NEWS | La scoperta di un unguentario “egizio” in una sepoltura etrusca intatta a Vulci (VT)
Già qualche anno fa, prima nel 2013 e poi nel 2016, alcuni reperti provenienti dall’area di Vulci (VT) sottolineavano un collegamento con l’Egitto. Si trattava, come scrive in un suo articolo il dott. Mattia Mancini, di tre scarabei che si inserivano perfettamente in quella che era una fase “Orientalizzante” (VIII-VI sec. a.C. circa). Durante questo periodo si assistette a una larga diffusione, in tutto il Mediterraneo, di diverso materiale proveniente da Egitto, Mesopotamia, Siria, Anatolia e Cipro, prevalentemente.
È di pochi giorni fa, invece, l’annuncio dell’apertura della sepoltura di una donna, databile al VI sec. a.C., inviolata da 2600 anni, nella necropoli dell’Osteria. Al suo interno erano presenti i resti ossei, ancora in connessione anatomica, di una donna di circa 20 anni. Aveva un corredo funerario comprendente vaghi di collana in ambra, un’olla chiusa da una coppa greca in stile ionico e tre in bucchero (ceramica tipicamente etrusca); ma anche un kyathos (attingitoio) e un’oinochoe (brocca da vino).
Nell’edizione del 18 giugno 2021 del TGR Regione Lazio è possibile vedere, al minuto 9 circa, il servizio sull’apertura della tomba inviolata.
Un rinvenimento particolare
Ad attirare maggiormente l’attenzione degli studiosi su questa sepoltura è un piccolo oggetto in faience azzurra, un unguentario che rappresenta una donna accovacciata con la schiena coperta da una pelle maculata, probabilmente di leopardo (gialla con macchie nere), con una acconciatura corta e riccioluta e, tra le gambe, un grande contenitore ceramico chiuso con un tappo a forma di rana (di cui manca la testa).
«Non è un oggetto unico, ma molto raro», afferma Carlo Casi, a capo dell’equipe della Fondazione Vulci. «La nostra tomba è molto importante perché intatta e questo ci consente di poter ricostruire l’identikit del defunto. Abbiamo un’ipotesi un po’ ardita. La ragazza potrebbe essere stata in vita un’addetta alla mescita del vino. Anche il balsamario, con la chiusura in pelle del vaso rimanda al processo della fermentazione di liquidi (forse la birra). Nell’Antico Egitto la birra era molto consumata e per essere prodotta doveva subire un lento processo di fermentazione. La chiusura (dell’unguentario, ndr) in pelle serviva a facilitare la fermentazione».
Gli unguentari del Nilo
Il realtà, almeno nel loro contesto originario, questa tipologia di unguentari, detta “Nilo”, fungeva da contenitori per l’acqua del sacro fiume e, in un secondo momento, come hanno chiarito le analisi chimiche svolte su tali oggetti, erano stati utilizzati come contenitori per latte o sostanze oleose. Da “fiaschette” per l’acqua sacra del Nilo erano divenuti veri e propri unguentari per oli e profumi, molto in voga nei corredi funerari femminili. La giara tenuta dalla figurina, alla luce di ciò, non può fungere da contenitore per vino o birra e, nel contesto di Vulci, difficilmente può dare una conferma circa l’identità (quantomeno lavorativa) della defunta (fonte Djed Medu). Spetterà alle analisi scientifiche chiarire il contenuto del piccolo contenitore, qualora fosse possibile analizzarne eventuali residui.
Sia la pelle di leopardo, sia l’acconciatura, sia il materiale in cui è realizzato l’oggetto fanno propendere per l’attribuzione della sua origine a un contesto egiziano. Tuttavia, sottolinea il dott. Mancini, di questi vasetti antopomorfi se ne trovano diversi esemplari soprattutto fuori dal’Egitto, come in Grecia (principalmente a Rodi) e nella Magna Grecia (Sicilia, Campania ed Etruria). Molti studiosi ritengono che si tratti, invece, di una serie di oggetti prodotti nell’isola di Rodi, frutto di un mix di elementi iconografici greci ed egiziani: la parrucca “hathorica” (legata ad Hathor), corta e riccioluta, ad esempio, richiama anche quella della dea cananea Astarte.