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APPROFONDIMENTO | La Guerra agli albori della storia

La parola Guerra è tornata d’uso comune, soprattutto in relazione alle vicende di Russia e Ucraina. Non la si pronuncia più per riferirsi ad episodi storici o ad eventi percepiti lontani da noi, ma per descrive la nostra quotidianità o il nostro futuro prossimo. La guerra, tuttavia, non ha origine nel presente, ma è un affare antico almeno quasi quanto la storia stessa. Conoscerne gli inizi, pertanto, non è tempo sprecato.

Il contesto storico

La storia inizia canonicamente con l’invenzione della scrittura, alla metà del IV mil. a.C. nella città sumerica di Uruk (Iraq). I primi testi erano rendicontazioni amministrative, ma già alla metà del III mil. a.C. la scrittura è messa al servizio della narrazione, dell’affermazione della memoria. Si potrebbe immaginare che, tutti questi millenni fa, i ricordi dell’uomo fossero legati a semplici problemi di vita quotidiana, non certo ai grandi affari e interessi che caratterizzano il mondo contemporaneo. Invece no, le prime cronache del mondo antico parlano proprio di politica estera e di quanto fosse complesso la convivenza con i vicini.  Lo sappiamo dalla testimonianza di Ur-Našše, re della città sumerica di Lagaš, a cui è attribuito il più antico resoconto di guerra mai scritto dall’uomo, e non va certo per il sottile.

La Mesopotamia con evidenziate le principali città del III millennio a.C.
Bronzo e sassi

Ci troviamo in piena età del bronzo quando re Ur-Našše di Lagaš sale al potere. Dai testi conosciamo il suo grande interesse per la sistemazione ambientale del territorio, la prima pianificazione di una vasta rete idrica. Ciò comporta l’allargamento dei confini di stato per la volontà di sfruttare le sempre più ampie zone agricole, ma Ur-Našše non è solo. Gli stati di Ur e di Umma guardano le ricchezze del regno di Lagaš con certo interesse, e lo attaccano, vogliono le sue risorse. Sappiamo che l’attacco arrivò via terra, ma anche tramite imbarcazioni. È possibile sostenerlo perché tra i prigionieri fatti da Ur-Našše figura un comandante delle barche cargo, evidentemente impiegate per il trasporto di uomini e carri. Lo scontro fu cruento, e il resoconto del re di Lagaš non lascia adito su come finì questa vicenda, testimonianza che vale la pena leggere proprio così come fu scritta.

Pugnale sumerico con il suo fodero, rinvenuti nel cimitero reale di Ur, conservato presso l’Iraq Museum di Baghdad
Colline di cadaveri e l’invenzione della frontiera

Stando alla versione di Ur-Našše, l’iscrizione RIME 1.9.1.6b, è lo stato di Lagaš a compiere la prima mossa, non subisce ma incalza gli invasori: Il sovrano di Lagaš è andato in battaglia con il sovrano di Ur e il sovrano di Umma. Segue poi il bollettino di guerra. Per quanto riguarda lo scontro con Ur, la lista dei prigionieri comprende: il comandante delle barche; gli ufficiali Amabarasi e Dubgal; Papursag, il figlio di Bubu. Per quanto riguarda Umma: Pabilgaltuk, il re di Umma in persona; gli ufficiali Lupa, Billala, e Ursaggigir; Hursagšemah, il capo dei mercanti. Infine, il re di Lagaš fa degli sconfitti colline di cadaveri, macabro monito per ricordare quale sia la linea da non valicare, tema di cui ancora oggi si parla.

Il testo sumerico che tramanda le gesta di Ur-Našše di Lagaš

 

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APPROFONDIMENTO | Un consiglio da Lorenzo il Magnifico

Il 26 aprile ricorre l’anniversario della Congiura dei Pazzi, il golpe dove i de’ Pazzi attentarono alla vita di Lorenzo e Giuliano de’ Medici.

Figura centrale all’interno del mondo culturale e politico italiano nel Quattrocento, Lorenzo de’ Medici fu signore di Firenze e fautore dell’equilibrio tra gli Stati italiani. Tra le sue opere più note figurano i Canti Carnascialeschi, tra cui spicca il Trionfo di Bacco e Arianna, un vero e proprio capolavoro della cultura e della letteratura umanistica.

Ritratto di Lorenzo de’ Medici di Agnolo Bronzino (Galleria degli Uffizi, Firenze, 1555-1565)
La struttura del componimento

Il componimento si presenta come una ballata di sette stanze in ottonari (strofe di otto versi ciascuna), con ictus (accento principale) fisso sulla terza sillaba e sulla settima. È intervallata da una ripresa di quattro versi, con reciproca coincidenza, negli ultimi tre, delle parole in rima: “tuttavia” / “sia” / “certezza”.

Si tratta di una canzone a ballo composta in occasione del carnevale di Firenze del 1490: queste ballate solitamente accompagnavano un trionfo, cioè un carro mascherato, che durante il carnevale sfilava per le vie di Firenze  per volere di Lorenzo de’ Medici.

Il genere prende il nome di canti carnascialeschi e ha molta fortuna fino al Cinquecento.

I canti carnascialeschi musicati dal compositore Heinrich Isaac
Il significato della canzone

Nella ballata di Lorenzo viene esaltato Bacco, dio del piacere e della gioia, e Arianna, che fu sposata e resa immortale dalla divinità: c’è un’evidente propensione verso il godere delle gioie della vita, prima che quest’ultima passi e non lasci traccia di sé. Oltre ai due protagonisti compaiono altri personaggi, tutti accomunati dalla ricerca della felicità, come ad esempio i satiri che attendono le ninfe.

Non tutte le figure però sono contente, e che c’è chi, come il re Mida, pur vivendo nelle continue ricchezze e nei grandi lussi non riesce a essere felice.

Viene sviluppato limpidamente il tema della contrapposizione tra beni materiali, che recano un piacere solo momentaneo, e beni immateriali, che hanno un valore eterno (come la gioia e la spensieratezza). Troviamo inoltre il motivo oraziano del carpe diem, con un invito a godere dell’oggi e a non interrogarsi sul domani.

Bacco e Arianna di Tiziano (National Gallery, Londra, 1520-1523. Fonte: Google Art Project)
Cosa hanno recepito i moderni?

Se Lorenzo de’ Medici fosse ancora vivo probabilmente si stupirebbe nel constatare come i suoi precetti siano stati totalmente stravolti dall’uomo moderno. I contemporanei vivono in un mondo in cui i sentimenti non contano più nulla o quasi. 

L’uomo di oggi è talmente impegnato e concentrato su sé stesso da sembrare cieco rispetto a ciò che accade nel mondo, al punto da non rendersi conto di come la morte di molti sia il prezzo per la ricchezza di pochi. È necessario attingere alla memoria storica e culturale degli antichi perché essa rappresenta un tesoro di infinite ricchezze, a cui l’uomo dovrebbe tendere per imparare come progredire, non come regredire.

Cosa penserebbe oggi il Magnifico nel constatare che ci sono molti Mida e pochi Bacco e Arianna?

 

Immagine in copertina: Il trionfo di Bacco e Arianna di Annibale Carracci (Palazzo Farnese, Roma0)

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APPROFONDIMENTO | La diplomazia agli albori della storia

La diplomazia fa parte delle complesse dinamiche belliche, con lo scopo di trovare vie alternative allo scontro armato. Se ne parla molto negli ultimi tempi a proposito delle vicende tra Russia e Ucraina, ma, in realtà, il dialogo tra gli stati è una realtà che mai si arresta, seppur non sia evidente. L’abilità di giungere a un compromesso è, tuttavia, una virtù antica, e già ve ne sono accenni agli albori della storia, quando le guerre si combattevano con bronzo e sassi.

Il contesto storico

La prima guerra documentata nella storia umana è quella sostenuta dal re sumero Ur-Našše di Lagaš contro gli stati di Ur e Umma. Da quel momento si sviluppa il concetto di guerra di confine con la creazione della terra di nessuno a protezione della frontiera. A motivare il conflitto era il possesso delle risorse agricole della regione di Guedina, bramate da Umma e difese da Lagaš. Per più di cento anni la frontiera venne violata e ristabilita col sangue. Se ne legge un crudo esempio nell’iscrizione RIME 1.9.5.1: Enannatum, il re di Lagaš, si misurò con [Ur-lumma, il re di Umma] in battaglia, ed Entemena, figlio di Enannatum, lo sconfisse con le armi. Ur-lumma fuggì, si ritirò in Umma abbandonando le sue truppe, 60 truppe di carri, sulla riva del fiume, lasciando le ossa dei suoi uomini ovunque nella campagna; Entemena le ammucchiò in cinque colline di cadaveri.

Avvoltoi banchettano con le teste mozzata dei soldati di Umma, un dettaglio dalla cosiddetta “Stele degli avvoltoi” (RIME 1.9.3.1)
Un’alternativa alla guerra.

La violenza degli scontri nell’età del bronzo è innegabile. Eppure, colpisce di più il tentativo politico di metter fine al conflitto attraverso la negoziazione di un compromesso. Sia Umma che Lagaš lottano per il possesso delle risorse agricole della regione di Guedina. I re di Lagaš si rendono conto che i rivali non si fermeranno mai, così offrono al nemico sconfitto parte del territorio conteso. Una piccola cessione in cambio di un bene superiore, la pace. Non parliamo, certo, di uno spirito caritatevole, i re di Lagaš ragionavano esattamente come i grandi leader dei nostri giorni: va bene la pace, purché porti profitto. Elaborarono, pertanto, quello che può essere considerato il primo prestito a interesse della storia, ai limiti dello strozzinaggio, creando nei fatti i presupposti per un’instabilità perpetua ai confini di stato. Fatto che poi porterà alla caduta del regno.

Soldati di Umma prigionieri nella rete di Ninĝirsu, dio poliade di Lagaš, un dettaglio dalla cosiddetta “Stele degli avvoltoi” (RIME 1.9.3.1)

 

I primi accordi di pace e la loro effettiva tenuta

Vincendo la guerra Lagaš poté stabilire la propria pace. Mantenne il controllo dei territori di confine ma non rivendicò quelli del proprio vicino, anzi. Ad Umma venne concesso di gestire una parte delle terre contese pagando in cambio un interesse al legittimo proprietario, una tassa che comprendesse parte profitti economici ottenuti. L’espediente, tuttavia, non funziona ed Umma, incapace di pagare si affida alle armi per ristabilire il proprio dominio. Le fonti di Lagaš ricordano come lo stato rivale finisse per allagare i territori di confine per poi attaccarli, rimuovendo le stele di confine. La diplomazia, dunque, fallì e i tentativi di spostare la frontiera non si fermarono fino a quando le forze di Lagaš non vennero sopraffate dopo più di un secolo di belligeranza.

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APPROFONDIMENTO| Non solo l’Endurance: la barca di Uruk

Prima è abbandonata, poi s’insabbia, in fine riemerge alla luce. No, non si tratta del Titanic. Nemmeno parliamo del sensazionale ritrovamento dell’Endurance. Questa è invece la storia della barca di Uruk, recentemente rinvenuta in uno degli antichi canali che scorrevano presso questo antico centro sumerico. Un’occasione per imbarcarsi una una breve crociera attraverso la Mesopotamia, non solo per scoprirne l’ambiente e le dinamiche umane, ma anche ricordare i forti legami che stringono l’Italia all’Iraq, l’Italia alla storia del paese di Sumer. 

Orientarsi nel Tempo

Roma venne fondata nel 753 a.C. in seguito all’aggregazione di più villaggi. Una data simbolo, uno spartiacque temporale per quanto riguarda la nostra storia. Più indietro, verso la fine del IV millennio a.C. incontriamo l’uomo del Similaun, Ötzi, il cacciatore dell’età del rame. Se invece parliamo di Mesopotamia la percezione del mondo cambia: ai tempi di Romolo e Remo, l’Impero Assiro gettava le basi per la propria egemonia nel vicino oriente, dal Levante alla Babilonia; ai tempi di Ötzi, la scrittura iniziava ad essere praticata nella città di Uruk, che già contava parecchie migliaia di abitanti e colonie sparse un po’ ovunque. Non a caso, la culla della civiltà è individuata tra i fiumi Tigri ed Eufrate, un contesto che, campagna archeologica dopo campagna archeologica, continua a offrire fonti per ricostruirne la storia. Ma quando è un’intera barca a rispuntar fuori dalla sabbia, lo stupore conquista anche l’orientalista più incallito.

Il profilo dell’imbarcazione visto da una foto aerea. © Deutschen Archäologischen Institutes
Il reperto archeologico, dal canale al museo

Il merito dell’intervento va alla missione tedesco-irachena del Consiglio di Stato per le Antichità e del Dipartimento Oriente dell’Istituto Archeologico Tedesco. La barca era stata già individuata nel 2018, tuttavia il suo scavo si è realizzato solo nel mese di marzo 2022 per preservare il reperto dall’erosione. Nello specifico si tratta di un’imbarcazione costruita in materiale organico e bitume, lunga 7 m e larga fino a 1,4 m. Ovviamente il materiale organico non ha superato la prova del tempo ma ha letteralmente lasciato il proprio segno sul nero rivestimento. Per quanto riguarda la datazione, si stima che il reperto risalga alla fine del III millennio a.C., quando il canale in cui navigava s’insabbiò, imprigionando la barca sotto strati di sedimento. Un’incredibile crociera attraverso il tempo la sua: dai canali di Uruk all’Iraq Museum di Baghdad, dove i ricercatori ne studieranno i segreti.

Dettaglio del rivestimento bituminoso che calafatava l’imbarcazione. © Deutschen Archäologischen Institutes
Non solo tedeschi: italiani pionieri della ricerca

Il ritrovamento della barca di Uruk accende l’attenzione sulla questione della navigazione del mondo antico, e di conseguenza della gestione dei corsi d’acqua agli albori della storia. La ricerca ha messo in evidenza come quello che si riteneva un’arida steppa fosse invece un’immensa palude. Tema interessante soprattutto per il mondo accademico italiano che, ormai da anni, conduce importanti ricerche sul suolo iracheno. Ad esempio, l’università Sapienza di Roma finanza gli scavi nella città sumerica di Niĝen, e nel sito di Abu Tbeirah in cui è stato scavato un porto risalente al III millennio a.C. Sotto il nome Sapienza è stato anche realizzato il primo Primo Congresso di Archeologia del Paesaggio e di Geografia Storica del Vicino Oriente che ha visto, nella sua prima giornata d’incontri, una massiccia presentazione di studi in relazione al paesaggio acquatico della Mesopotamia. In quest’occasione, un’analisi sulla navigazione è stata proposta proprio da chi scrive.

localizzazione delle città sumeriche di Niĝen e Abu Tbeirah
Barche a confronto: da Sumer a oggi

Osservando la barca di Uruk viene spontaneo chiedersi come si navigasse quattromila anni fa. In realtà sono gli stessi sumeri a fornire la risposta. Sinteticamente gli spostamenti via fiume avvenivano in due modi distinti: a traino, nei territori a monte, o a spinta, nei territori a valle in cui la corrente era più debole. Nel primo caso si sfruttava la forza animale che, dal margine dei canali, trainava l’imbarcazione controcorrente. Nel secondo caso, si usava spingere il mezzo con un grosso palo di legno, come fosse una gondola. Ovviamente le forme erano varie: sono attestati imbarcazioni con equipaggi di un paio di persone ma anche di 20, persino 45 barcaioli. Per quanto riguarda la barca di Uruk osserviamo un mezzo di piccole dimensioni, tipologicamente simile a quello ancora in uso nelle Marshland irachene. Allora, che sia il nostro oggi la guida per immaginare il passato, come nel video che segue.

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APPROFONDIMENTO | Pace e sanzioni nella Grecia classica

La pace è un’esperienza difficile da realizzare. La si può ottenere con l’eliminazione dell’avversario o attraverso la ricerca di un compromesso con la parte ostile. Vi è poi l’uso dell’intimidazione, ossia l’ottenimento di un equilibrio dietro minaccia, attraverso l’uso consapevole di sanzioni, di deterrenti: punire il nemico, qualora non rispetti i patti, per logorarlo prima ancora di doverlo affrontare sul campo.

In guerra dagli inizi della storia

In certi momenti ci si chiede se l’uomo sia nato per farsi la guerra o se, invece, questa sia una degenerazione del nostro animo. In effetti, l’idea di una creatura buona a priori, originariamente paradisiaca, offre speranza per un futuro migliore. Tuttavia, non va ignorato che la prima narrazione scritta mai composta dall’uomo parla di uno stato di guerra terribile, che si conclude solo dopo aver accumulato colline e colline di cadaveri. Parole, quasi testuali, dettate da re Ur-Našše di Lagaš nel III millennio a.C. Inoltre, il fatto che gli esempi più antichi di spade risalgano alla prima età del bronzo, IV millennio a.C., aggrava la posizione dell’uomo: eravamo pronti a combatterci già agli inizi della storia, quando si cominciò a scrivere. Eppure, esistono tentativi di pace, magari imperfetti, vani, ma che la guerra cercarono di mitigarla. Non è tempo sprecato, allora, esplorare il passato a caccia di questi esempi.

L’iscrizione reale di Ur-Našše di Lagaš (RIME 1.09.01.06b), il più antico riferimento storico a un fatto bellico
Il caso della Guerra di Corinto

Una parola ridondante ai nostri giorni è “sanzioni”. La sentiamo spesso e ne siamo quasi assuefatti tanto da non chiederci quale sia il suo significato o l’origine del suo concetto. È un peccato visto che l’antecedente storico dell’uso delle sanzioni fu inventato nella culla culturale occidentale, in Grecia. In quel tempo, tra gli anni 395-387 a.C., lo stato di belligeranza tra poleis è pressoché assoluto. Non è più il periodo, edulcorato dalla tradizione, delle Guerre Persiane, in cui seppur divisi i greci riescono a unirsi contro il nemico comune. Al contrario, la successiva Guerra di Corinto vede un inasprirsi delle divisioni interne della Grecia, che favoriranno il ritorno della Persia in qualità di garante degli equilibri. Inutile discutere se la diplomazia, in questo caso, fu vincente o meno per la sorte dei greci. Meglio analizzare i fatti per capir che di che tipo di pace si parli.  

La Grecia ai tempi della Guerra di Corinto
Un diplomatico in guerra

La Guerra di Corinto può essere paragonata ad un fiammifero lanciato in una polveriera: innestato il primo fuoco, l’esplosione venne di seguito. Il fatto è che gli interessi economici delle diverse città finirono invero a cozzar tra di loro, e da una ristretta disputa confinaria la Grecia intera si ritrovò calpestata da eserciti e solcata da flotte nel mare. Tra i vari protagonisti che presero parte agli scontri ve n’è uno che, a differenza degli altri, ottenne un posto nella storia come mediatore, non come guerriero. Antalcida di Sparta andò in Lidia, nel 392 a.C., cercando l’appoggio persiano, e lì discusse i termini di una pace con gli altri emissari venuti da Atene e dai suoi alleati. Non se ne venne a capo e la guerra poté continuare, ma quell’incontro fu forse il primo passo diplomatico che portò alla successiva Pace di Antalcida nel 387 a.C.

Tiribazo, satrapo di Lidia, che prese parte ai negoziati di pace
La pace del Re, o di Antalcida

Dopo il fallimento della diplomazia, Atene riuscì ad estendere il proprio dominio nel Mar Egeo, ma soprattutto ad allacciare un’intesa con le potenze orientali ostili alla Persia, ossia Cipro e l’Egitto. Ciò provocò un mutamento nei rapporti tra i vari stati perché da parte persiana venne ricercato proprio l’accordo che Antalcida era venuto a proporre cinque anni prima, ossia l’intesa con Sparta. Alla fine, la pace arrivò, definitivamente nel 386 a.C., ma in modo subdolo ed inconsueto. Forte dell’appoggio persiano, Sparta poté minacciare le fazioni rivali: chi non avesse accettato e rispettato la pace, così come i suoi termini, avrebbe affrontato il Gran Re orientale. La strategia di deterrenza promossa da Sparta comportò lo smantellamento dell’egemonie e delle alleanze in Grecia, riaffermando, grossomodo, l’indipendenza di ogni città. Fu questo l’antecedente storico della minaccia di sanzioni in campo diplomatico, ossia l’uso di deterrenti per salvaguardare una pace senza scadenza.

L’estensione dell’impero persiano.
Pace, fragile pace

A conti fatti Sparta porgeva il collo al guinzaglio tirato dal Gran Re persiano. La Grecia, che perdeva i suoi territori in Ionia, passava sotto l’influenza dell’impero orientale, e ci sarebbe rimasta fino all’emergere di Alessandro Magno, cinquant’anni più tardi. Se fu una soluzione giusta o sbagliata lo storico non se lo chiede. Sta di fatto che una pace di tutti ci fu. Tuttavia, durò poco. Nel 382 a.C. il promotore stesso del deterrente, Sparta, tentò di estendere la propria influenza. Ad esempio fece in modo d’instaurare una tirannia fedele nella città di Tebe. La pace allora crollò come un castello di carte e la Guerra Beotica ebbe inizio. Il deterrente non funzionò, anzi l’indebolimento di Sparta comportò l’abbandono persiano. Così, stando al ricordo posticcio di Plutarco, Antalcida si lasciò morire di fame resosi conto del proprio fallimento diplomatico. Una fine triste, forse, come triste fu la pace mancata.

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UCRAINA | Armiamoci e ammaliamoci: quando la Peste Nera travolse la Crimea genovese

La Crimea fu terra di colonizzazione da parte della Repubblica di Genova a partire dal XIII secolo. Il domino genovese nella penisola prese il nome di Gazaria, in riferimento alla precedente presenza dei cazari nella regione. In effetti la Crimea, e l’Ucraina in generale, fu crocevia di genti già dall’età antica, e al tempo dei genovesi era ben presente nella penisola un caleidoscopio culturale veramente intrigante. In quest’occasione, tuttavia, si parlerà di un ospite sgradito, spiacevolmente invadente. Uno di quelli che non attende inviti: la Peste Nera, che non bussò alle porte di Caffa ma ci piombò dentro.

L’assedio di Caffa

Nel 1346 l’esercito mongolo dell’Orda d’Oro assediò il baluardo genovese in Crimea. Non era la prima volta: già quarant’anni prima Caffa subì l’aggressione dei guerrieri venuti dalla steppa per finire in pasto alle fiamme. Tuttavia, rinacque letteralmente dalle proprie ceneri e seppe imporsi come città egemone nel Mar Nero. A sua difesa, la colonia si munì di una doppia cinta muraria, che seppe resistere ad un primo assedio nel 1343 quando il Khan mongolo Ganī Bek tentò di sottometterla. Nulla di fatto: dopo un anno di assedio i genovesi fecero strage dei mongoli. Successivamente, il nuovo assedio del 1346 graffiò le mura di Caffa senza far danni. L’esercito mongolo si ritirò, infatti, a causa di una un’epidemia tra le sue fila. Qui entra nella storia un italiano, seppur poi precipitato nel dimenticatoio: Gabriele de’ Mussi, da Piacenza, che raccontò di Caffa e di come la peste l’avesse morsa.

Le mura di Caffa
Il morbo dilaga

Il fatto è abbastanza crudo e de’ Mussi non risparmia dettagli. Così scrive: Oh Dio! Guarda come le razze pagane dei Tartari, che si riversano da tutte le parti, hanno improvvisamente investito la città di Caffa e assediato i cristiani intrappolati lì per quasi tre anni […] Ma ecco, tutto l’esercito fu colpito da una malattia che invase i Tartari e uccideva migliaia e migliaia di persone ogni giorno.

Il cronista piacentino continua descrivendo la malattia come fosse una pioggia di frecce scagliate dal cielo, una punizione contro l’arroganza nemica. I sintomi del morbo erano sconosciuti, ma presto sarebbero diventati inequivocabili in occidente. Così li descrive de’ Mussi: “Inutili erano i consigli e le attenzioni dei medici: i Tartari morivano non appena i sintomi intaccavano il corpo, gonfiori alle ascelle o all’inguine causati da umori coagulanti, seguiti da una febbre putrida. È la peste, la morte oltre le mura di Caffa.

Prima pagina della copia del manoscritto di de’ Mussi, “Historia de morbo sive mortalitate
quae fuit a.d. 1348”
Catapulte e morte dal cielo

L’esercito dell’Orda d’Oro è sfinito e i genovesi ne approfittano per bloccare, con la flotta, i porti mongoli sul Mar Nero. Così, nel 1347, Ganī Bek si ritroverà costretto a negoziare la pace. Eppure, vi è un colpo di scena. Così scrive de’ Mussi: (I Tartari) ordinarono che i cadaveri fossero caricati sulle catapulte e lanciati nella città così che il fetore estremo uccidesse chiunque all’interno. Il testo continua informando che i cristiani tentarono di gettar i cadaveri in mare, ma non servì a nulla: presto sia l’aria che l’acqua imputridirono. Il miasma è devastante: un uomo infetto poteva trasmettere il morbo ad altri, infettare persone e ambienti solo con lo sguardo; un modo per difendersi nessuno lo conosceva, né lo poteva scoprire. Il passato sembra farsi quel futuro distopico che tante volte si è visto al cinema o letto nei libri. Ma questa è realtà, accadde realmente.

In giallo, il dominio del Khanato dell’Orda d’Oro

 

La morte viaggia in barca

de’ Mussi arricchisce la propria cronaca con impressionanti dettagli. Ricordiamo che Caffa era una città portuale e fu proprio questo a favorire il disastro: si dà il caso che tra coloro che fuggirono da Caffa in barca ci fossero alcuni marinai che erano stati infettati dal morbo. Alcuni di loro, come racconta de’ Mussi,  fecero vela verso Genova, altri verso Venezia. Ogni terra cristiana fornì un porto sicuro ai marinai di Caffa. E la subdola peste sorrise: mentre parlavamo con loro, mentre ci abbracciavano e ci baciavano, abbiamo sparso il veleno dalle nostre labbra. Dalla Crimea il morbo si diffuse in Sicilia, poi Genova, di lì a Piacenza, contesto caro a de’ Mussi che chiosa: “lamentando la nostra miseria, temevamo di fuggire, ma non osavamo restare. L’Europa, al fine, fu sopraffatta, ma non sconfitta. In quella disperazione il dolore e l’angoscia furo tramutati nell’arte che ancor oggi impreziosisce il mondo.

Diffusione della Peste Nera in Europa
Un’ultima precisazione

A lungo si è pensato che Gabriele de’ Mussi fosse stato uno dei marinai in fuga da Caffa. Molto probabilmente l’autore de Morbo sive Mortalitate quae fuit a.d. MCCCXLVIII, non lasciò mai Piacenza e visse l’assedio di Caffa. Seppur non sia certa la testimonianza oculare del de’ Mussi in sé, piuttosto il compendio di più fonti dell’epoca, l’episodio dei cadaveri lanciati con le catapulte è inteso come l’antecedente storico della guerra tossicologica propriamente detta. Il manoscritto originario del de’ Mussi è perduto ma una copia è inserita in una raccolta di contributi storico-geografici del 1367, conservata nella libreria dell’Università di Wroclaw, Polonia.

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UCRAINA | Uomini soli al comando: Putin come Hitler?

La storia è piena di uomini soli al comando fin dai tempi della fondazione di Roma. Uomini soli che hanno perseguito un fine, alcuni giusto, altri sbagliato, e che hanno portato alla distruzione e al dolore. Oggi ci sono i social che ci raccontano la guerra, sviscerano motivi e posizioni, ma chi è per la pace non può parteggiare per nessuno degli attori in campo, chi è per la pace deve solo perseguire un fine, la conclusione delle ostilità senza condizioni, a prescindere che il tiranno della situazione si chiami Adolf Hitler o Vladimir Putin

 
Uomini a confronto

Proprio questi sono i personaggi del momento, paragonati a suon di immagini sui social, ma cosa hanno veramente in comune i due personaggi, quali sono le cose che li differenziano in maniera netta ed inequivocabile?

Di sicuro la carriera militare e la gavetta nel sottobosco politico e dei servizi segreti del giovane Adolf assomiglia (ma non troppo) a quella del giovane Putin , cosi come il carisma e la gestualità del corpo. Il fhurer, ovviamente, lo conosciamo durante i suoi discorsi con movimenti coinvolgenti che attiravano l’attenzione e rapivano le emozioni di chi lo ascoltava. Putin, invece, lo vediamo sempre alla scrivania in posizione rilassata, appoggiato alla spalliera come per dire: “sono a casa mia” , uno sguardo fulminante che intimorisce i funzionari e li porta a dire ciò che lui vuole che si dica.

uomini soli

 

Ma la domanda è: perché questi due uomini sono arrivati al potere in modo quasi indolore?

Perché da sempre l’uomo ha bisogno di essere governato e quando si trova in difficoltà strizza sempre l’occhio a chi promette di risolvere i suoi problemi. E se costui dimostra che quei problemi sono anche i suoi il primo passo verso il potere è fatto, ma il gioco si completa nel momento in cui la colpa di questi problemi viene data a un fattore esterno: per Hitler erano gli ebrei; per Putin il mondo occidentale.

Il 5 novembre del 1937 Adolf Hitler riunisce i suoi generali e dice loro che la Nazione ha bisogno di spazio vitale e la sua espansione può realizzarsi solo attraversando il cuore dell’Europa. Obiettivi: Austria e Cecoslovacchia. Solo alla loro conquista ci si potrà rivolgere alla Polonia e al granaio russo dell’Ucraina.

Una storia che ci ricorda qualcosa…

 

putin hitler
Hitler durante una spedizione

 

Una sicurezza di sè ai limiti della megalomania

Putin e Hitler sono stati in grado di distinguersi dalla massa, prendendo il potere con sicurezza e credendo in se stessi al limite della megalomania.

Hitler con frasi, concetti ed espressioni che oggi sembrano insensate ma che all’epoca erano di un effetto devastante, come per esempio: “cammino con la sicurezza di un sonnambulo verso il mio destino”. Putin invece è più diretto, ama il presenzialismo, la cultura del fisico perfetto. Sono sempre frequenti le cerimonie in cui rende onore ai caduti sotto la pioggia e il vento, senza riparo o, come spesso è accaduto, partecipa a gare di Judo di cui è cintura nera o va a cavallo a torso nudo.

Entrambi i nostri attori conoscono l’importanza dell’immagine e la potenza del simbolo, ma Hitler punta tutto sulla svastica, Putin sempre su sé stesso e sul proprio sguardo di ghiaccio.

putin hitler

Il nazionalismo di Hitler e quello di Putin

La supremazia Hitleriana nel campo propagandistico è netta e incontrovertibile, non fosse altro che per la presenza di un personaggio come Goebbels, un altro criminale da cui quasi tutto il mondo ha preso spunti per la propaganda.

Il nazionalismo di Hitler persegue un obiettivo ben preciso: la pace nazista, estesa a tutto il mondo con la supremazia della razza ariana. Pace che come abbiamo visto nel discorso ai suoi generali, servì da paravento a due questioni fondamentali: economica e sociale.

Putin ha una visione ben più ristretta, il suo nazionalismo punta si sull’orgoglio di un popolo, ma entro i confini della Russia zarista. Bisogna poi aggiungere una terza questione, oltre quella economica e sociale, deve cioè fare i conti con i dissensi e preservare gli interessi degli oligarchi ricchi e della mafia russa, con cui ha stretto accordi da giovane funzionario del kgb prima e da primo ministro dopo. Un nazionalismo che con Putin non sfocia nella supremazia di una razza e nel folle sterminio di massa.

Putin, per arrivare dove si trova adesso, ha certo beneficiato di una maggiore formazione politica di stampo sovietico, dove tutto è un accordo con tutti dove il preservare gli interessi di pochi e potenti oligarchi serve a mantenere il potere. Hitler non ha avuto una formazione politica derivante da una scuola, ma la politica e i suoi seguaci sono cresciuti con lui, la sua impostazione militare ha fatto si che si circondasse di gente come  GöringHessvon RibbentropKeitel,  DönitzRaederSchirachSauckel, tutti fortunatamente finiti a Norimberga, ma che hanno costituito le fondamenta che hanno permesso ad Hitler di fare ciò che ha fatto. Siamo sicuri che Putin sia circondato da gente affidabile e criminale come lo erano costoro? Criminale può darsi, ma sull’affidabilità il poeta ha più di un dubbio.
Ecco dove sta la differenza maggiore, quella più incontestabile

Hitler si considera un Dio in terra, lui è la legge. Ma, mette davanti a tutto un progetto più grande e come simbolo la svastica (simbolo di provenienza celtica e religiosa), e questo ha fatto sì che il nazismo si identificasse con la Germania nettamente più compatta della Federazione Russa di oggi.

Putin è un autocrate che sta giocando a Risiko, ha fatto del capitalismo economico di pochi oligarchi e della mafia russa un centro di potere nel quale pensa di sentirsi al sicuro, si nasconde dietro la maschera dell’orgoglio russo, uno a cui non è mai stato dato ascolto, a cui però senza giustificare le azioni attuali e quelle passate è stato messo un fucile in mano. Però se similitudini ci sono, sembra che Putin sia quasi più vicino a Benito Mussolini che ad Adolf Hitler.

putin hitler

Le similitudini lasciano pian piano molto più spazio alle differenze tra i due

Questa non è solo l’evidenza di certi fatti, ma soprattutto la speranza di una conclusione diversa rispetto a quella voluta da Adolf Hitler sia perché oggi il mondo ha una percezione diversa di ciò che successe durante la seconda guerra mondiale, ma soprattutto perché questo sarebbe l’ultimo atto della nostra permanenza su questa terra.

I due fortunatamente si assomigliano poco, ma siccome a noi piace porci degli interrogativi, nel buio della notte ci chiedeiamo, ma se Hitler avesse avuto a disposizione un armamento nucleare, vedendosi perso ed accerchiato avrebbe ceduto al classico muoia sansone con tutti i filistei? Un dubbio che fortunatamente non ci toglieremo mai.

Approfondimento

UCRAINA | Quando la Crimea era una colonia della Repubblica di Genova

Il dominio genovese in Crimea. Una piega della storia il più delle volte ignorata ma che, dato il recente conflitto in Ucraina, sarebbe il caso di ricordare, riflettendo su quanto un paese percepito così lontano faccia, in realtà, parte della nostra storia.

Da Genova alla Crimea

Costantinopoli cadde nel 1204 in seguito alla IV crociata. Il mondo ebbe un tremito ma poi trattenne il respiro: il sogno che fu Bisanzio era sopravvissuto a Nicea, retta dalla casa dei Paleologi, dove l’impero sopravvisse e seppe rinascere. Fu così che venne stipulato il Trattato di Ninfeo, nel 1261: i genovesi avrebbero aiutato Michele VIII Paleologo a riprendersi ciò che gli spettava, Costantinopoli, strappandola ai latini; in compenso Genova avrebbe soppiantato Venezia nei traffici marittimi del Mar Nero, fino in Crimea. In realtà, si arrivò a questo perché Michele aveva già tentato di riprendere la capitale ma la flotta veneziana era riuscita a impedire la capitolazione per fame. Ironia della sorte, la risolutiva flotta genovese non servì a nulla: Costantinopoli cadde in mano all’avanguardia dell’esercito bizantino senza colpo ferire. Così, in un moto di perplessità, gioia e stupore i genovesi inaugurarono il proprio impero coloniale senza una perdita.

Impero coloniale genovese
La Gazaria ed il Principato di Teodoro

Quando Genova s’inserì nei giochi politici e commerciali del Mar Nero la Crimea vantava ormai centinaia di anni di convivenza tra popoli. In particolare, i Cazari avevano messo in discussione la presenza bizantina nella penisola già nel VII sec. espugnando la fortezza di Sudak, nota oggi per essere patrimonio UNESCO. I territori costieri vennero però ripresi, e l’impero se li tenne fino alla IV crociata, nel 1204, quando in Crimea nacque il Principato di Teodoro. Va da sé che con la formazione della Gazaria, ossia il dominio genovese in Crimea, i rapporti si fecero tesi: di lì passava la via della seta, un motivo più che valido per alimentare rivalità e contrasti. Dalla città di Caffa i genovesi tentarono nel tempo di isolare i loro vicini, tagliandoli fuori dal commercio marittimo. Si delinea, quindi, un quadro conflittuale in cui manca però un’importante tassello: l’ingerenza mongola nella penisola.

Territori genovesi e del Principato di Teodoro
Lotta per il dominio della Crimea

L’arrivo dei mongoli cambiò i rapporti di forza tra il Principato e Genova. Nel 1308 la città di Caffa venne assediata ed espugnata ma, in seguito, i genovesi riuscirono a riprenderne il controllo gettando i presupposti per un periodo di massimo splendore. Anche il Principato di Teodoro, nel 1395, conobbe l’irruenza mongola ma seppe risollevarsi tenendo testa ai genovesi. Si formarono, pertanto due schieramenti: Genova, appoggiata dall’Impero Bizantino, ed il Principato di Teodoro, appoggiato dal Khanato. In ogni caso, il potere genovese crebbe tanto che i consoli di Caffa finiranno per assumere il titolo di Consoli di tutto il Mar Nero. La fortuna, tuttavia, non durò: con la caduta di Costantinopoli, nel 1453, la Gazaria entrò in crisi e la potenza genovese in Crimea capitolò infine, nel 1475, con la caduta di Caffa.

Maometto II entra a Costantinopoli, Benjamin Constant (1876)
Sudak: dagli alani ai genovesi

Uno dei siti archeologici di maggiore spicco in Crimea è certamente la fortezza di Sudak. Si ritiene che l’insediamento sia una fondazione alana del 212 d.C. che, non a torto, rimase storicamente in disparte fino a quando non assunse sempre più importanza in epoca medievale in relazione alla via della seta. Sudak divenne, quindi, un florido porto, che la rese appetibile alle varie potenze che la circondavano. Nel XIII sec. furono Venezia e Genova a contendersela, e proprio quest’ultima, vincitrice nel 1365, realizzò i più incisivi interventi di fortificazione che ancora possono essere contemplati. Un sito unico nel suo genere: il massimo esempio di fortificazione medievale genovese ancora in piedi, perfettamente conservato. Il simbolo di un passato, di un contatto tra popoli, del quale s’ignora l’esistenza ma che è ancora lì, maestoso, a guardia delle coste del Mar Nero.

La fortezza genovese di Sudak, Crimea
Caffa: la Genova della Crimea

La città di Caffa (odierna Feodosia) sorse sulle ceneri della colonia greca Teodosia, centro che seguì le dinamiche de Regno del Bosforo Cimmero per poi svanire in età imperiale romana. Nel XIII sec. d.C. Caffa entrò nella storia come avamposto genovese nei traffici commerciali nel Mar Nero, un insediamento inizialmente piccolo ma che crebbe tanto, nel tempo, da imporsi come un vero e proprio baluardo nella penisola. Fu, in effetti, una spina nel fianco per i suoi vicini che più volte tentarono di abbatterla: i veneziani nel 1296, poi i mongoli nel 1308. In ogni caso, Genova riuscì sempre a riprendersela e a potenziarla, tanto che nel 1472 i turchi saranno costretti ad espugnare una città abitata da circa 70000 mila persone e difesa da due circuiti murari. Purtroppo, ad oggi, di Caffa non rimane altro che qualche vestigia, malinconica testimonianza dello splendore di un tempo.

Feodosia, Carlo Bossoli (1856)
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UCRAINA | ONU e NATO, due organizzazioni spesso confuse

L’ONU e la NATO sono due organizzazioni che spesso vengono confuse perché fanno riferimento a ordini internazionali. In uno scenario come quello attuale, in cui spesso i concetti tendono a sovrapporsi, contribuendo a diffondere disinformatia, è sicuramente necessario avere chiara la differenza e comprenderne le rispettive peculiarità.

 

La Società delle Nazioni, “antenata” dell’ONU

Il 28 aprile 1919, poco tempo dopo la fine della Prima guerra mondiale, viene fondata la Società delle Nazioni (Sdn), un grande organismo internazionale con sede a Ginevra, atto a regolare in maniera pacifica i problemi tra gli stati, cancellando ogni forma di ingiustizia e violenza tra i popoli. Lo scopo con cui nasceva questa organizzazione, a cui aderirono molti paesi del mondo, era quello di evitare il ripetersi di nuovi conflitti, cercando soluzioni pacifiche e negoziate a tutti i problemi. Tuttavia, la Società delle Nazioni era un organismo di per sé molto debole e non aveva le reali potenzialità per impedire la nascita di nuovi scontri: non disponeva di mezzi concreti d’intervento, se non quello di poter applicare delle sanzioni economiche al membro che non avesse rispettato gli accordi e avesse fatto ricorso alla guerra per risolvere le controversie, per tutelare la tanto agognata pace. Inoltre, a causa della mancata adesione degli Usa e di quella tardiva o temporanea di Germania, Giappone e Urss, la Sdn fu impreparata di fronte alla tensioni internazionali degli anni Trenta che avrebbero causato , di lì a poco, lo scoppio della Seconda guerra mondiale.

Simbolo della Società delle Nazioni

 

Che cos’è l’ONU e quando nasce

Il 26 giugno 1945 nasce formalmente L’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), sulla base di uno statuto approvato da 49 stati riuniti nella conferenza di San Francisco. Nata in seguito ai massacri della Seconda guerra mondiale, l’ONU andava a prendere il posto della Società della Nazioni e si impegnava nell’assicurare la pace, la sicurezza internazionale, il rispetto dei diritti delle libertà fondamentali dell’uomo, oltre che la promozione dello sviluppo economico, sociale e culturale di tutti i paesi. Quello sulla salvaguardia dei diritti umani, fu un tema molto sentito da tale organismo, al punto che il 10 dicembre del 1948, durante l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, venne presentato un documento sulla libertà degli uomini: la Dichiarazione universale dei diritti umani.

Ecco cosa puntualizzava il primo articolo di tale Dichiarazione:

Tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti.
Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.

(Articolo 1 della Dichiarazione universale dei diritti umani)

Eleanor Roosevelt presenta la Dichiarazione universale dei diritti umani.

 

L’Organizzazione delle Nazioni Unite

L’Onu era costituita da due organi: L’Assemblea generale e il Consiglio di Sicurezza.

  • Assemblea generale: organo deliberativo a cui partecipavano, in modo egualitario, tutti gli stati membri. Il Vaticano prendeva parte ai lavori come “osservatore permanente”.
  • Consiglio di Sicurezza: organo esecutivo, composto da cinque membri permanenti e da dieci che partecipavano a rotazione. I membri permanenti erano gli alleati durante la guerra( Usa, Urss, Gran Bretagna, Francia e Cina) e ciascun di essi godeva del potere di veto: Il Consiglio di sicurezza poteva prendere decisioni vincolanti solo in presenza dell’unanimità dei suddetti membri. Gli altri dieci membri erano scelti ogni due anni( L’Italia è stata eletta al Consiglio di sicurezza per sei volte, a partire dal 1959).
    Una seduta del Consiglio di Sicurezza dell’Onu
Che cos’è la NATO e quando nasce

Con il termine NATO, invece, si fa riferimento alla North Atlantic Treaty Organization (Organizzazione del trattato atlantico del Nord), cioè a un’alleanza militare intergovernativa nata con lo scopo di tutelare i paesi membri contro un eventuale attacco sovietico. Tale organismo ha il suo substrato nel Patto atlantico del 1949.

Il 4 aprile 1949 gli Stati Uniti, il Canada e quasi tutti gli stati dell’Europa occidentale, compresa l’Italia, stipularono a Washington il Patto atlantico, che venne considerato come una sorta di risposta dell’Occidente di fronte alla pressione che l’Urss esercitava sui paesi dell’Europa orientale. Se l’Urss avesse invaso anche solo uno dei paesi firmatari, l’alleanza sarebbe intervenuta. L’aria che si respirava, così, tra i due blocchi era molto tesa, anche a causa della corsa agli armamenti nucleari.

Il 29 agosto 1949 l’Urss sperimenta la sua prima bomba a fissione nucleare.

Bandiera della Nato
Differenza tra ONU e NATO

-L’ONU è l’organizzazione delle Nazioni Unite, la NATO è l’Organizzazione del trattato atlantico del Nord.

-L’ONU si occupa di facilitare la cooperazione tra gli stati membri in diversi ambiti, la NATO è un’alleanza militare.

– L’ONU viene fondata nel 1945, la NATO nel 1949.

-L’ONU ha il suo quartier generale a New York, la NATO a Bruxelles, in Belgio.

– L’ONU e la NATO constano , rispettivamente, al giorno d’oggi, di 193 e 30 stati membri.

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APPROFONDIMENTO | Antonello da Messina, nuova ipotesi interpretativa sul “Ritratto d’ignoto”

Per convenzione si pensa che l’Autoritratto di Antonello da Messina sia quello conservato alla National Gallery di Londra, nel quale egli si sarebbe ritratto come un giovane sbarbato con la berretta rossa. Infatti “una testa coperta di un berettino rosso, con barba rasa che è il vero ritratto d’Antonello da Messina fatto di sua propria mano”, era presente  (già nel 1632) nella collezione ferrarese di Roberto Canonici, segnalato nel 1870 da Giuseppe Campori. Tutta la critica converge sull’idea che quello sia il quadro che- nel frattempo pervenuto alla famiglia genovese dei Molfino- passò definitivamente nelle collezioni del museo inglese ove attualmente è custodito. 

Con questa convinzione il dipinto è stato impresso pure sulla vecchia banconota da 5.000 lire. La mia idea, o sia una suggestione peregrina, è che il vero volto del Nostro sia invece quello della tavola conservata a Cefalù nel Museo Mandralisca e meglio noto come “Ritratto dell’Ignoto marinaio”.

Antonello da Messina
Portrait of a Man
Oil on panel, 12-14 x 9-5/8 in (31x 24.5 cm)
Museo della Fondazione Culturale Mandralisca, Cefalù (Palermo)
Il “Ritratto dell’Ignoto marinaio”

Quadro misterioso, affascinante, ha sempre attirato l’attenzione dello spettatore per quello sguardo enigmatico, sornione, malizioso: addirittura – ha scritto Federico Zeri – è ben difficile menzionare qualcosa di più intimamente siciliano del Ritratto di Cefalù. La storia della tavoletta (olio su tavola di noce, cm. 30.5×26.3) è stata oggetto di un agile libretto pubblicato nel 2017, “Sfidando l’ignoto. Antonello e l’enigma di Cefalù”, grazie al quale sappiamo che il quadro comparve per la prima volta nelle raccolte della famiglia Mandralisca verso la metà del Settecento. Infatti, come rilevano gli autori, nel retro della tavoletta è presente un timbro cereo con impresse le armi di Giuseppe Pirajno, antenato del Barone Enrico, che visse tra il 1687 e il 1760 svolgendo per tutta la vita l’incarico di vicario del vescovo protempore di Cefalù. Questo timbro venne coniato per la prima volta nel 1738, anno di stesura del testamento del prelato: gli autori suppongono quindi che il dipinto sia entrato in possesso della famiglia Pirajno attorno a quegli anni. Secondo gli autori del libro, il Ritratto pervenne alla famiglia Pirajno grazie alle mire proditorie di Giuseppe, che da vero dominus della Curia di Cefalù poteva tranquillamente alienare a suo favore ogni bene avesse un valore riconosciuto. Come nella fattispecie fece con il dipinto in questione, in quanto – secondo gli studiosi summenzionati- esso era di pertinenza della Curia da lui “custodita”. Ma solo nel 1860, in seguito alla ben nota visita in Sicilia di Giovan Battista Cavalcaselle, il dipinto venne riconosciuto come di AntonelloAnzi, il sagace connoisseur veneto, scrive in una lettera inviata al Mandralisca da Termini Imerese che quel dipinto è l’unico certamente antonellesco che abbia visto durante il suo viaggio siciliano.

La storia del ritratto

La tradizionale diceria che fosse il ritratto di un marinaio e provenisse da una farmacia di Lipari dove fu acquistato dal fondatore del Museo, Enrico Pirajno barone di Mandralisca, comparve agli inizi del Novecento (la troviamo per la prima volta nella raccolta fotografica di Domenico Anderson sulle opere d’arte siciliane) e viene fissata definitivamente dal capolavoro di Vincenzo Consolo “Il sorriso dell’ignoto marinaio” (1976). Tuttavia, Roberto Longhi, appoggiato da tutti gli storici dell’arte a lui successivi, ha sempre smontato questa teoria, affermando che Antonello da Messina non ritraesse marinai o gente del popolo bensì ricchi committenti e “baruni”. Il recente libro, scritto a sei mani da Salvatore e Sandro Varzi e Alessandro Dell’Aira, si regge invece sulla tesi che il volto sul quadro ritragga l’umanista pugliese Francesco Vitale da Noja, vescovo di Cefalù tra il 1484 e il 1492 e abilissimo traduttore dal latino. Questa conclusione si basa sul raffronto tra il volto di Cefalù e il ritratto impresso nella xilografia in esergo al testo El Salutstio Cathilinario y Jugurta en romance” (1493), in cui il traduttore (il Vitale stesso) offre l’opera al suo committente, cioè il sovrano aragonese Ferdinando il Cattolico.

E in effetti ci sorprendiamo a rintracciare alcuni punti in comune tra questa figura e il sardonico ignoto cefaludese, anche se – comparando quel volto con qualche ritratto certo del Vitale impresso in alcune medaglie commemorative dedicategli tra il 1476 e il 1485 – notiamo sostanziali differenze somatiche non solo con la nostra tavoletta ma persino con il ritratto xilografico. Il volto del Vitale, infatti, così come lo vediamo nelle medaglie è più paffuto e rotondo laddove quello di Cefalù è allungato e smunto (come anche quello della xilografia); lo sguardo è fiero e sprezzante come vediamo (per restare nell’ambito antonelliano) nel Ritratto del cosiddetto “condottiero” del Louvre e non in quello del “marinaio”. Sono portato a credere dunque che la durezza insita nel medium xilografico abbia favorito la somiglianza con il volto pungente e gli occhi socchiusi dell’uomo Mandralisca.

Quando avvenne il supposto incontro tra Antonello e il Vitale?

Secondo Varzi e Dell’Aira esso avvenne a Venezia tra il 1474 e il 1476 (in effetti, per motivi diversi, in quegli anni sia il siciliano che il pugliese si trovarono a lavorare nella città lagunare) anche se tutta la critica è concorde nell’anticipare la fattura del dipinto a non oltre il 1473 e non abbiamo documenti che provino a quella data la presenza del Vitale in Sicilia, dove Antonello invece ancora risiedeva.

Perché invece dovremmo identificare il Ritratto di Cefalù con il volto di Antonello da Messina?

In mancanza di documenti, anche io mi baso su raffronti somatici; noto infatti (ma non sono il solo, anche gli autori del libro appena citato lo scrivono) una somiglianza sorprendente tra il volto del marinaio e quello che compare in un altro quadro messinese, la “piccola” Circoncisione di Girolamo Alibrandi (Messina, Museo Regionale).

Quasi al centro di quest’ultima composizione ma leggermente sfilato sulla sinistra e come illuminato da un “faretto” speciale, emerge una faccia che ci fissa con lo stesso sguardo in tralice e misterioso: sembra proprio il “cammeo” di un eminente personaggio posto lì a voler essere un omaggio e un ricordo. Il primo studioso che segnalò la curiosa somiglianza tra il Ritratto di Ignoto e il volto al centro della piccola Circoncisione dell’Alibrandi fu Giuseppe Consoli e sulla stessa scia troviamo pure Chiara Savetteri che nel suo libro dedicato ad Antonello scrisse: “L’impatto di quest’opera [il Ritratto di Cefalù] sulla pittura messinese successiva dovette essere notevole: l’attesta la Presentazione al Tempio di Girolamo Alibrandi il quale, omaggiando Antonello, raffigura tra i suoi personaggi di secondo piano l’effigie del Ritratto Mandralisca”. Ad onor del vero, dobbiamo citare un’altra ipotesi di identificazione del personaggio al centro della Circoncisione. Secondo lo studioso Ranieri Melardi, che lo scrisse nel 2011 nella sua tesi di laurea “Girolamo Alibrandi tra l’eredità di Antonello da Messina e la maniera moderna”, quel volto tipicamente meridionale è l’autoritratto di Alibrandi, anche se da recenti conversazioni orali questa ipotesi non riscuote in lui la stessa convinzione di un tempo.



Come spiegare la presenza del volto che sembra proprio quello di Cefalù nel quadro messinese?

Il quadro di Alibrandi, che pervenne all’allora Museo Civico dal Capitolo della Cattedrale, è della metà del II decennio del XVI secolo, mentre il quadro di Cefalù viene ormai concordemente datato attorno al 1470/73, quindi la differenza tra l’uno e l’altro manufatto è di circa quaranta anni. Si potrebbe supporre che l’Alibrandi (di certo spinto dal committente) abbia voluto omaggiare il suo grande conterraneo citandone un suo quadro famoso. Tuttavia, il Ritratto Mandralisca non solo non risulta storiograficamente essere “in antico” un dipinto famoso, tanto da essere citato a decenni di distanza (quasi come in un’operazione “post-moderna”), ma soprattutto non abbiamo prove certe che esso fu mai a Messina, se non nel breve periodo della sua fattura.

In più, che senso avrebbe avuto citare un prelato ed umanista che nulla ebbe a che fare con Messina, addirittura in un quadro da collocare nel cuore della messinesità, o in ogni caso un umanista importante ma non famosissimo nemmeno ai suoi tempi?

Se l’Alibrandi avesse voluto omaggiare Antonello citandone un quadro, avrebbe scelto di certo altri lavori più noti (a Messina si trovavano il Polittico di San Gregorio, il “povero” San Nicola in cattedra nella chiesa di San Nicola dei Gentiluomini e tanti altri dipinti), così come se avesse voluto inserire nella Circoncisione un personaggio famoso del suo tempo, in Messina avrebbe avuto la pletora di cittadini e forestieri da citare. Solo per restare nell’ambito degli studiosi di humanae litterae avrebbe potuto dipingere, ad esempio, la faccia di Costantino Lascaris che dal 1466 al 1501 tenne in Messina una delle più famose accademie di cultura classica di tutta Europa.

Allora come è finito quel volto nel suo dipinto a quarant’anni di distanza?

La mia ipotesi è allora che Alibrandi abbia citato a memoria il suo ricordo della faccia di Antonello, in un’epoca in cui ancora quel volto era ricordato in città da molti, per rendere gloria alla sua persona in uno dei luoghi più importanti dell’antica metropoli mediterranea. Antonello, maestro spirituale dei pittori messinesi; Antonello, pater patriae da omaggiare nel luogo-cuore della patria. Girolamo Alibrandi nacque attorno al 1470 e quando Antonello morì doveva avere quasi 10 anni; quaranta anni dopo fa riemergere dal pozzo della memoria quel volto agognato di colui che fu definito no humani pictori.

Oppure, una spiegazione alternativa sarebbe questa: Alibrandi, frequentando da giovane la nutrita bottega antonelliana attiva a Messina fin dentro il Cinquecento, avrà di sicuro visto moltissime volte il ritratto Mandralisca (all’epoca identificato con l’Autoritratto di Antonello) e dovendo omaggiare il pittore nella Purificazione lo cita quasi pedissequamente. Così si spiegano anche le piccole differenze tra i due volti (il volto dipinto dall’Alibrandi appare più giovanile, più addolcito e meno sardonico di quello dipinto da Antonello, che in effetti potrebbe essere la “foto” di un orgoglioso quarantacinquenne) i quali però, nei tratti salienti e caratteristici (il naso, lo sguardo in tralice che traspare dalle mandorle delle orbite, gli zigomi prominenti, le labbra appuntite, la pelle olivastra), sono quasi del tutto sovrapponibili. Certo, ben poca cosa è una suggestione per poter affermare con certezza che l’Ignoto di Cefalù sia proprio Antonello; però, per quanto mi riguarda, quello sguardo ancora vivo e indagatore che balugina dal buio della materia e del tempo è il suo vero volto, non più di marinaio ma di un grande pittore.

Certo, resta da capire come la nostra tavoletta sia finita, a metà Settecento, a Cefalù. Ma questa -come si dice di solito- è un’altra storia…

Bibliografia
  • J.A. Crowe- G.B. Cavalcaselle, A History of painting in North Italy, London 1871
  • R. Longhi, Frammento siciliano, in “Paragone”, 47, 1953
  • F. Zeri, La percezione visiva dell’Italia e degli italiani, in Storia d’Italia, Torino 1976
  • G. Consoli, Messina- Museo Regionale, in Musei d’Italia- Meraviglie d’Italia, Bologna 1980
  • G. Barbera, Antonello da Messina, Milano 1998
  • T. Pugliatti, La Pittura del Cinquecento in Sicilia- La Sicilia Orientale, Napoli 1993
  • C. Savettieri, Antonello da Messina, Palermo 1998
  • M. Lucco, Antonello da Messina l’opera completa, Milano 2006
  • T. Pugliatti, Antonello da Messina rigore ed emozione, Palermo 2008
  • R. Melardi, Girolamo Alibrandi tra l’eredità di Antonello da Messina e la maniera moderna, tesi di laurea, 2011
  • S. Varzi- A. Varzi- A. Dell’Aira, Sfidando l’ignoto. Antonello e l’enigma di Cefalù, Palermo 2017
  • D. De Pasquale, Antonello da Messina e il suo tempo, Messina 2021