Il 7 dicembre 1941 il Giappone attaccò la base americana di Pearl Harbor, nelle Hawaii. Si trattò di un pesante colpo per gli Stati Uniti durante la Seconda Guerra Mondiale, tanto che, dal giorno successivo, gli USA, neutrali fino a quel momento, entrarono in guerra.
Prima dell’attacco
Gli U.S.A all’inizio del conflitto non presero parte alle ostilità, ma si dichiararono dalla parte della democrazia, mettendosi indirettamente contro l’Italia, la Germania ed il Giappone.
La situazione precipitò quando quest’ultimo invase Saigon, una regione dell’Indocina francese, il 24 luglio 1941. Gli Stati Uniti, sentendosi minacciati, risposero con il blocco delle esportazioni di materie prime verso il Giappone, che ne era carente.
A questo punto la potenza orientale decise di sferrare un attacco a tradimento alla base militare americana di Pearl Harbor. Difatti, non c’era stata alcuna dichiarazione di guerra contro gli Stati Uniti, tutto avvenne all’improvviso.
Veduta del porto di Pearl Harbor
L’attacco
L’offensiva giapponese incominciò all’alba del 7 dicembre 1941, esattamente alle 3:42, quando l’aviazione e la flotta imperiale nipponica entrarono nel radar della base di Pearl Harbor, nelle Hawaii. Lo stato di allerta venne diramato solo a partire dalle 7:58 dal capitano Logan Ramsey.
L’assalto si protrasse fino al pomeriggio con la sconfitta degli U.S.A, che non seppero organizzare una controffensiva adeguata. I giapponesi, invece, guidati dall’ammiraglio Isoroku Yamamoto riuscirono a danneggiare gravemente le navi ancorate al porto e a distruggere ben quattro corazzate (navi da guerra con un rivestimento, o meglio corazza, in acciaio o ferro), ovvero la California, la Nevada, l’Arizona e l’Oklahoma che si capovolse. La United States Pacific Fleet ne uscì semidistrutta. I danni furono ingenti a causa dei molteplici incendi che si svilupparono; soprattutto fu elevato il numero di vittime e feriti tra soldati e civili. Si contano circa 2403 militari e 57 civili tra i morti. Fortunatamente, i portaerei non trovandosi nella base hawaiana, vennero risparmiati.
L’U.S.S. Shaw, uno dei cacciatorpedinieri americano, avvolto dalle fiamme (immagine via New York Times)
Dopo l’attacco
La manovra aggressiva del Giappone ebbe l’effetto di rompere la non belligeranza statunitense. Gli Stati Uniti, infatti, l’8 dicembre 1941 dichiararono guerra al Giappone e ai suoi alleati. Di contro l’Italia e la Germania si schierarono contro gli americani. Ormai era diventato un conflitto di portata mondiale. Non solo.
Gli americani non dimenticarono mai quanto successe a Pearl Harbor e verso la fine della Seconda Guerra, per far arrendere il Giappone, sganciarono l’arma più spaventosa che l’uomo avesse mai visto: la bomba atomica.
In copertina: la corazzata americana Arizona completamente distrutta dai bombardamenti (immagine via Britannica.com)
“Il jazz è anche la Sicilia”. Me lo disse qualche anno fa Giorgio Gaslini, uno dei più grandi musicisti italiani di sempre (per intenderci il compositore, tra le altre cose, della celebre colonna sonora di “Profondo Rosso”, capolavoro horror di Dario Argento, targata Goblin), a Messina per un concerto che si tenne al Palacultura “Antonello da Messina”. Un’affermazione fondata, reale, senza retorica. È un fatto che storia del jazz – o della musica afro americana che dir si voglia – sia costellata da nomi dal sapore meridionale e non molti sanno – se non gli addetti ai lavori – che proprio agli albori di quella che è considerata la corrente artistica più importante del ‘900 – il jazz appunto – in quel di New Orleans, era proprio un siciliano a fondare la band che avrebbe registrato uno dei primi album della storia di questo grande linguaggio.
Parliamo di un nome che oggi riecheggia nei libri di storia, negli annali della musica, nelle parole di tutti i grandi jazzisti. Nato nel 1899 da genitori trapanesi (il padre era di Salaparuta la madre di Poggioreale), Nick La Rocca iniziò a suonare la cornetta (tipico strumento della tradizione bandistica italiana) all’età di 15 anni. Da lì in poi si fece largo in quel “marasma” di suoni, stili, pensieri, culture che era la foce del Mississippi all’inizio del ‘900, patria indiscussa del jazz.
La New Orleans del secolo scorso
Non sono pochi i motivi per cui il destino scelse quella piccola, ma assai florida città del sud come culla del genere. New Orleans fu per quasi più di un secolo scalo obbligato nella tratta degli schiavi e il porto che dalla fine del XIX secolo accolse migliaia di immigrati francesi, tedeschi e italiani. Un mare di tradizioni che invase la città. Non furono certo gli americani a dare avvio a questa grande musica (almeno non quelli originari delle 13 colonie). Furono invece i nipoti degli schiavi liberati e i meridionali in cerca di fortuna, unendo le loro culture, a plasmare le basi dello “swing”; termine che ci ricorda il periodo d’oro delle big band degli anni ’30 e ’40, ma che in realtà ha ben più lontane radici (la modalità “nuova” di scandire il tempo). Certo, la musica che potevamo sentire nelle piazze di New Orleans, durante i funerali e i matrimoni, e nelle bettole non era proprio quel tipo di musica che ci ricorda oggi il termine jazz; sempre che questo termine abbia un significato quantomeno artistico.
Quando La Rocca – insieme a centinaia di altri – cominciava a riprodurre in chiave bandistica i temi della tradizione popolare americana mischiandoli a quella della banda e soprattutto ai ritmi che gli afro americani avevano portato dall’Africa e mantenuto nelle “capanne dello zio Tom”, la parola “jazz” non esisteva. Comparì per la prima volta nel 1915 e fu La Rocca a introdurla, quando nelle strade e nei localetti a luci rosse di New Orleans, faceva il suo esordio l’Original Dixieland Jass Band guidata proprio dal cornettista originario di Trapani. Fu la prima band registrata in cui compare la parola “jazz”. Del 1917 il primo disco della band registrato a New York negli studi della Victor Records. Un primato assoluto tenuto conto che l’opera musicale di Nick La Rocca e brani come “Tiger Rag” e “Livery Stable Blues” oggi sono standard a tutti gli effetti, proposti e riproposti, certo, in una chiave decisamente più moderna.
Nick La Rocca
Sul perché poi la parola da “jass” fu cambiata in “jazz” aleggiano miti e leggende. Una caratteristica del jazz tutto. Una prassi dovuta ai background oscuro e complesso dei protagonisti di cui spesso si sapeva ben poco. Anche sulla parola “jazz” la storia propone innumerevoli spiegazioni. Per alcuni “jazz” è il termine utilizzato per simulare il suono del charleston (i due piatti della batteria montati su un’asta e suonati con il piede sinistro) che dava la tipica pulsazione sul 2 e sul 4 della battuta. O ancora il termine “jazz” deriverebbe da “jizz”: termine legato al mondo sessuale e ricercabile facilmente sul web. Insomma, la quantità di storie legata all’imbarazzante numero di informazioni mai certificate su molti autori e musicisti fa del jazz non solo un grande linguaggio che unisce tutto il mondo, ma soprattutto una “religione” con le sue credenze, i suoi simboli le sue tradizioni immutate fino ad oggi. In ogni caso – sul termine “jazz” – la spiegazione maggiormente accettata è quella legata a Nick La Rocca.
L’Original Dixieland Jazz Band nel 1925, dopo aver preso New York come base operativa ed aver registrato un altro disco per la Columbia Records, si sciolse a causa del manifestarsi del senso di “sdegno” da parte della classe dirigente newyorkese che vedeva nel jazz un fenomeno legato al consumo di alcool, alla prostituzione e alla delinquenza. Tutto falso, o meglio, solo l’apparenza e le leggi – per nostra fortuna – durarono molto poco. Quanto bastò, però, a convincere La Rocca a sospendere l’attività musicale.
Tornato nelle scene nel 1936, quando il mondo era cambiato e con lui anche il jazz, Nick La Rocca non riuscì a mantenere la cresta dell’onda. Rimase lui il creatore del jazz e il “Cristoforo Colombo” della musica (amava presentarsi così). Un’esagerazione che non darebbe giustizia certo ai tanti che in quegli anni tra la Belle Époque e la catastrofe della prima guerra mondiale, tra schiavismo latente e tolleranza, tra le piazze, le strade e le campagne dove l’Africa incontrava la Sicilia, le trombe suonavano per la prima volta coi tamburi in pelle e i violini accompagnavano i primi “spirituals”, creavano – senza saperlo – quello stile musicale perfetto e indecifrabile capace di unire Est ed Ovest, Sud e Nord in un unico linguaggio. Nick La Rocca, nato da genitori trapanesi, fu certamente tra questi.
Il mondo dell’archeologia subacquea dice addio a George F. Bass, aveva 88 anni. É morto per cause naturali il 2 marzo all’ospedale di Bryan, Texas, lo ha confermato il figlio Gordon al New York Times.
Il mondo lo ricorda per aver co-diretto negli anni 60, insieme a Rodney Young, gli scavi del Relitto di Capo Gelidonya risalente al 1300 a.C. ca. Si tratta di una delle testimonianze sommerse più antiche sino ad oggi individuate nel Mediterraneo , insieme a quella di Uluburun. Infatti, sembra che la nave, in base al dato archeologico, trasportasse oggetti di lusso realizzati con materiali esotici come avorio di ippopotamo e oro, ne è un esempio lo scarabeo con il nome della regina Nefertiti, l’unico finora trovato. Il carico inoltre, avrebbe contenuto anche la più antica tavoletta scritta in legno mai scoperta.
George Bass aveva altresì fondato, nel 1972, l‘Institute of Nautical Archaeology. Nella sua lunga carriera scoprì molti tesori di valore nei relitti marini e affinò tecniche di ricerca subacquea. Queste gli permisero di utilizzare metodi e strategie di immersione all’avanguardia nel corso della sua vita. Fin da giovanissimo, da quando indossò per la prima volta la muta, poco meno che trentenne, concentrò le sue ricerche non solo in America ma anche e soprattutto in Turchia, studiando le rotte marittime delle civiltà che da lì erano passate nel corso dell’antichità, a partire dai cananei e fino ai bizantini.
L’archeologo George Bass durante una delle sue ricerche subacquee (via World Archaeology)
Il magazine americano Live in Italy dedica un articolo ai comuni di Messina e Gesso. Il fulcro è il legame della nuova First Lady, Jill Jacobs, con il centro collinare di Gesso (ME).
Nei giorni scorsi l’editore aveva richiesto informazioni direttamente al Sindaco di Messina, Cateno De Luca. L’ufficio del sindaco ha poi delegato, per competenza, l’Assessore alla Cultura Enzo Caruso. La risposta al magazine americano è stata immediata, con l’invio di notizie e immagini relative al Museo Cultura e Musica dei Peloritani di Gesso. L’editore, Lisa Morales, nel complimentarsi per quanto ricevuto, ha augurato in questi tempi difficili una pronta ripresa del turismo per la splendida Città dello Stretto.
In riferimento ad un recente articolo che celebra il legame tra la First Lady americana e il comune di Gesso – si legge sul magazine – abbiamo ricevuto un messaggio dalla città di Messina. Ci sono molte ragioni per visitare la zona.
Gentile editore – scrive l’ufficio comunale del Sindaco Cateno de Luca – in merito alla sua richiesta di informazioni relative al legame della nuova First Lady Jill Jacobs con Gesso, piccolo villaggio collinare che sorge sui monti Peloritani e ricadente nel territorio di Messina, si porta a conoscenza che già dallo scorso novembre la diffusione della notizia ha destato enorme entusiasmo nella città dello Stretto e grande motivo di orgoglio per l’intera cittadinanza.
L’emigrazione siciliana in America
Pertanto, continua il messaggio, il Comune di Messina nella persona del prof. Enzo Caruso, Assessore alla Cultura e al Turismo, ha programmato una serie di iniziative volte a rievocare e raccontare la storia dell’emigrazione siciliana in America, con particolare attenzione a quella degli ibbisoti (così sono chiamati gli abitanti di Gesso). L’iniziativa si svolge in collaborazione con MarioSarica, curatore scientifico del Museo Cultura e Musica dei Peloritani di Gesso.
L’Assessore Caruso ha commentato la notizia del legame della First Lady con Messina auspicando che questo legame possa divenire volano di promozione turistica par la città di Messina. Il fine è quello di ricongiungere la storia che ha portato tanti nostri conterranei a partire da Messina e a raggiungere il continente americano ai primi del ‘900. Il filo che unisce Gesso con gli Stati Uniti è frutto dello studio di Antonio Federico, supportato da Tonino Macrì, presidente dell’Associazione Rinascita Gesso. Quest’ultima ha riprodotto l’albero genealogico di tutti gli abitanti che hanno lasciato il minuscolo villaggio per raggiungere in nave Ellis Island, a New York; mentre il Salone dei Viaggiatori della Dogana di Messina ha promosso una ricerca per scoprire le ragioni per le quali i nostri connazionali non erano negli elenchi dei registri ufficiali delle partenze da Messina. È stato ricostruito come molti di loro, non potendosi permettere rotte dirette, facevano un giro largo. Approdavano a New Orleans su navi più disagiate, per poi muoversi verso New York.
Tra le iniziative fa capolino la mostra allestita presso la Stazione Centrale di Messina. 120 pannelli raccontano la storia dell’emigrazione siciliana, in particolare messinese, curata da Marcello Saija, direttore del Museo dell’Emigrazione dell’Isola di Salina.
Un possibile gemellaggio
Infine, il Sindaco della Città di Messina, Cateno De Luca, insieme all’Assessore Caruso, ha manifestato l’intendimento di avviare un progetto di gemellaggio tra il Comune di Messina e gli ibbisoti di Hammonton, nel New Jersey. Al centro del progetto c’è la promozione del territorio e l’organizzazione di eventi.
I Musei Civici d’Arte Antica – Istituzione Bologna Musei – sono i destinatari di una donazione di 16 antichi manufatti in ceramica di provenienza colombiana da parte dell’Agenzia Dogane e Monopoli di Bologna.
Già oggetto di un sequestro penale per violazione dei divieti all’importazione di beni culturali e di un lungo e complesso iter giudiziario, i reperti individuati e censiti sono stati consegnati dall’Amministrazione dei servizi doganali del capoluogo emiliano.
Donare per proteggere
L’atto di donazione vuole sensibilizzare le istituzioni ed il pubblico sull’importanza di una sistematica attività di protezione e difesa dei beni di interesse artistico, storico e culturale, per sperare di contrastare, anche in minima parte, il loro sfruttamento economico. Restituiti alla fruizione pubblica, i manufatti troveranno a breve una collocazione all’interno del percorso espositivo del Museo e rimarranno a disposizione per scopi di studio e ricerca.
Studiare per divulgare
Accurati accertamenti iconografici e stilistici hanno consentito di ricostruire il contesto di provenienza da una specifica area geografica, di stabilirne l’autenticità e la datazione, attraverso la ricostruzione del processo storico che li ha prodotti.
Una prima occasione di divulgazione dei risultati riguardo i materiali americani sarà il ciclo di conferenze on line dal titolo Cose dell’altro mondo: oggetti americani nelle collezioni del Museo Civico Medievale, organizzato in collaborazione con il Dipartimento di Storia Culture Civiltà dell’Università di Bologna.
Alcuni dei reperti di età precolombiana e coloniale donati al Museo Civico Archeologico di Bologna
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