Ricorre oggi l’anniversario del rapimento di Aldo Moro, l’ex presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica Italiana ed esponente di spicco del partito della Democrazia cristiana, avvenuto il 16 marzo del 1978 in via Fani, a Roma, e rivendicato dalle Brigate rosse.
Il rapimento di Aldo Moro
Il 16 marzo del 1978 un commando delle Brigate rosse, un’organizzazione terroristica, rapì l’ex presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica Italiana, Aldo Moro, in via Fani, a Roma, causando la morte degli uomini della sua scorta.
Per far fronte a questa emergenza, che metteva sotto ricatto l’intera classe politica, venne varato un governo di “solidarietà nazionale”, sotto la presidenza di un deputato del partito della Democrazia cristiana(Dc), uno tra i principali movimenti politici del XX secolo, Giulio Andreotti.
Gli anni Settanta tra conquiste politiche e civili e violenza
Gli anni Settanta furono anni di importanti conquiste politiche e civili, concretizzate in leggi approvate dai governi di centro-sinistra: l’attuazione del decentramento regionale, la riforma universitaria , lo Statuto dei lavoratori.
Tuttavia, nello stesso tempo, si notò una vertiginosa crescita dell’uso della violenza come arma politica per risolvere i problemi, di cui si fecero protagonisti sia movimenti di estrema destra neofascista sia movimenti di estrema sinistra( Brigate rosse).
I primi puntavano a commettere stragi a livello nazionale (preziosa testimonianza ne è l’esplosione di una bomba nel salone della Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana, a Milano, il 12 dicembre 1969) e avevano aspirazioni golpiste, erano cioè favorevoli a un colpo di stato.
Il terrorismo rosso aveva dei bersagli ben precisi da colpire: poliziotti, giornalisti, deputati, magistrati.
Anche se i destinatari delle loro azioni criminali erano diversi, il fine da perseguire era lo stesso per entrambe le organizzazioni: destabilizzare la società italiana e affermare la violenza come strumento per risolvere tutti i problemi.
Ritrovamento del cadavere di Aldo Moro
Il 9 maggio 1978, il cadavere di Moro fu ritrovato all’interno di un’auto abbandonata a Roma in via Caetani, zona ubicata a metà strada tra la sede centrale del Partito comunista italiano( Pci) e della Democrazia cristiana(Dc).
Il rapimento e la morte di Aldo Moro furono eventi di estrema gravità, destinati ad avere una fortissima ripercussione sulla storia della politica italiana.
Le Brigate rosse avevano colpito il “cuore dello stato”, mettendo fine alla possibilità di trovare una mediazione tra i due partiti politici maggiormente protagonisti del XX secolo: il Pci e la Dc.
Moro, esponente di spicco della Dc, era stato il teorizzatore di una linea di avvicinamento tra i due partiti e di un ingresso dei comunisti al governo.
I risultati negativi ottenuti alle elezioni amministrative del 1978 costrinsero Enrico Berlinguer, segretario del partito comunista dal 1972, a far distaccare il suo partito dal governo di solidarietà nazionale, che a distanza di un anno si sgretolò definitivamente causando una nuova frattura tra la Dc e il Pci.
Scritto nel 1978, Leonardo Sciascia ci consegna un testo di prezioso valore politico, nonché un tragico pezzo di storia della Repubblica Italiana: L’affaire Moro. Il libro è un’attenta cronistoria dei fatti avvenuti dalla mattina del 16 marzo 1978, giorno in cui l’automobile che trasportava Aldo Moro alla Camera dei Deputati fu intercettata dalle Brigate rosse, fino al 9 maggio quando, nel baule di una Renault 4 parcheggiata a Roma in via Caetani, fu ritrovato il corpo del presidente di Democrazia Cristiana.
L’obiettivo dello scrittore siciliano è chiaro: ricostruire quanto più analiticamente possibile ciò che è veramente accaduto in quei 55 giorni di prigionia. Sciascia, che al tempo fu anche membro della Commissione parlamentare d’inchiesta sull’omicidio Moro, riversa nelle pagine la triste verità che è avvenuta in quei mesi del 1978 scrivendo:
«Lo Stato italiano – così com’era – fece da ouverture a quel melodramma di amore allo Stato che sulla scena italiana grandiosamente si recitò dal 16 marzo al 9 maggio […] vittima di questa grandiosa messa in scena fu Aldo Moro».
Moro colpevole di voler aprire un dialogo tra DC e Partito Comunista Italiano
Il «melodramma di amore allo Stato» di cui parlò Sciascia, fu rappresentato dal vanaglorioso quanto inutile tentativo di far risaltare lo Stato italiano come forte e ineluttabile di fronte al “ricatto politico” perpetrato dalle Brigate rosse. Moro, fautore del compromesso storico consistente nell’aprire un dialogo tra la DC e il PCI, fu rapito e incarcerato dalle Br. La sua condotta politica e, in particolare, il suo ruolo di mediatore tra fronti ideologicamente opposti destarono il malcontento dei due partiti. L’ipotesi di essere assoggettata a quello Stato democratico non piacque all’ala estremista della sinistra, che colse l’occasione per lanciare un segnale sequestrando Moro.
Il 16 marzo 1978 l’onorevole Aldo Moro venne rapito
In quello stesso giorno l’onorevole Andreotti avrebbe presentato il programma del nuovo governo, sorretto anche dai voti comunisti. Portato alla “Prigione del Popolo”, Moro definito in quei giorni «grande statista» dai giornali, passa il suo tempo ad indirizzare lettere ai maggiori esponenti politici quali Cossiga, Andreotti, Fanfani, Zaccagnini, Craxi. Da questi non partirà alcun provvedimento in aiuto di Moro. Solo durante il periodo degli ultimatumdati dalle Brigate rosse, papa Paolo VI chiederà un gesto di misericordia nei confronti del prigioniero. Le Brigate rosse minacciavano di uccidere Moro, qualora il Governo non avesse acconsentito alla liberazione di 13 brigatisti detenuti.
L’intervento del pontefice non basta a scuotere gli animi dei vertici della DC, che nemmeno propongono una controfferta né cercano di mediare per la liberazione di Moro. Una situazione surreale si viene a delineare: il presidente della Democrazia Cristiana viene fatto prigioniero e i suoi stessi compagni di partito non muovono un dito per salvarlo. Il 20 aprile viene emesso il settimo comunicato da parte delle Br, poche ore dopo arriva una lettera di Moro a Zaccagnini nella quale scrive:
«Mi rivolgo individualmente a ciascuno degli amici che sono al vertice del partito e con i quali si è lavorato insieme per anni nell’interesse della DC. Penso ai sessanta giorni cruciali di crisi vissuti insieme con Piccoli, Bartolomei, Galloni, Gaspari sotto la tua guida e con il continuo consiglio di Andreotti. Dio sa come mi son dato da fare, per venirne fuori bene. Non ho pensato no, come del resto mai ho fatto, né alla mia sicurezza né al mio riposo. Il Governo è in piedi e questa è la riconoscenza che mi viene tributata, per questa come per tante altre imprese. In allontanamento dai familiari senza addio, la fine solitaria, senza la consolazione di una carezza, del prigioniero politico condannato a morte. Se voi non intervenite sarà scritta una pagina agghiacciante nella storia d’Italia. Il mio sangue ricadrebbe su di voi, sul partito, sul Paese».
L’aberrante lavata di mani: «Non è l’uomo che conosciamo»
Il racconto del 25 aprile 1978 delineato da Sciascia non lascia dubbi sulle intenzioni dei colleghi di partito di Moro:
«È il 25 aprile e nella sede centrale della DC, nella romana piazza del Gesù, viene distribuito ai giornalisti un documento che ho già definito, per come mi parve e mi pare, mostruoso. Una cinquantina di persone, “amici di vecchia data” dell’onorevole Moro solennemente assicurano che l’uomo che scrive le lettere a Zaccagnini, che chiede di essere liberato dal carcere del popolo e argomenta sui mezzi per farlo, non è lo stesso uomo di cui sono stati lungamente amici, al quale per “comunanza di formazione culturale, di spiritualità cristiana e di visione politica” sono stati vicini. “Non è l’uomo che conosciamo, che con la sua visione spirituale, politica e giuridica ha ispirato il contributo alla stesura della stessa Costituzione repubblicana”».
Una crudele verità
Durante gli ultimi giorni di aprile a Moro appare chiaro il suo destino. Rassegnatosi al non intervento da parte del Governo, si limita a indirizzare lettere di affetto alla famiglia e a dare disposizioni sulle sue esequie: che il suo funerale si svolga nell’anonimato, che non sia istituito il lutto nazionale e che sia accompagnato solo da familiari e pochi intimi.
La conclusione a cui perviene Sciascia all’interno del testo si allinea al pensiero che ha sfiorato tutta Italia in quegli anni: gli alti nomi della Democrazia Cristiana di fatto consentirono l’esecuzione di Aldo Moro.
Estremamente calzante la citazione da “La provincia dell’uomo” di Elias Canettinell’introduzione de L’affaire Moro, che rivela una crudele verità:
«La frase più mostruosa di tutte: qualcuno è morto al momento giusto»
- Elias Canetti, "La provincia dell'uomo" in L. Sciascia, L'affaire Moro
Negli occhi si leggeva la voglia di cambiare La voglia di Giustizia che lo portò a lottare […] Era la notte buia dello Stato Italiano Quella del nove maggio settantotto La notte di via Caetani, del corpo di Aldo Moro, l’alba dei funerali di uno stato…
Cantavano così, nel 2004, i Modena City Ramblers con la canzone I cento passi che, insieme all’omonimo film di Giordana, celebra la vita e denuncia la morte di Giuseppe «Peppino» Impastato. Versi importanti che si soffermano non solo su Impastato, ma anche sull’uccisione di Moro, avvenuta nella stessa notte. «L’alba dei funerali di uno stato», dicono. Perché così è stato. La mattina del 9 maggio 1978 l’Italia si sveglia sotto una cattiva bandiera, quella dell’illegalità e della soppressione di figure coraggiosamente “scomode”: l’onorevole Aldo Moro, ucciso dalle Brigate Rosse, e Giuseppe Impastato, ucciso a soli 30 anni dai suoi vicini di casa, boss di «Cosa Nostra».
Ma chi era Giuseppe Impastato e perché la mafia l’ha ucciso?
Il coraggio di ribellarsi
Giuseppe Impastato nasce a Cinisi (PA) il 5 gennaio del 1948 da Felicia Bartolotta e Luigi Impastato. Una famiglia ben inserita nella realtà locale, quella mafiosa. Il padre era stato mandato al confino di polizia durante il periodo fascista. Una zia di Giuseppe, sorella di Luigi, aveva sposato Cesare Manzella, boss mafioso che aveva visto nel traffico di droga la nuova strada per accumulare denaro. Manzella, infatti, morirà nella sua Alfa Romeo Giulietta imbottita di tritolo, in un agguato mafioso nel 1963.
Giuseppe si ritrova a crescere, dunque, in un ambiente che non fa sconti a nessuno, uno di quei posti dove si ha già il destino segnato. Perché se nasci in una famiglia mafiosa sai già cosa farai “da grande”. Ma Giuseppe non si arrende a questo “destino”. No, “Peppino” lo capisce subito che qualcosa non va, che non è quello il modo di farsi strada nella vita. E proprio l’uccisione di Manzella scuote fortemente la coscienza “antimafiosa” di Giuseppe. A soli quindici anni termina i rapporti con il padre, che lo caccerà di casa giurando «E questa è la mafia? Se questa è la mafia allora io la combatterò per il resto della mia vita».
Quando, nel ’77, il padre morirà in un incidente stradale sospetto, al funerale, Giuseppe rifiuterà di stringere la mano dei boss locali.
L’impegno politico
Terminati gli studi al Liceo Classico di Partinico (PA), Peppino si avvicina alla politica. Nel 1965 fonda il giornalino L’idea socialista, aderendo al PSIUP, Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria. Un impegno politico che va oltre la lotta alla mafia. Dal 1968 in poi partecipa in qualità di dirigente alle attività dei gruppi comunisti. Fa proprie le lotte dei contadini espropriati per la costruzione della terza pista dell’aeroporto di Palermo in territorio di Cinisi, degli edili e dei disoccupati.
«Arrivai alla politica nel lontano novembre del ’65, su basi puramente emozionali: a partire cioè da una mia esigenza di reagire ad una condizione familiare ormai divenuta insostenibile». Con queste parole Giuseppe racconta, in una sua autobiografia abbozzata, di come sia arrivato a intraprendere un cammino coraggioso e rischioso. «Mio padre», continua, «capo del piccolo clan e membro di un clan più vasto, con connotati ideologici tipici di una civiltà tardo-contadina e preindustriale, aveva concentrato tutti i suoi sforzi, sin dalla mia nascita, nel tentativo di impormi le sue scelte e il suo codice comportamentale. È riuscito soltanto a tagliarmi ogni canale di comunicazione affettiva e compromettere definitivamente ogni possibilità di espansione lineare della mia soggettività. Approdai al PSIUP con la rabbia e la disperazione di chi, al tempo stesso, vuole rompere tutto e cerca protezione… Erano i tempi della rivoluzione culturale e del “Che”. Il ’68 mi prese quasi alla sprovvista. Partecipai disordinatamente alle lotte studentesche e alle prime occupazioni. Poi l’adesione, ancora una volta su un piano più emozionale che politico, alle tesi di uno dei tanti gruppi marxisti-leninisti, la Lega… Passavo, con continuità ininterrotta, da fasi di cupa disperazione a momenti di autentica esaltazione e capacità creativa: la costruzione di un vastissimo movimento d’opinione a livello giovanile, il proliferare delle sedi di partito nella zona, le prime esperienze di lotta di quartiere, stavano lì a dimostrarlo».
Radio Aut
Il suo impegno sul territorio non riguarda, però, solo l’aspetto politico. Nel ’75 istituisce il Circolo Musica e cultura, promotore di una serie di attività culturali come cineforum, musica dal vivo, teatro e dibattiti. Del circolo facevano parte anche il Collettivo Femminista e il Collettivo Antinucleare.
Ma la sua lotta agli interessi mafiosi di Cinisi (PA) si fa concreta quando, nel 1977, fonda Radio Aut– giornale di controinformazione radiodiffuso, emittente autofinanziata con sede a Terrasini (PA). Lo scopo era quello di fare controinformazione e, soprattutto, di fare satira nei confronti della mafia e degli esponenti della politica locale, denunciando i crimini e gli affari dei mafiosi di Cinisi e Terrasini. Ridicolizzando così la mafia, andrà a colpire proprio i pilastri dell’organizzazione: l’onore e il rispetto. Principale bersaglio degli attacchi radiofonici era il capomafia Gaetano Badalamenti («Tano Seduto», come lo chiamava Peppino), che aveva un ruolo di primo piano nei traffici internazionali di droga attraverso il controllo dell’aeroporto di Punta Raisi (PA).
L’omicidio ha un nome chiaro: MAFIA
Nel 1978, invece, Peppino si candida alle elezioni comunali di Cinisi (PA) nelle liste della Democrazia Proletaria. Le elezioni si sarebbero tenute il 14 maggio 1978, ma Giuseppe non fa in tempo a vederne i risultati. Nonostante gli avvertimenti ricevuti durante una campagna elettorale incentrata sui continui attacchi ai Badalamenti, qualche giorno prima delle elezioni era avvenuta l’esposizione di una documentata mostra fotografica sulla devastazione del territorio ad opera di speculatori e gruppi mafiosi. La notte tra 8 e 9 maggio, Peppino Impastato viene rapito e assassinato, a 30 anni, dalla mafia locale, dai Badalamenti, suoi vicini di casa che abitavano a 100 passi di distanza.
Il corpo di Impastato viene fatto saltare in aria con una carica di tritolo sui binari della ferrovia di Cinisi, sulla tratta Palermo-Trapani. Il corpo, sì. Perché Peppino Impastato era già stato ucciso, in un casolare in una stradina nei pressi dell’aeroporto, prima di essere adagiato sui binari della vicina ferrovia per simulare un’esplosione accidentale nel corso di un fallito attentato.
Un omicidio che, da subito, si era tentato di far passare come un attentato terroristico, nel quale Giuseppe sarebbe rimasto vittima del suo stesso tentativo di sabotare la ferrovia. In un fonogramma del 9 maggio, infatti, il procuratore Gaetano Martorana scriveva:
«Attentato alla sicurezza dei trasporti mediante esplosione dinamitarda. Verso le ore 00.30-1 del 9.05.1978 persona allo stato ignota, ma presumibilmente identificata in tale Impastato Giuseppe si recava a bordo della propria autovettura all’altezza del km. 30+180 della strada ferrata Trapani-Palermo per ivi collocare un ordigno dinamitardo che, esplodendo, dilaniava lo stesso attentatore».
Una spiegazione che non ha mai convinto. Sui muri di Cinisi (PA) appare da subito un manifesto di Democrazia Proletaria che dichiara la matrice mafiosa. A Palermo un altro manifesto recitava: «Peppino Impastato è stato assassinato dalla mafia».
La vicenda giudiziaria
Il processo per l’individuazione dei responsabili non è stato né semplice né immediato. Nel maggio del 1984 l’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, sulla base delle indicazioni del giudice Consigliere istruttore Rocco Chinnici (avviatore del primo pool antimafia, assassinato nel luglio 1983), emette una sentenza, firmata dal consigliere istruttore Antonino Caponnetto, sostituto di Chinnici, in cui si riconosce la matrice mafiosa del delitto, attribuito però ad ignoti.
Nel 1986ilCentro Impastatopubblica la biografia della madre di Peppino, nel volume La mafia in casa mia, indicando come mandante del delitto il
boss Gaetano Badalamenti, condannato intanto a 45 anni di reclusione per traffico di droga dalla Corte di New York, nel processo alla Pizza connection. Il caso viene però archiviato nel maggio del 1992 ribadendo la matrice mafiosa, ma escludendo la possibilità di individuare i responsabili.
Soltanto nel giugno del 1996, in seguito alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Salvatore Palazzolo, che aveva indicato Gaetano Badalamenti come mandante dell’omicidio, l’inchiesta viene riaperta. Nel novembre del 1997 viene emesso un ordine di cattura per Gaetano Badalamenti, incriminato come mandante del delitto. L’11 aprile 2002 Gaetano Badalamenti è riconosciuto colpevole e condannato all’ergastolo.
La memoria di Peppino, “amico siciliano”
La rabbia per la perdita e l’ingiustizia hanno però contribuito a mantenere viva sin da subito la memoria di un giovane coraggioso. Alle elezioni comunali di Cinisi (PA) del 14 maggio 1978, infatti, Giuseppe Impastato era stato simbolicamente eletto al Consiglio comunale, nonostante fosse morto 5 giorni prima. Al funerale di Peppino Impastato parteciparono più di mille persone, provenienti da Palermo e dai comuni vicini.
Peppino Impastato è stato uno dei primi a ribellarsi e a denunciare l’operato della mafia. E l’ha fatto, sin da ragazzino, nel modo più brutale possibile, distruggendo uno dei vincoli più importanti dell’organizzazione mafiosa: la “famiglia”. Oramai simbolo di lotta, coraggio e giustizia, Peppino è il destinatario di numerose commemorazioni e iniziative.
Dal cinema, con uno straordinario Luigi Lo Cascio agli esordi ne I cento passi di Marco Tullio Giordana, alla musica, con l’oramai celebre I cento passi dei Modena City Ramblers.
Ma oltre al cinema e alla musica, molte sono le iniziative volte a onorare la sua memoria e il suo operato. Tra le tante si ricordano:
l’8 maggio 1998, l’Università degli Studi di Palermo gli conferisce la laurea honoris causa in Filosofia alla memoria;
dal maggio 2002 si svolge a Cinisi il Forum Sociale Antimafia«Felicia e Peppino Impastato»;
Acireale, Taranto, Torino, Velletri e Quartu Sant’Elena (CA) gli hanno dedicato vie, piazze, giardini e laghetti;
il 10 marzo 2010, il Partito della Rifondazione Comunista di Taranto inaugura un circolo intitolato in suo nome, alla presenza del fratello;
il 20 aprile 2010 a Perugia, in occasione del Festival Internazionale del Giornalismo, presso i giardini del Pincetto, è stato piantato un ulivo e posta una targa in memoria di Peppino Impastato e dei giornalisti uccisi per mano della mafia;
il 15 maggio 2010 la chiave della casa di Gaetano Badalamenti, sita in corso Umberto, è stata consegnata al sindaco di Cinisi; successivamente, l’immobile è stato consegnato ufficialmente all’Associazione Culturale Peppino Impastato di Cinisi (PA);
nel 2012 la casa di Peppino Impastato diventa bene culturale come “testimonianza della storia collettiva e per la sua valenza simbolica di esempio di civiltà e di lotta alla mafia”.
Inoltre, ogni anno, a Cinisi (PA), in occasione dell’anniversario della morte, si organizza un corteo cui prendono parte sindaci da tutta Italia insieme a migliaia di giovani. Non si tratta di un corte fine solo al ricordo di Peppino Impastato, ma anche di una forte presa di posizione contro la mafia per portare avanti le idee e l’impegno di un giovane eroe. Quest’anno, a causa dell’attuale situazione pandemica, il corteo si è svolto in maniera anomala: un corteo virtuale. Perché la pandemia può anche “costringere” a casa, ma la lotta alla mafia e all’illegalità, unite al ricordo di Peppino Impastato, non si ferma.
«La mafia è una montagna di merda!».
- Peppino Impastato, 1948-1978
9 maggio 1978: l’Italia venne scossa da due episodi talmente gravi da poter affermare che in questa data, 43 anni fa, l’Italia morì due volte. Oggi, a causa di questi avvenimenti, ricorre il «Giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice»; la Giornata venne istituita il 4 maggio 2007 e viene celebrata il 9 maggio in considerazione del fatto che in questa data venne ucciso brutalmente dalle Brigate RosseAldo Moro; lo stesso giorno venne assassinato il giornalista Peppino Impastato.
Caso Moro
L’episodio di Moro ha suscitato fin da subito un grande interesse mediatico, data la posizione pubblica del politico. Il presidente della DC venne rapito il 16 marzo 1978 dalle Brigate Rosse; durante l’atto vennero uccisi anche gli uomini della scorta. Durante il periodo di prigionia il Paese si divise in due schieramenti: chi sosteneva si dovesse trattare con i terroristi e chi, invece, si rifiutava di scendere a compromessi. Lo Stato alla fine scelse la linea dura e il 9 maggioilcorpo del politico venne rinvenuto senza vita all’interno del bagagliaio di una Renault 4 in via Michelangelo Caetani a Roma.
Caso Impastato
La vicenda di Peppino Impastato ha avuto inizialmente un impatto minore. Il giornalista e attivista nel 1978 si candidò al consiglio comunale della sua città, Cinisi (PA), nella lista di Democrazia Proletaria; tra l’8 e il 9 maggio dello stesso anno venne brutalmente ucciso, legato ai binari con una carica di tritolo posta sotto al corpo. A causa di possibili depistaggi di stampo mafioso, all’inizio venne considerato come lui stesso un attentatore a cui andò storto qualcosa o alcuni pensarono a un episodio di suicidio. Si dovette attendere il 1984 per avere una prima sentenza dove si leggeva dell’ombra della mafia dietro la sua morte. Dopo alcune archiviazioni negli anni ’90, nonostante la matrice mafiosa fosse oramai confermata, si dovettero aspettare due date significative:
5 marzo 2001, la corte d’assise condanna Vito Palazzolo a trent’anni di carcere poiché mandante dell’omicidio Impastato;
11 aprile 2002, venne inflitto l’ergastolo a Gaetano Badalamenti per aver ordinato l’omicidio Impastato.
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