ILLUSTRI SICILIANI | Salvatore Quasimodo, figlio di Messina
La vita di Salvatore Quasimodo, premio Nobel per la Letteratura nel 1959, raffinatissima anima siciliana, è legata alla città dello Stretto sin dalla prima giovinezza.
Nato a Modica il 20 agosto 1901, si trasferì a Messina nel 1908, dopo la catastrofe del terremoto, con il padre ferroviere; viste le condizioni precarie in cui versava la città, ormai fantasma, il piccolo Salvatore fu costretto a vivere con la famiglia, insieme a molti dei superstiti, sui vagoni dei treni: una simile esperienza lasciò un solco profondo nell’animo del poeta, ancora bambino; egli trascorse tutta l’adolescenza nella città, che si apprestava a risorgere dalle sue ceneri, conseguendo il diploma presso l’Istituto Tecnico “A. M. Jaci”, sezione fisico-matematica. Una simile formazione non era, però, affine alla sua indole, tutta incline alla poesia: proprio a Messina, presso riviste locali, pubblicò i suoi primi componimenti e strinse amicizia con Giorgio La Pira e Salvatore Pugliatti, quest’ultimo profondo appassionato di versi.
Dopo la maturità, Quasimodo, nel 1919, si spostò a Roma, per studiare ingegneria, pur mantenendo un viscerale legame con l’isola natia; tuttavia, nel suo cuore era vivo un richiamo antico: fu così, dunque, che, in Vaticano, presso monsignor Rampollo del Tindaro, iniziò lo studio del Greco e del Latino, lingue che accesero in lui un nuovo fuoco. Ciononostante, ben presto, per mantenersi, fu costretto a lavorare, impiegandosi al Genio Civile di Reggio Calabria: una simile occupazione, per lui faticosa e arida, poiché distante dai suoi interessi, lo costrinse lontano dalla sua amata poesia, alla quale poté tornare una volta riavvicinatosi alle amicizie del suo periodo messinese e alla Sicilia stessa: da questo momento in poi, Quasimodo riuscì a riempire la sua vita di “lettere”, pubblicando raccolte, collaborando, a partire dal 1929, grazie all’amico e cognato Elio Vittorini, alla rivista “Solaria” a Firenze, dove conobbe intellettuali quali Alessandro Bonsanti, Arturo Loira, Gianni Manzini, Eugenio Montale et similes, che subito ne apprezzarono le doti. In seguito, stabilitosi, nel 1930, a Milano, intraprese l’attività di giornalista che non interruppe mai, nemmeno quando, a partire dal 1941, insegnò letteratura italiana al Conservatorio musicale del capoluogo lombardo.
Di seguito, le sue raccolte di versi:
Acque e Terre (1930)
Oboe Sommerso (1932)
Ed è subito sera (1942)
Giorno dopo giorno (1947)
La vita non è un sogno (1949)
Il falso e vero verde (1956)
La terra impareggiabile (1958)
Dare e avere (1966)
Tra le pieghe della sua lunga esperienza poetica, è possibile discernere le linee dell’evoluzione della sua arte, dapprima in perfetta sintonia con il clima della letteratura ermetica, in seguito, specie tra gli anni Quaranta e Cinquanta, affine all’impegno neorealistico. Tuttavia, ciò che emerge dal Quasimodo di ogni decennio, è la fedele concezione della poesia come momento di sintesi delle contraddizioni personali e storiche e come punto di vista superiore e privilegiato.
Ancora, egli fece poesia persino con versi altrui: dopo essersi accostato allo studio delle lingue classiche, scoprì una profonda affinità con i lirici greci, colpito nel profondo dall’immediatezza di quelle parole antiche, spesso tràdite nella forma di brevi frammenti, la cui vaghezza di contorni doveva apparire, ai suoi occhi, quanto mai affine all’Ermetismo: nel 1940, pubblicò i Lirici Greci, una sua proposta di traduzione della lirica arcaica, ancora oggi apprezzatissima, ma tradusse anche parti dell’Odissea, i Tragici, i Carmina di Catullo, le Georgiche di Virgilio, il Vangelo di Giovanni e testi di vari autori moderni, tra cui Shakespeare, Cummings, Neruda, Eluard, Ruskin, Molière.
Morì il 14 giugno 1968, mentre viaggiava in auto verso Napoli, dopo essere stato colpito da un ictus ad Amalfi, dove si trovava, come presidente, in occasione di un premio di poesia.
L’Università di Messina, nel 1960, gli conferì una laurea honoris causa e la città dello Stretto volle ulteriormente fortificare il legame con questo suo figlio acquisito mediante cittadinanza onoraria.
Il poeta guardò sempre alla sua terra con occhi di sogno, colmi della nostalgia di un amore lontano, ferita senza speranza di guarigione.
Tindari, mite ti so
Fra larghi colli pensile sull’acque
Delle isole dolci del dio,
oggi m’assali
e ti chini in cuore.
Salgo vertici aerei precipizi,
assorto al vento dei pini,
e la brigata che lieve m’accompagna
s’allontana nell’aria,
onda di suoni e amore,
e tu mi prendi
da cui male mi trassi
e paure d’ombre e di silenzi,
rifugi di dolcezze un tempo assidue
e morte d’anima
A te ignota è la terra
Ove ogni giorno affondo
E segrete sillabe nutro:
altra luce ti sfoglia sopra i vetri
nella veste notturna,
e gioia non mia riposa
sul tuo grembo.
Aspro è l’esilio,
e la ricerca che chiudevo in te
d’armonia oggi si muta
in ansia precoce di morire;
e ogni amore è schermo alla tristezza,
tacito passo al buio
dove mi hai posto
amaro pane a rompere.
Tindari serena torna;
soave amico mi desta
che mi sporga nel cielo da una rupe
e io fingo timore a chi non sa
che vento profondo m’ha cercato.
Salvatore Quasimodo – Vento a Tindari, da Acque e Terre (1930).