale possibilità di un’arte innovativa e sostenibile realizzata a partire da materiali di scarto. Così sono stati realizzati ritratti di attori e registi legati al territorio: cavi elettrici immortaleranno Pier Paolo Pasolini, cialde di caffè e fili di rame per Monica Vitti, cerniere e scarti di cerniera rispettivamente per Gerard Depardieu e Marco Bellocchio. Queste vere e proprie opere rappresentano solo alcuni tra gli ingegnosi esempi che verranno proposti al pubblico.
Monica Vitti fotografata sul set di “Deserto rosso” di Antonini
Riciclo e nuove sfide
La presidente dell’Assemblea legislativa Emma Petitti ha sottolineato la necessità di un’attenzione puntuale ai mutamenti di carattere sociale, economico e climatico che, di conseguenza, imporranno una riflessione sull’arte e i suoi linguaggi, inquadrata nell’ambito della tutela dell’ambiente e dell’economia circolare. Tommaso Tommasi di Vignano, presidente esecutivo del Gruppo Hera ha fatto coro aggiungendo come la nostra epoca, segnata da profonde ferite, abbia estremo bisogno di dare spazio, occasioni e ossigeno per progettare un futuro diverso attraverso l’immaginazione.
Anche quest’anno il Comando dei Carabinieriper la tutela delpatrimonio culturale(TPC) ha pubblicato il bollettino delle opere più importanti trafugate in Italia. Il documento è riconosciuto a livello internazionale, ai sensi dell’articolo 4 comma 4 della Convenzione UNIDROIT sui beni culturali rubati o illecitamente asportati.
Distintivo del Comando dei Carabinieri per la tutela del patrimonio culturale
Le opere scomparse
La pubblicazione del bollettino rappresenta un valido strumento di consultazione, sia per le Forze dell’Ordine, sia per i mercanti d’arte, gli antiquari, gli addetti ai lavori e tutti i cittadini. L’obiettivo comune è contrastare il traffico illecito di opere d’arte. Queste opere non possono essere considerate perdute ma tenute in ostaggio da chi svolge attività criminose.
Tra le opere sottratte citiamo La Santa Maria della Luce di Luca Giordano, scomparsa dalla Chiesa di Santa Maria della Luce di Mattinata, a Foggia, nel 1971, il mosaico raffigurante il ritratto di un giudice di gara portato via negli anni Ottanta dalle terme romane di Via Severina, e un dipinto a olio con la visitazione attribuito a Claudio Ridolfi e trafugato da un’abitazione privata nel 2018.
La Santa Maria della Luce di Luca Giordano
Most wanted
Le indagini rimangono aperte anche per i cosiddetti most wanted, ossia 14 preziosi capolavori ricercati. Tra questi citiamo la celebre Natività del Caravaggio, portata via una notte di ottobre del 1969 dall’Oratorio di San Lorenzo a Palermo, forse per conto della mafia. Un altro tesoro è il Compianto sul Cristo morto, rubato nel luglio del 1974 dal Museo Broletto, a Novara. Non possiamo dimenticare la Sanguigna su carta di Leonardo da Vinci, trafugata nel maggio 1973 dal Museo Baroffio di Varese, così come il Bambinello dorato dell’Ara Coeli a Roma, scomparso nel 1994. Indimenticabile è la Madonna dell’orto di Giovanni Bellini (Venezia) così come il doppio acquerello di Paul Cezanne (Roma), most wanted dagli anni Novanta.
La Natività di Caravaggio
Le opere ritrovate
Nell’ultimo lustro la validità del bollettino è stata dimostrata dal ritrovamento di 147 opere di pregio tra cui statue, dipinti, gioielli e altri oggetti artistici. Tra questi, un bassorilievo in terracotta che raffigura la Madonna con Bambino, opera di Luca della Robbia, sottratto a Scansano (GR) e ritrovato in Canada nel 2019, così come un dipinto a tempera su tavola, la Madonna con Bambino attribuito a Pinturicchio, rubato nel 1990 a Perugia e recuperato nel 2019 a Londra. Impossibile dimenticare il ritrovamento della scultura in marmo di Giulia Domna, sottratta da Villa Adriana a Tivoli e ritrovata solo nel 2016 in Olanda.
Giulia Domna, busto in marmo nella versione conservata al museo di Belle Arti di Lione
Se i monumenti di Messina potessero parlare, in questo momento un assordante lamento si propagherebbe per tutta l’area dello Stretto. Vedremmo la statua di Messina piangere, la Real Cittadella disperarsi, Porta Grazia non si rassegnerebbe all’idea di aver perso uno dei suoi figli. “Uno dei più illustri”, aggiungerebbe il Monumento ai marinai russi, con il tacito consenso della statua di Carlo III di Borbone. Ma le creazioni dell’uomo, si sa, non hanno parola, non possono piangere e, ahinoi, non possono nemmeno difendersi se minacciati.
Questo Franz Riccobono lo sapeva bene e ha voluto dedicare la sua vita alla loro protezione, affinché restasse testimonianza della storia di una comunità fortemente indebolita da guerre e terremoti che non hanno risparmiato opere e architetture.
Non ce l’ha fatta, Franz, a sconfiggere il Covid e si è spento quest’oggi, nell’incredulità e nel dispiacere di tutte le persone che l’hanno conosciuto. Il dottor Riccobono era una persona piacevole, un uomo colto e raffinato che non disdegnava la letteratura, la storia e le belle arti. E apprezzava i giovani, soprattutto quelli che si spendono per il loro territorio, con energia e dedizione, le stesse caratteristiche che il buon Franz possedeva e che era solito riconoscere in chi gli stava vicino. Se meritevole, ovviamente. Altrimenti erano mazzate.
Ha riconosciuto in chi scrive il suo stesso animo, quando ancora ArcheoMe era una semplice idea, un sogno nel cassetto, un progetto abbozzato dopo anni di studio archeologico e di vita messinese.
Il nascituro gruppo di ArcheoMe accanto al compianto dottor Franz Riccobono durante il I festival messinese de Le vie dei tesori
Il nostro primo incontro fu durante la prima edizione messinese di Le vie dei Tesori, festival culturale che ha avuto il merito di far rivivere luoghi spesso chiusi al pubblico. Siamo stati noi a sollecitare l’associazione palermitana all’apertura degli scavi archeologici di Palazzo Zanca, probabilmente perché tra i pochi conoscitori di uno dei siti archeologici cittadini più importanti. Il dottor Riccobono ha non solo caldeggiato la nostra proposta, ma ha messo subito a disposizione la sua persona per coadiuvarci alla ricezione dei turisti. Non si fermò qui, il caro Franz. Allargò la nostra proposta, inserendo il Museo permanente della Vara e dei Giganti realizzato proprio accanto all’Antiquarium del sito in questione, e ci accompagnò in conferenza stampa per esporre il progetto comune sull’area.
La conferenza stampa di presentazione del progetto “Area Scibona” di ArcheoMe
Il dottor Riccobono conosceva bene gli scavi di Palazzo Zanca perché, da giovane, ha assistito alla campagna di scavo gestita da un altro “mostro sacro” messinese, Giacomo Scibona. Tante dinamiche di quella situazione, culminata nell’apertura della sezione di Messina della Soprintendenza ai BB. CC., ci sono state raccontate proprio da lui che con Scibona era in rapporti fraterni.
Riccobono fu tra gli scopritori della Tomba a camera di Largo Avignone e, come vale per qualsiasi bene sul territorio siciliano, ha dovuto lottare con le istituzioni affinché venisse conservata, restaurata e aperta al pubblico (dopo circa 40 anni dal ritrovamento).
Franz conosceva l’eccezionalità dei reperti io messinesi e ha più volte coordinato azioni di recupero al fianco della Soprintendenza, ma anche come delegato delle varie amministrazioni comunali e regionali che si sono succedute negli anni. Alle volte, però, era costretto a battagliare per accendere luci e riflettori su beni dimenticati ma rappresentativi della storia di Messina, come la Real Cittadella di cui era un grande conoscitore. Noi stessi abbiamo (più volte) partecipato ai suoi tour e imparato dalle sue parole.
Ci ha trasmesso passione, determinazione e coraggio. Si, perché in un sistema avvilente in cui le professionalità passano spesso inosservate si rischia di deprimersi e di arrendersi. “No, Francesco, non ci si deve arrendere. Messina è una città particolare, popolata da persone che si fanno la guerra e non costruiscono. Ma noi abbiamo la responsabilità morale di continuare il nostro lavoro, perché se non lo facciamo noi non lo farà nessuno”.
Il dottor Riccobono durante un suo incontro con noi di ArcheoMe
Ci ha passato il testimone e noi ne abbiamo sempre sentito la responsabilità. Mi dispiace che non sarà qui con noi quando qualcuno dei nostri progetti verrà realizzato. Perché è solo questione di tempo, caro Franz, ma quella promessa che Le feci tanto tempo fa verrà mantenuta. Non demorderemo e realizzeremo quanto prospettato. Lei, però, continui a seguirci da lassù perché senza il suo sostegno oggi siamo un po’ spaventati. Vorremmo aggiungere altro, noi di ArcheoMe, il gruppo che ha imparato a conoscere e apprezzare nel tempo, ma le parole faticano a uscire e il silenzio, alle volte, è il miglior omaggio che si posa offrire.
Ci limitiamo a dirle grazie, a nome di tutti. Una vita ben spesa, il cui ricordo ci accompagnerà per sempre.
Quest’oggi siamo tutti un po’ tristi, ma felici di averla avuta al nostro fianco.
Dal 6 dicembre il Transatlantico di Palazzo Zanca ospiterà l’esposizione “Caravaggio, ritratti dell’anima”.
Per ricordare Caravaggio nell’anno in cui si celebra il 450esimo anniversario della sua nascita, sarà infatti visitabile una mostra “silenziosa”.
L’iniziativa, promossa dall’Assessore alla Cultura Enzo Caruso e curata dall’esperto comunale di arte contemporanea Alex Caminiti. La mostra prevede anche una personale dell’artista campano Alessandro Follo, caratterizzata da una carrellata di volti, figure, e posture di una intensa straordinarietà.
Una delle opere di Follo
Follo intende raccontare l’evoluzione del genere ritratto, traendo spunto dal realismo noto nei capolavori assoluti di Caravaggio. <<Un vero piacere scoprire il lavoro di un artista di nuova figurazione che oltre a dimostrare abilità creativa, riesce con le sue opere a porsi umilmente al pubblico con verità e sincerità>>, ha evidenziato l’esperto Caminiti.
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