SPECIALE GIORNO BUIO | “L’affaire Moro”, il dramma democristiano raccontato da Sciascia
Scritto nel 1978, Leonardo Sciascia ci consegna un testo di prezioso valore politico, nonché un tragico pezzo di storia della Repubblica Italiana: L’affaire Moro. Il libro è un’attenta cronistoria dei fatti avvenuti dalla mattina del 16 marzo 1978, giorno in cui l’automobile che trasportava Aldo Moro alla Camera dei Deputati fu intercettata dalle Brigate rosse, fino al 9 maggio quando, nel baule di una Renault 4 parcheggiata a Roma in via Caetani, fu ritrovato il corpo del presidente di Democrazia Cristiana.
L’obiettivo dello scrittore siciliano è chiaro: ricostruire quanto più analiticamente possibile ciò che è veramente accaduto in quei 55 giorni di prigionia. Sciascia, che al tempo fu anche membro della Commissione parlamentare d’inchiesta sull’omicidio Moro, riversa nelle pagine la triste verità che è avvenuta in quei mesi del 1978 scrivendo:
«Lo Stato italiano – così com’era – fece da ouverture a quel melodramma di amore allo Stato che sulla scena italiana grandiosamente si recitò dal 16 marzo al 9 maggio […] vittima di questa grandiosa messa in scena fu Aldo Moro».
Moro colpevole di voler aprire un dialogo tra DC e Partito Comunista Italiano
Il «melodramma di amore allo Stato» di cui parlò Sciascia, fu rappresentato dal vanaglorioso quanto inutile tentativo di far risaltare lo Stato italiano come forte e ineluttabile di fronte al “ricatto politico” perpetrato dalle Brigate rosse. Moro, fautore del compromesso storico consistente nell’aprire un dialogo tra la DC e il PCI, fu rapito e incarcerato dalle Br. La sua condotta politica e, in particolare, il suo ruolo di mediatore tra fronti ideologicamente opposti destarono il malcontento dei due partiti. L’ipotesi di essere assoggettata a quello Stato democratico non piacque all’ala estremista della sinistra, che colse l’occasione per lanciare un segnale sequestrando Moro.
Il 16 marzo 1978 l’onorevole Aldo Moro venne rapito
In quello stesso giorno l’onorevole Andreotti avrebbe presentato il programma del nuovo governo, sorretto anche dai voti comunisti. Portato alla “Prigione del Popolo”, Moro definito in quei giorni «grande statista» dai giornali, passa il suo tempo ad indirizzare lettere ai maggiori esponenti politici quali Cossiga, Andreotti, Fanfani, Zaccagnini, Craxi. Da questi non partirà alcun provvedimento in aiuto di Moro. Solo durante il periodo degli ultimatum dati dalle Brigate rosse, papa Paolo VI chiederà un gesto di misericordia nei confronti del prigioniero. Le Brigate rosse minacciavano di uccidere Moro, qualora il Governo non avesse acconsentito alla liberazione di 13 brigatisti detenuti.
L’intervento del pontefice non basta a scuotere gli animi dei vertici della DC, che nemmeno propongono una controfferta né cercano di mediare per la liberazione di Moro. Una situazione surreale si viene a delineare: il presidente della Democrazia Cristiana viene fatto prigioniero e i suoi stessi compagni di partito non muovono un dito per salvarlo. Il 20 aprile viene emesso il settimo comunicato da parte delle Br, poche ore dopo arriva una lettera di Moro a Zaccagnini nella quale scrive:
«Mi rivolgo individualmente a ciascuno degli amici che sono al vertice del partito e con i quali si è lavorato insieme per anni nell’interesse della DC. Penso ai sessanta giorni cruciali di crisi vissuti insieme con Piccoli, Bartolomei, Galloni, Gaspari sotto la tua guida e con il continuo consiglio di Andreotti. Dio sa come mi son dato da fare, per venirne fuori bene. Non ho pensato no, come del resto mai ho fatto, né alla mia sicurezza né al mio riposo. Il Governo è in piedi e questa è la riconoscenza che mi viene tributata, per questa come per tante altre imprese. In allontanamento dai familiari senza addio, la fine solitaria, senza la consolazione di una carezza, del prigioniero politico condannato a morte. Se voi non intervenite sarà scritta una pagina agghiacciante nella storia d’Italia. Il mio sangue ricadrebbe su di voi, sul partito, sul Paese».
L’aberrante lavata di mani: «Non è l’uomo che conosciamo»
Il racconto del 25 aprile 1978 delineato da Sciascia non lascia dubbi sulle intenzioni dei colleghi di partito di Moro:
«È il 25 aprile e nella sede centrale della DC, nella romana piazza del Gesù, viene distribuito ai giornalisti un documento che ho già definito, per come mi parve e mi pare, mostruoso. Una cinquantina di persone, “amici di vecchia data” dell’onorevole Moro solennemente assicurano che l’uomo che scrive le lettere a Zaccagnini, che chiede di essere liberato dal carcere del popolo e argomenta sui mezzi per farlo, non è lo stesso uomo di cui sono stati lungamente amici, al quale per “comunanza di formazione culturale, di spiritualità cristiana e di visione politica” sono stati vicini. “Non è l’uomo che conosciamo, che con la sua visione spirituale, politica e giuridica ha ispirato il contributo alla stesura della stessa Costituzione repubblicana”».
Una crudele verità
Durante gli ultimi giorni di aprile a Moro appare chiaro il suo destino. Rassegnatosi al non intervento da parte del Governo, si limita a indirizzare lettere di affetto alla famiglia e a dare disposizioni sulle sue esequie: che il suo funerale si svolga nell’anonimato, che non sia istituito il lutto nazionale e che sia accompagnato solo da familiari e pochi intimi.
La conclusione a cui perviene Sciascia all’interno del testo si allinea al pensiero che ha sfiorato tutta Italia in quegli anni: gli alti nomi della Democrazia Cristiana di fatto consentirono l’esecuzione di Aldo Moro.
Estremamente calzante la citazione da “La provincia dell’uomo” di Elias Canetti nell’introduzione de L’affaire Moro, che rivela una crudele verità:
«La frase più mostruosa di tutte: qualcuno è morto al momento giusto» - Elias Canetti, "La provincia dell'uomo" in L. Sciascia, L'affaire Moro