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ATTUALITÀ | Canti e racconti natalizi dei primi del ‘900: l’evento musicale a Catania

Giovedì 23 dicembre, alle 16.00, nella Chiesa Monumentale di San Nicolò l’Arena, l’evento musicale dedicato alle tradizioni musicali natalizie dei quartieri catanesi nei primi del ‘900, organizzato dal Dipartimento di Scienze della formazione.

Tradizioni musicali catanesi nei primi del ‘900

Riscoprire gli antichi “suoni” dei quartieri catanesi tra canti e racconti natalizi dei primi del ‘900. È una dimostrazione, aperta a tutta la cittadinanza, per far conoscere le risorse culturali, materiali e immateriali, proprio per preservarne e promuoverne l’identità culturale. Si terrà appunto giovedì 23 dicembre nella Chiesa Monumentale di San Nicolò l’Arena, grazie all’evento musicale “Natale in quartiere. Alla scoperta delle tradizioni musicali natalizie dei quartieri catanesi nei primi del ‘900”.

Angoli di Natale a Catania

Ad organizzarlo il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università di Catania in collaborazione col Comune di Catania (assessorato alla Cultura) e con le associazioni di quartiere Antico Corso e Acque Dotte.

All’evento interverranno Francesco Priolo, rettore dell’Università di Catania, il sindaco Salvo Pogliese e l’assessore alla Cultura Barbara Mirabella. Insieme ad essi, inoltre, anche la direttrice del Dipartimento di Scienze della formazione Loredana Cardullo e la docente Eleonora Pappalardo, delegata alla Comunicazione del Disfor.

nanareddi

Protagonisti saranno i Nanareddi, gruppo musicale guidato da Alfio Leocata (voce, friscalettu e zampogna) e composto da Francesco D’Arrigo (poeta), Rosa Alba Nicolosi (violino), Torquato Tricomi (chitarra), Piero Pia (chitarra) e Roberto Pia (contrabasso). Un gruppo che da anni conduce una meticolosa ricerca filologica sulle tradizioni novenistiche catanesi, in particolare quelle relative ai primi decenni del ‘900.

I Nanareddi

In quegli anni, infatti, i Nanareddi, artisti di strada improvvisati, dal 16 al 24 dicembre giravano per la Civita (antico quartiere etneo) esibendosi in canti e racconti natalizi, davanti alle case, alle botteghe ed alle cone (icone sacre), coniugando episodi del nuovo testamento a vanniate profane.

<<Incoraggiati dalla Chiesa, con lo scopo di diffondere il linguaggio “evangelico”, i Nanareddi traducevano, a modo proprio, i testi dal latino al siciliano, per renderli comprensibili a tutti gli abitanti del quartiere>>, spiega Alfio Leocata. <<La rappresentazione>>, continua il musicista, <<viene infatti riproposta così com’è nata all’origine, e questo è reso possibile grazie al ritrovamento “eccezionale” di un disco in 78 giri in bachelite del 1934 ed alle preziose testimonianze civitote>>.

Le parole della prof.ssa Pappalardo

«L’idea di un’esibizione dei Nanareddi aperta a tutta la cittadinanza è stata maturata nel tempo – ha spiegato la prof.ssa Eleonora Pappalardo, delegata alla comunicazione del Dipartimento di Scienze della formazione -. Abbiamo infatti la possibilità, grazie a questo evento, di assistere ad una “dimostrazione” concreta delle sonorità della tradizione catanese, e il Dipartimento di Scienze della Formazione ha, giustamente, voluto coinvolgere il territorio».

«Catania è senz’altro un grande “contenitore” eccezionale di risorse culturali, materiali e immateriali, e proprio quest’ultime sono senz’altro le più fragili, quelle che maggiormente rischiano di essere perdute e non tramandate alle generazioni future – ha aggiunto la docente dell’ateneo catanese -. Tuttavia, la cultura immateriale, che comprende, tra le altre cose, la lingua, le leggende, le tradizioni e la musica, costituisce una parte fondamentale della nostra identità. Una cultura, infatti, che va preservata, valorizzata e promossa; annoverata con orgoglio tra le risorse che rendono unica la nostra città. Proprio in questa direzione, dunque, l’Ateneo catanese si muove negli ultimi anni, all’insegna dei principi della Terza Missione che vedono l’Università come una realtà attiva nel territorio, al fine di preservarne e promuovere l’identità culturale».

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ATTUALITÀ | Nick La Rocca: Il siciliano che ha “inventato” il jazz

“Il jazz è anche la Sicilia”. Me lo disse qualche anno fa Giorgio Gaslini, uno dei più grandi musicisti italiani di sempre (per intenderci il compositore, tra le altre cose, della celebre colonna sonora di “Profondo Rosso”, capolavoro horror di Dario Argento, targata Goblin), a Messina per un concerto che si tenne al Palacultura “Antonello da Messina”. Un’affermazione fondata, reale, senza retorica. È un fatto che storia del jazz – o della musica afro americana che dir si voglia – sia costellata da nomi dal sapore meridionale e non molti sanno – se non gli addetti ai lavori – che proprio agli albori di quella che è considerata la corrente artistica più importante del ‘900 – il jazz appunto – in quel di New Orleans, era proprio un siciliano a fondare la band che avrebbe registrato uno dei primi album della storia di questo grande linguaggio.

Parliamo di un nome che oggi riecheggia nei libri di storia, negli annali della musica, nelle parole di tutti i grandi jazzisti. Nato nel 1899 da genitori trapanesi (il padre era di Salaparuta la madre di Poggioreale), Nick La Rocca iniziò a suonare la cornetta (tipico strumento della tradizione bandistica italiana) all’età di 15 anni. Da lì in poi si fece largo in quel “marasma” di suoni, stili, pensieri, culture che era la foce del Mississippi all’inizio del ‘900, patria indiscussa del jazz. 

jazz
La New Orleans del secolo scorso

Non sono pochi i motivi per cui il destino scelse quella piccola, ma assai florida città del sud come culla del genere. New Orleans fu per quasi più di un secolo scalo obbligato nella tratta degli schiavi e il porto che dalla fine del XIX secolo accolse migliaia di immigrati francesi, tedeschi e italiani. Un mare di tradizioni che invase la città. Non furono certo gli americani a dare avvio a questa grande musica (almeno non quelli originari delle 13 colonie). Furono invece i nipoti degli schiavi liberati e i meridionali in cerca di fortuna, unendo le loro culture, a plasmare le basi dello “swing”; termine che ci ricorda il periodo d’oro delle big band degli anni ’30 e ’40, ma che in realtà ha ben più lontane radici (la modalità “nuova”  di scandire il tempo). Certo, la musica che potevamo sentire nelle piazze di New Orleans, durante i funerali e i matrimoni, e nelle bettole non era proprio quel tipo di musica che ci ricorda oggi il termine jazz; sempre che questo termine abbia un significato quantomeno artistico.

Quando La Rocca – insieme a centinaia di altri – cominciava a riprodurre in chiave bandistica i temi della tradizione popolare americana mischiandoli a quella della banda e soprattutto ai ritmi che gli afro americani avevano portato dall’Africa e mantenuto nelle “capanne dello zio Tom”, la parola “jazz” non esisteva. Comparì per la prima volta nel 1915 e fu La Rocca a introdurla, quando nelle strade e nei localetti a luci rosse di New Orleans, faceva il suo esordio l’Original Dixieland Jass Band guidata proprio dal cornettista originario di Trapani. Fu la prima band registrata in cui compare la parola “jazz”. Del 1917 il primo disco della band registrato a New York negli studi della Victor Records. Un primato assoluto tenuto conto che l’opera musicale di Nick La Rocca e brani come “Tiger Rag” e “Livery Stable Blues” oggi sono standard a tutti gli effetti, proposti e riproposti, certo, in una chiave decisamente più moderna. 

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Nick La Rocca

Sul perché poi la parola da “jass” fu cambiata in “jazz” aleggiano miti e leggende. Una caratteristica del jazz tutto. Una prassi dovuta ai background oscuro e complesso dei protagonisti di cui spesso si sapeva ben poco. Anche sulla parola “jazz” la storia propone innumerevoli spiegazioni. Per alcuni “jazz” è il termine utilizzato per simulare il suono del charleston (i due piatti della batteria montati su un’asta e suonati con il piede sinistro) che dava la tipica pulsazione sul 2 e sul 4 della battuta. O ancora il termine “jazz” deriverebbe da “jizz”: termine legato al mondo sessuale e ricercabile facilmente sul web. Insomma, la quantità di storie legata all’imbarazzante numero di informazioni mai certificate su molti autori e musicisti fa del jazz non solo un grande linguaggio che unisce tutto il mondo, ma soprattutto una “religione” con le sue credenze, i suoi simboli le sue tradizioni immutate fino ad oggi. In ogni caso – sul termine “jazz” – la spiegazione maggiormente accettata è quella legata a Nick La Rocca.

L’Original Dixieland Jazz Band nel 1925, dopo aver preso New York come base operativa ed aver registrato un altro disco per la Columbia Records, si sciolse a causa del manifestarsi del senso di “sdegno” da parte della classe dirigente newyorkese che vedeva nel jazz un fenomeno legato al consumo di alcool, alla prostituzione e alla delinquenza. Tutto falso, o meglio, solo l’apparenza e le leggi – per nostra fortuna – durarono molto poco. Quanto bastò, però, a convincere La Rocca a sospendere l’attività musicale.

Tornato nelle scene nel 1936, quando il mondo era cambiato e con lui anche il jazz, Nick La Rocca non riuscì a mantenere la cresta dell’onda. Rimase lui il creatore del jazz e il “Cristoforo Colombo” della musica (amava presentarsi così). Un’esagerazione che non darebbe giustizia certo ai tanti che in quegli anni tra la Belle Époque e la catastrofe della prima guerra mondiale, tra schiavismo latente e tolleranza, tra le piazze, le strade e le campagne dove l’Africa incontrava la Sicilia, le trombe suonavano per la prima volta coi tamburi in pelle e i violini accompagnavano i primi “spirituals”, creavano – senza saperlo – quello stile musicale perfetto e indecifrabile capace di unire Est ed Ovest, Sud e Nord in un unico linguaggio. Nick La Rocca, nato da genitori trapanesi,  fu certamente tra questi.