Approfondimento

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Il nazismo esoterico di Hitler

«L'archeologia si dedica alla ricerca dei fatti, non della verità. Se vi interessa la verità, l'aula di filosofia del professor Tyre è in fondo al corridoio».

Con queste parole dal film Indiana Jones e l’ultima crociata, che dovrete tenere a mente, iniziamo questo approfondimento sul nazismo di Hitler: il nazismo esoterico e la ricerca di oggetti come il Sacro Graal o la Lancia di Longino, secondo l’ideologia nazista, avrebbero donato un immenso potere all’esercito tedesco, portando la razza ariana alla conquista del mondo. Quanto il Führer e il suo braccio destro Himmler abbiano fatto affidamento su un potere magico o divino per vincere la guerra, ai fini della storia, è irrilevante. Non sappiamo quanta verità si nasconda dietro le loro convinzioni e non sappiamo quanta ricerca fosse legata a un reale interesse per questi oggetti. Ci limiteremo a raccontare alcuni fatti legati alla ricerca di oggetti dal potere mistico senza spacciarli per verità.

hitler
Hitler e i nazisti, i nemici numero uno di Indiana Jones

Indiana Jones contro i nazisti di Hitler

Il filo conduttore di questo approfondimento, lo avrete capito, è la figura dell’archeologo più famoso del cinema: il professor Henry Jones Junior, ma preferisce farsi chiamare Indiana Jones. Spielberg ha illuso generazioni intere di giovani studenti universitari che, al loro primo giorno in aula, hanno dovuto accettare l’amara verità che l’archeologia reale è molto lontana da quella del professor Jones. Ma c’è una cosa sulla quale il regista e il suo personaggio non ci hanno mai mentito: l’ossessione dei nazisti (antagonisti per eccellenza nei film di Indiana Jones) per gli oggetti leggendari legati alla religione. 

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Il Sacro Graal, la coppa che avrebbe dato un potere immenso a Hitler

In Indiana Jones e l’ultima crociata i nazisti sono alla ricerca del Sacro Graal, la coppa usata prima da Cristo nell’Ultima Cena e poi da Giovanni di Arimatea per raccogliere il sangue di Cristo dalla Croce. Il professor Jones riesce a trovare il Graal prima del nemico e dimostra molta intelligenza nello scegliere la coppa giusta: la più modesta, nascosta in mezzo a tanti calici in oro e gemme preziose. I nazisti, invece, bevono dalla coppa sbagliata: non pensano con umiltà, accecati dal potere e dalla gloria che si nasconde dietro lo scintillio dell’oro. Questo succede nel grande schermo.

Nella realtà ci fu un Indiana Jones, uno storico e ricercatore medievale, impegnato nella ricerca di manufatti come il Graal. Si chiamava Otto Rahn e non combatteva i nazisti: era un ufficiale delle SS, incaricato da Himmler per trovare il Graal.

Otto Rahn, il cercatore del Sacro Graal

Il mito di Parsifal, l’unico cavaliere degno di vedere il Graal

Otto Rahn era un appassionato di poemi medievali e, come Himmler, conosceva bene il mito di Artù e dei Cavalieri della Tavola Rotonda. In particolare, la figura su cui si focalizzò fu quella di Parsifal, il cavaliere di Artù che aveva trovato il Graal. Secondo la leggenda, il Graal era custodito sulla cima del Monsalvato, in un eremo in cui i puri di cuore trascorrevano la loro vita traendo forza dagli oggetti sacri ivi custoditi. Tra gli altri oggetti c’era anche la Lancia di Longino di cui ci occuperemo più avanti. A questo punto occorre fare una precisazione: sebbene il beneficiario del potere di questi oggetti sarebbe stato il Führer, la ricerca ossessiva fu opera di Himmler (capo delle SS e secondo uomo più potente della Germania) e di Otto Rahn.

Apparizione del Graal sulla Tavola Rotonda in un dipinto del XV secolo
Parsifal impugna la Lancia di Longino nell’opera Parsifal di Richard Wagner. Disegno di Arnaldo Dell’Ira,1930 ca.

La crociata contro i Catari, un indizio del Graal sul Monsalvato

Rahn, dopo aver passato al vaglio la storia medievale, identificò il Monsalvato in Francia. Fu la crociata dei Catari (1209-1229) a fornire un indizio al ricercatore. I Catari, perseguitati dai crociati pontifici, si erano arroccati nella fortezza di Mòntsegur, per scampare alla furia violenta dei cavalieri. Mòntsegur, tuttavia, è ricordata oggi come località in cui, il 16 marzo 1244, i catari furono arsi vivi dai crociati. La forte somiglianza tra il “Mòntsegur” dei catari e il “Monsalvato” di Parsifal persuase Rahn che quella fosse stata l’ultima dimora del Graal prima di sparire nel nulla. Le ricerche attorno alla fortezza iniziarono nel 1929 ma, ovviamente, non portarono ad alcun risultato. Tornato in Germania nel 1933, Rahn scrisse un resoconto delle sue avventure in Francia intitolato La crociata contro il Graal, che ottenne subito un discreto successo.

Mòntsegur (Francia)
La Lancia di Longino, da Costantino a Carlomagno fino a Hitler

Abbiamo già accennato a un altro oggetto molto ambito da Hitler: la Lancia di Longino che, secondo la tradizione religiosa, ferì il costato di Cristo sulla Croce. Al contrario del Sacro Graal o dell’Arca dell’Alleanza, nei film di Indiana Jones non c’è riferimento alla Lancia. Forse perché, a differenza degli altri oggetti, la Lancia di Longino riuscì davvero ad arrivare nelle mani di Hitler.

Crocefissione di Simone Martini, sulla sinistra è visibile la Lancia che ferisce il costato di Cristo

Nei Vangeli di Matteo (27:49,50) e Giovanni (20:33-35) ritroviamo lo stesso episodio che riguarda la Lancia: essa apparteneva a Gaio Cassio Longino, comandante di una centuria romana e allora quasi cieco. Fu proprio lui a trafiggere il costato di Gesù in Croce, il cui sangue, colando sulla lancia, finì negli occhi di Longino ed egli riacquistò la vista. La Lancia divenne così un oggetto sacro e, dalle fonti scritte, sappiamo che da Gerusalemme fu portata a Costantinopoli da Elena, madre dell’imperatore Costantino, insieme ad altre reliquie appartenute a Cristo. Dopo secoli passati alla corte bizantina, la lancia passò in molte mani potenti: da Carlo Magno a Ottone I, che la utilizzò come simbolo del Sacro Romano Impero, poi ad Enrico IV di Baviera e all’imperatore Carlo IV. Il 12 marzo 1938 Hitler conquistava l’Austria e la Lancia, che faceva parte del tesoro degli Asburgo, stava per cambiare nuovamente il suo proprietario.

Longino in un mosaico del XV secolo conservato a Chio
Hitler, dopo aver invaso l’Austria, fece trasportare il tesoro reale a Norimberga

13 ottobre 1938: la Lancia lasciò la capitale austriaca caricata su un treno corazzato e scortata da un corpo speciale delle SS. La accolse la chiesa di Santa Caterina insieme a tutto il tesoro reale degli Asburgo, sorvegliato giorno e notte dai nazisti. La leggenda vuole che la Lancia sia stata portata in Germania per poter attingere al suo straordinario potere. La realtà ridimensiona di molto l’alone sacro intorno all’oggetto: la Lancia fu portata in Germania e messa in mostra, è vero, ma fu portata via come bottino di guerra di un Paese conquistato insieme al tesoro reale. È più probabile che Hitler, nell’atto di rifondare l’impero, vedesse la Lancia come simbolo di continuità con l’impero di Ottone I. Finita la guerra, la Lancia fu riportata in Austria e conservata al Museo Hofburg di Vienna, sua attuale sede.

Le analisi scientifiche sulla lancia e le sue reali origini

Stando allo studio del reperto, come si poteva prevedere, non siamo in presenza della reale Lancia miracolosa. Ma possiamo apprezzarne il valore storico: l’oggetto è stato datato all’VIII secolo d.C. e la manifattura è chiaramente di origine carolingia. La lancia, rotta in due punti, possiede una triplice fasciatura in ferro, poi in argento e infine in oro. La fascia in argento risale al II secolo d.C., ma l’iscrizione sopra di essa appartiene ad Enrico IV di Baviera, in vita tra il 1084 e il 1105. Il fodero in oro appartiene al XIV secolo, momento in cui la lancia si trovava nelle mani di Carlo IV, l’imperatore fece incidere la frase Lancea et Clavus Domini.

La Lancia di Longino conservata al Museo Hofburg di Vienna

Non sappiamo quanta verità ci sia nella convinzione che gli oggetti tanto ricercati avrebbero potuto portare la razza ariana in capo al mondo. I fatti ci dicono che i nazisti, ridicolizzati e sbeffeggiati nei film di Indiana Jones, si macchiarono di crimini che lasciarono per sempre un’impronta insanguinata nella storia. Fecero ciò senza ausilio di oggetti potenti e divini, guidati solo dall’odio generato dalla mente umana.

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“Bella ciao”, storia di un inno popolare

Una mattina mi son svegliato, / o bella, ciao! Bella, ciao! Bella, ciao, ciao, ciao! / Una mattina mi son svegliato e ho trovato l’invasor! è impossibile non leggerla cantando! Ormai da decenni questo canto popolare è entrato a far parte delle nostre vite e si è diffuso anche a livello internazionale. Il testo canta gli ideali della libertà, della resistenza contro le dittature e gli estremismi. Per questo Bella Ciao è considerata il simbolo della resistenza italiana.

Associato alla Giornata della Liberazione, il 25 Aprile, Bella Ciao è un canto popolare di cui non si conosce l’autore. Raggiunge la sua fama a seguito della Liberazione perché idealmente legato al movimento partigiano.

bella ciao

Un po’ di storia

Nei diversi studi, alcuni storici della canzone italiana vedrebbero all’origine di Bella Ciao un canto del mondo contadino. Sembra che fosse intonato dalle mondine che, in una prima versione, cantavano dello sfiorire della giovinezza causata dal duro lavoro nelle risaie. Un’altra versione la lega, invece, a una ballata francese del Cinquecento. Una terza versione trova che le melodie abbiano influenze Yddish, in particolare la canzone Koilen registrata da un fisarmonicista Klezmer di origini ucraine, Mishka Ziganoff, nel 1919 a New York.

La Bella ciao partigiana invece, secondo i più, riprendeva nella parte testuale la struttura diFior di tomba, un canto diffuso nel nord Italia.

Sebbene il canto inizi a coincidere con il simbolo dell’intero partito partigiano solo a guerra finita, uno studio di Cesare Bermani dimostra che alcuni gruppi partigiani lo avevano scelto come proprio inno. “Non è vero che Bella ciao non sia stata cantata durante la Resistenza” – dice lo studioso. Continua: “Era l’inno di combattimento della leggendaria Brigata Maiella in Abruzzo, cantato dalla brigata nel 1944. I suoi componenti lo portarono a Nord dopo la liberazione del Centro Italia, quando aderirono come volontari al corpo italiano di liberazione”.

bella ciao
La Brigata Maiella per la liberazione di Bologna (fonte: La Prima Pagina)

Secondo Bermani, non si pensa ad associarla, di fatto, a tutti i partigiani per un errore di prospettiva. Si tende a pensare maggiormente che la Resistenza, e quindi il canto partigiano, fossero un fenomeno settentrionale. 

Un inno che attraversa la storia

La popolarità internazionale di Bella ciao inizia tra la fine degli anni ’40 e gli anni ’50, in occasione dei numerosi “Festival mondiali della gioventù democratica” in molte città, tra cui Vienna, Berlino e Praga. In queste occasioni veniva cantata dai delegati italiani e tradotta in molte altre lingue. Raggiunse, così, una grandissima diffusione negli anni Sessanta, soprattutto durante le manifestazioni operaie e studentesche.

Ma, nel corso dei decenni, furono molte le versioni di Bella Ciao e molte le occasioni in cui venne cantata. La prima volta in televisione fu nel 1963, nella trasmissione Canzoniere Minimo, eseguita da Gaber, Maria Monti e Margot. Una versione a cui mancava, però, l’ultima strofa: questo è il fiore di un partigiano / morto per la libertà. Venne poi incisa da Gaber su 45 giri nel 1967.

Sempre nel 1965, venne cantata da I Gufi, nell’album i Gufi cantano due secoli di Resistenza e, successivamente, nel 1972 venne incisa da un partigiano ligure, Paolo Castagnino, con il suo gruppo folk italiano.

LP Bella Ciao – La Resistenza In Italia: Testimonianze Sonore, 1972

La sentiamo nuovamente in televisione quando, nel 2002, Michele Santoro la intona in apertura del programma Sciuscià. E, ancora, tra le riedizioni più popolari in Italia ci sono quella del gruppo folk Modena City Ramblers e quella del gruppo ska Banda Bassotti. Anche il gruppo spagnolo Ska-P ne ha realizzato una propria versione. 

Un inno internazionale di libertà

Bella ciao, ad oggi, è cantata in 40 lingue diverse e in numerose versioni. Di recente, per dimostrare vicinanza e solidarietà agli italiani durante l’emergenza sanitaria da Covid-19, un’intera via della città tedesca di Bamberga dedica all’Italia Bella ciao.

Nonostante sia un brano italiano, legato a vicende nazionali, viene usato in molte parti del mondo come canto di resistenza e di libertà. Durante le manifestazioni contro Erdoğan avvenute nella piazza Taksim di Istanbul e in tante altre città turche nel 2013, alcuni manifestanti hanno intonato il motivo della canzone. Inoltre, gli indipendentisti curdi l’hanno fatta propria durante la guerra civile siriana in corso.
Nic Balthazar, regista e attivista belga, nel 2012 aveva realizzato un video per la manifestazione ambientalista Sing for the climate in cui i manifestanti cantavano Do it now, sulle note dei Bella ciao. Il brano è stato così adottato come inno per l’ambiente in occasione delle manifestazioni di “Fridays for future”.

Sing for the Climate

Sempre guardando oltre i nostri confini, possiamo apprezzare l’esecuzione del brano del musicista bosniaco Goran Bregović, che la include regolarmente nei propri concerti e che ha dato al canto popolare un tono decisamente balcanico.

È innegabile, però, che per i più giovani il successo di Bella ciao sia legato alla serie TV spagnola “La casa de papel“. La canzone partigiana viene cantata in italiano in alcuni momenti cruciali, sottolineando il senso di ribellione e felicità dei rapinatori protagonisti della serie.

Ad oggi Bella ciao viene considerata un inno universale alla libertà, in ogni sua forma, un inno che attraversa la storia e non conosce confini.

Una scena da “La casa de papel”

Di Concetta Barbera

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Stefano Vittori, quando il latino incontra la Disney

Per il prof. Stefano Vittori le lingue antiche non hanno segreti e, soprattutto, sono più attuali che mai. Il suo amore per il latino, il greco, l’antico egiziano, fa sì che queste lingue rinascano sotto nuove forme, divenendo contemporanee e divertenti! In un’intervista alla nostra redazione, Stefano Vittori ci racconta del suo amore per le lingue antiche e di come siano diventate la sua quotidianità e si siano trasformate in qualcosa di inaspettato.

Una vita da linguista

La lingua latina antica, lingua dell’Impero Romano e degli antenati d’Italia, nell’immaginario collettivo è considerata, a torto, una lingua morta, che si è evoluta nel corso dei secoli per lasciare il posto al volgare e all’italiano. L’italiano contemporaneo, però, deriva proprio dal latino popolare ed è una lingua ricca di contaminazioni linguistiche avvenute grazie ai contatti con i molteplici popoli che si sono succeduti sul territorio peninsulare nel corso dei secoli.

Ma il latino è una lingua morta? Non per il prof. Vittori! Lavorare all’assottigliamento del distacco tra la lingua latina dell’antica Roma e l’italiano contemporaneo è tra le attività di Stefano Vittori, docente, oltre che di italiano, greco e geostoria, proprio di latino. Il prof. Vittori è, a tutti gli effetti, un linguista che, nel corso del suo percorso accademico, si è rapportato con un panorama linguistico abbastanza ampio: dalle lingue indoeuropee, con una laurea in lettere classiche e una tesi sulla metrica latina, al dottorato in Egittologia, con una tesi in linguistica storica.

“Per quello che sento io, – dichiara il prof. Vittori,  – appartengo a entrambi i mondi. Non sento divisi i due territori”.

Stefano Vittori

L’incontro con Marina Garanin

Alla domanda su quale sia la lingua che più gli appartiene, Stefano risponde: “Da quando ho potuto conoscere il latino, essa è diventata la lingua più adatta a vestire il mio pensiero“.

Il latino, tuttavia, per lui è anche la lingua d’uso con la sua compagna, Marina Garanin, dottoranda in lingua latina presso l’università di Heidelberg. “Con Marina non parliamo in latino per una qualche pretesa snob. C’è una rete internazionale di latinofoni, molto presente sui social, in cui ci sono le nostre amicizie comuni: noi ci siamo conosciuti lì, e lì abbiamo iniziato a scriverci nella lingua che ci aveva fatto conoscere: il latino. Semplicemente ci verrebbe meno naturale parlare tra di noi in altre lingue”.

Stefano e Marina

Il latino fa tendenza!

Come molti in questa rete internazionale, anche Stefano e Marina operano nell’ambito della divulgazione della lingua latina, in un modo tutto innovativo, che coniuga antichità e cultura con le nuove tecnologie. Attraverso i loro canali social (rispettivamente con i nomi di Rumak e Musa Pedestris su Youtube e Instagram), il latino è a portata di click! Ma com’è nata la decisione di iniziare un percorso social per la divulgazione della lingua latina?

“Per quanto riguarda il parlare in latino è stato Luke Ranieri, mio amico dal 2006, il quale da molto tempo ha un canale Youtube seguitissimo (ScorpioMartianus). Ci eravamo conosciuti, ai tempi, attraverso un forum in cui si faceva pratica di conversazione in latino. Qualche anno fa, attraverso i social, Luke mi scriveva nuovamente invitandomi a partecipare ai suoi acroamata, podcast in latino sulla fonologia storica. Tutto l’elemento parlato e di recitazione delle opere latine è nato dal riallacciamento dell’amicizia con Luke e dall’incontro con Marina”.

Luke, Stefano e Marina

L’unione con il mondo Disney… e non solo!

Ma, oltre a dialoghi contemporanei e recitazioni di opere antiche, l’attività social si arricchisce anche di una sezione del tutto particolare: traduzioni e riadattamenti di canzoni di film d’animazione!

“Il tutto è nato durante un’ora di supplenza, in cui di fatto stai lì a fare la guardia! Stavo lì seduto, mentre i ragazzi chiacchieravano tra loro e non sapevo che fare. E mi viene in mente la canzone di Scar Sarò Re, da Il re leone. Guarda che anapesti che ha questa canzone!, mi sono detto, Quasi quasi la rendo in latino. Ora, perché proprio la Disney? Tutto in realtà parte dalla metrica. Nella canzone di Scar ci sono questi anapesti (ndr. in metrica classica, è il piede composto da due sillabe brevi e una lunga) bellissimi. Forse per le canzoni dei film d’animazione, essendo destinate ad un pubblico meno adulto, c’è necessità di una musicalità più chiara, più distinta… Sta di fatto che la metrica delle canzoni Disney si adatta molto bene alla metrica dei piedi classici”.

“E contemporaneamente, -continua Stefano -, è partita la fantasia su come fosse caratterialmente Scar calato nella civiltà romana. Scar è chiaramente un epicureo e quindi quale poteva essere il latino adoperato da Scar in questo testo? È un latino tutto improntato sul modello del De Rerum Natura di Lucrezio o, quantomeno, con un bel po’ di influenze lucreziane. Si tratta di un personaggio che manifesta un certo snobbismo, quindi ho pensato che doveva essere un latino lucreziano, arcaizzante, molto elevato. E quindi così, durante l’ora di supplenza, ho iniziato a pensare ai primi versi, completati nei giorni successivi. Ho contattato Luke per proporgli di cantarla e ne è stato subito entusiasta. È nata così Duce mē. Visto il discreto successo, siamo andati avanti con altre canzoni come L’amore è nell’aria stasera (Nocte amica amantibus), sempre da Il Re Leone, Fiamme dell’Inferno (In Igni) da Il Gobbo di Notre-Dame, Principe Alì (Triumphus Aladdini) da AladdinTranquilla! (Et nil est) da Oceania o, anche, La Canzone di Sally (Regillae Carmen) e Questo è Halloween (Mundus Pateat) da Nightmare Before Christmas”.

Le difficoltà di traduzione

Il lavoro di traduzione di un testo contemporaneo in una lingua antica, mostra, tuttavia, alcuni ostacoli. Stefano ci parla di quello che, inizialmente, può essere il più rilevante:

“Alcune canzoni vogliono, per come le sento io, una traduzione, come nel caso di Scar e il latino lucreziano. Si va a tradurre il personaggio, non il pezzo. Il pezzo sarà semplicemente una conseguenza, una traduzione delle sue parole come le penserebbe un parlante latino che viva nell’epoca, e che abbia il carattere, che più si adatta a quel personaggio. Frollo, ad esempio, un prelato, parla un latino medievale di registro alto”.

“Quando invece percepisco che il testo possa essere più propenso all’adattamento di un testo antico, – continua Stefano, – cerco nella mia mente il testo antico più adatto ad esprimere le sensazioni del testo contemporaneo a cui sto lavorando, chiedendomi quale testo antico avrebbe potuto dare al fruitore antico la stessa sensazione che dà a me il testo contemporaneo in questione. È proprio la canzone che te lo dice se è meglio tradurla o se è meglio adattare un testo antico a quella canzone”. Ed è questo il caso del riadattamento di Wellerman a cui Stefano ha pensato di abbinare il testo de Il racconto del naufrago, un testo letterario dell’Antico Egitto datato al Medio Regno.

Stefano, inoltre, ha sempre in cantiere nuovi progetti linguistici, dalle traduzioni e riadattamenti delle canzoni, anche contemporanee come appunto Wellerman o anche My Bonnie lies over the ocean, alle dirette in cui conversa sul conflitto in Ucraina in latino. Insieme a Marina, di recente, ha dato vita a una serie di video-lezioni di egiziano antico, AegyptianUS, in latino!

Stefano e Maria in un video di AegyptianUS

Le lingue antiche, nel mondo proposto dal prof. Vittori, sono dunque tutt’altro che morte: sono portatrici di memi (atteggiamenti antropologici, filosofici, esistenziali) cui il mondo attuale è estremamente ricettivo, forse anche più che in passato. E lo vedremo ancora meglio, ci anticipa il professore, nei progetti futuri attualmente in lavorazione, in uscita sui canali social!

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Vincent Van Gogh, uno sguardo nell’inconscio

La mostra 


Roma si prepara ad accogliere 50 opere di Vincent Van Gogh, in mostra presso Palazzo Bonaparte dall’8 Ottobre 2022.
Le opere del celeberrimo pittore olandese verranno trasferite dal Museo Kröller-Müller di Otterlo e saranno a disposizione del pubblico della capitale italiana fino a marzo 2023. La mostra avrà dunque luogo in autunno e ospiterà alcune delle opere più celebri, tra cui il famoso Autoritratto del 1887. Il Museo di Otterlo contiene uno dei più grandi patrimoni dell’arte vangoghiana e grazie alle sue testimonianze biografiche sarà possibile ripercorrere la storia umana e artistica del pittore. Si tratta di un percorso espositivo a cadenza cronologica che parte dal vissuto olandese, per fare tappa a Parigi, ad Arles in Provenza fino a St. Remy e Auvers-Sur-Oise, dove l’artista si suicidò con uno sparo di rivoltella all’età di 37 anni.

La mostra è un ottimo pretesto per fare un passo in avanti rispetto al desueto e addentrarci nell’inconscio del pittore per scoprire più a fondo la complessità del genio creativo che lo animava.

Dodici girasoli in un vaso, 1888, olio su tela. Monaco, Neue Pinakothek

La lettura patografica

Alla pittura di Vincent Van Gogh è quasi sempre stata attribuita, sia dalla storiografia sia dai critici, una validità creativa generatasi più che dal genio, dalla biografia dell’artista. L’obiettivo di questo articolo è di mettere da parte tale lettura patografica per dedicarsi all’analisi del genio creativo avulso dalla biografia del pittore, in altre parole; una lettura che mette in risalto l’io e i pensieri dell’autore a discapito di una biografia che giustifica tale innovatività tramite gli eventi drammatici che hanno segnato la sua breve esistenza. 

Lo sforzo speculativo che ci accingiamo a fare, trae forza ed ispirazione dall’opera dello psicologo Massimo Recalcati, Melanconia e creazione in Vincent Van Gogh (Bollati Boringhieri 2014). La validità dell’analisi di Recalcati sta nel riuscire a far emergere la forza creativa del pittore senza però tracciarne un ritratto idealizzato, bensì disilluso e dinamico. Come ben sappiamo Van Gogh fu un’artista sui generis e famosissimi sono gli episodi di follia a cui la storiografia ci ha abituato. Prima di procedere con un’analisi più dettagliata dell’inconscio dell’autore, ripassiamo qualche vicenda biografica sempre utile per poterne tracciare un quadro complessivo.

Iris, olio su tela, 1889. Los Angeles, Getty Museum

Chi era Vincent Van Gogh? Cenni biografici

Vincent Van Gogh nasce in Olanda il 30 marzo 1853 e muore, suicida, il 29 luglio 1890 nei campi di Auvers. Il primogenito della famiglia, il primo Vincent, nasce morto e l’artista da noi conosciuto ne eredita il nome insieme alle aspettative riposte dai genitori (passo cruciale nell’analisi recalcatiana che attribuisce alle pressioni paterne parte dei tormenti del pittore). Dalla famiglia Vincent riceve un’educazione restrittiva e religiosa, al punto che la prima scelta del giovane è la carriera da predicatore. Fallita quest’ultima Vincent trova, grazie all’arte, il suo posto nel mondo e tramite il fratello Theo, il secondogenito mercante d’arte, riesce ad inserirsi in questo ambiente. In vita i suoi quadri non riscossero il benché minimo successo e incerte sono le fonti su quelli venduti, alcuni dicono addirittura nessuno.

 Autoritratto, 1887, olio su cartone. Art Institute of Chicago (dettaglio in copertina)

La sua arte (clicca qui per conoscere le opere dell’artista nel database online) è in continua evoluzione e passa da una predilezione per i paesaggi scuri al famoso amore per il giallo. Il soggiorno a Parigi presso gli Impressionisti si rivela proficuo sia dal punto di vista artistico che umano, infatti è proprio qui che Vincent si lega a Gauguin, artista con lui in sintonia e con cui decide di avviare una breve convivenza.

Gauguin è protagonista dell’episodio dell’orecchio mozzato e causa degli isterismi presso la casa gialla, residenza che Vincent prende in affitto ad Arles e in cui sogna di riunire una fraterna comunità d’artisti in grado di stimolarsi reciprocamente. Il progetto tuttavia fallisce e, a seguito dell’incidente dell’orecchio, Gauguin si allontana da Vincent. Quest’ultimo continua ad andare avanti in solitudine accompagnato da paranoie e isterismi, entrando e uscendo dal manicomio di Saint-Rémy. Disperato e sempre più vittima di crisi, decide di suicidarsi sparandosi nel petto all’età di 37 anni.   

Cielo tempestoso sulla spiaggia di Scheveningen, 1882 Olio su carta. Amsterdam, Van Gogh Museum

 

Un cromatismo melanconico

Uno dei primi punti da tenere in considerazione dell’arte di Vincent Van Gogh è la sua multiformità. Il dato emerge dalla continua ricerca di una scala cromatica che esprima l’assoluto nella sua essenza, un assoluto melanconico espresso progressivamente. La melanconia, come ben sappiamo, ha un ruolo fondamentale nella vita di Van Gogh ed è uno di quegli elementi imprescindibili per indagare seriamente la sua arte. La melanconia però non pregiudica l’arte a prescindere ma anzi dialoga con l’inconscio diventando la dimensione ontologica vangoghiana.

«In Van Gogh la pittura diventa un gorgo che lo trascina via, una incandescenza che brucia la vita e che frammenta l’essere dell’artista. Si pensi alla travagliata serie degli autoritratti, ma anche al problema della firma delle sue opere. Assistiamo a uno sciame di immagini e di segni, mai uno uguale all’altro, a un caleidoscopio vertiginoso che anziché dare consistenza all’identità del soggetto la sbriciola e la pluralizza senza alcuna possibilità di unificazione. […] Questa assenza di un centro permanente, irraggiungibile e, dunque, ideale in modo esorbitante, tende a produrre un’identificazione di tipo melanconico. È la nostra ipotesi clinico-diagnostica intorno a Van Gogh: la sua schizofrenia è secondaria a una posizione fondamentalmente melanconica del suo essere»¹.

La descrizione della realtà avviene attraverso questa lente melanconica, i soggetti delle sue opere sono la caducità e il vero. Ne I mangiatori di patate del 1885, che sono il compendio della sua prima fase creativa, l’obiettivo è quello di rappresentare le cose così come stanno. «Nella melanconia ciò che emerge senza veli è la “nuda vita”, il reale brutto dell’esistenza, l’esistenza nella sua contingenza più radicale»². Nel caso di questo dipinto – scrive Vincent al fratello Theo – «mi sono sforzato di dare a chi guarda l’idea che queste persone, hanno rivoltato la terra con le stesse mani con le quali prendono il cibo dalla ciotola». Dunque, sono la fatica e la precarietà gli obiettivi della rappresentazione.

I mangiatori di patate, 1885 olio su tela. Amsterdam, Van Gogh Museum

L’assoluto e la religione

Il ruolo della religione nella vita di Vincent si rivela improduttivo in ambito lavorativo – dato che la tanto attesa nomina a predicatore non arrivò mai – ma l’esperienza del sacro nei quadri appare onnipresente da un punto di vista ermeneutico, cioè interpretativo:

«Con la precisazione doverosa che per lui il sacro, l’assoluto, il volto del santo, non è mai accessibile attraverso una rappresentazione canonico-religiosa perché il volto del santo coincide con il volto del mondo. In questa opzione si fa presente tutto il peso della kenosis cristiana come dissoluzione di ogni versione puramente speculativa e teologale di Dio. […] Verbo che si fa carne, assoluto che abita il mondo, che è in ogni cosa, in ogni volto del mondo. Per questo egli non dipinge mai le icone religiose della tradizione, ma solo le cose del mondo, la natura e i volti degli umani elevandoli alla dignità dell’icona. Non c’è anima senza corpo, non c’è trascendenza se non nell’immanenza, non c’è volto del santo se non nei colori e nelle figure che abitano il mondo»³.

La sua arte è quindi da intendere come manifestazione e ricerca di un sacro-assoluto che si esplicita in ogni materia del mondo. Viene notevolmente influenzato dall’arte giapponese, di cui fu un grande collezionista di stampe, ma dal principio, sarà la scossa artistica ricevuta a Parigi dall’Impressionismo ad essere centrale nelle sue produzioni. Nei più di novecento quadri prodotti si ritrova nelle pennellate la necessità di rappresentare il mondo così com’è, senza mediazioni ne artifici.

Terrazza del caffè la sera, Place du Forum, Arles, olio su tela, 1888. Otterlo, Museo Kröller-Müller

La semplicità del linguaggio pittorico traduce nell’immediato la vera dimensione ontologica di ciò che lo circonda; una semplicità ravvisabile nella terza versione della Camera di Vincent ad Arles, in cui concede spazio alla pura espressività del colore con l’intento di semplificare e quindi di donare una dimensione universale agli oggetti. Una dimensione che non lascia spazio a interpretazioni individuali ma che comunica immediatamente l’intenzione del pittore, nel caso della camera, era quello di far pensare al riposo.

La camera di Vincent ad Arles, 1889, olio su tela. The Art Institute of Chicago

«Nonostante l’intenzione di rappresentare uno scenario sereno e pacifico, il dipinto non riesce nel suo intento: gli oggetti non hanno niente in comune, ognuno è isolato al proprio posto. Il senso d’inquietudine è dato inoltre dallo scorcio estremo con cui sono resi, oltre che dal pavimento, che si inclina in avanti e pare quasi sul punto di crollare, dalla finestra semiaperta, dai mobili disposti obliquamente nella stanza, come pure dai quadri che pendono storti dalla parete»4

L’intento vangoghiano di rappresentare uno scenario di tranquillità, non riesce ad emergere nonostante fosse proprio quello lo scopo. Pur approntando una lettura anti-patografica, ecco che la melanconia riappare. Tuttavia, ciò non deve far presuppore un’arte dominata dagli eventi, l’arte per Van Gogh è anzi il posto sicuro in cui rifugiarsi, il luogo dove la creatività dell’inconscio emerge nonostante tutto.

Caos e consapevolezza

Nell’ultimo Autoritratto, quello del fatale 1889, si percepisce che l’uso del colore – arrivato al suo culmine della vivacità negli ultimi anni – è intenzionalmente inquieto. Lo sfondo a spirali azzurro-verdi pulsa sulla tela; le forme «non sono originate né da un ritmo regolare né da un motivo fisso»5. Il forte contrasto emotivo è dato anche dalla contrapposizione di colori accesi come la barba rossiccia e la vivacità dei lineamenti tirati. Le forme in cui Van Gogh rinchiude l’autoritratto sono elementi dinamici, che non sono fuori controllo, bensì accuratamente scelti per rendere sulla tela uno stato tormentoso.

Autoritratto, 1889, olio su tela. Parigi, Musée d’Orsay

La lettura patografica è sicuramente tra le più valide per interpretare l’arte vangoghiana e ciò che la caratterizza; è però soffermandosi individualmente sul processo creativo di ogni opera che si riesce davvero a scorgere il genio dietro questa straordinaria arte multiforme.

 

                                                                            «Tutto ciò che facciamo si affaccia sull’infinito»

                                                                                            – Vincent Van Gogh

Riferimenti bibliografici

  1. M. Recalcati, Melanconia e creazione in Vincent Van Gogh, Bollati Boringhieri, Torino 2014, pp. 27-28.
  2. Ivi, p. 48.
  3. Ivi, p. 12.
  4. I. Walther, Van Gogh, Taschen, Slovakia 2020, pp. 77-78.
  5. Ivi, p. 76.

 

 

Approfondimento

NEWS | Le ricerche italiane sul Vicino Oriente Antico: un resoconto del convegno di Lipsia

Si è da poco concluso l’11° Colloquium Internazionale del Deutsche Orient-Gesellschaft, tenutosi nella città tedesca di Lipsia (16-19/06/22). Si tratta di un importante appuntamento accademico dedicato allo studio dell’ambiente in cui si svilupparono le società del Vicino Oriente Antico.

Il Vicino Oriente Antico in Europa

Per certi versi, si potrebbe pensare che tale evento riguardi solo da lontano il mondo italiano. Invece, l’interesse nostrano per l’area vicino orientale e la sua forte presenza in ambito internazionale sono una realtà ben affermata, seppur non se ne parli molto.

Parlare di “ricerca” è abbastanza semplice. Eppure, “cosa sia la ricerca” è spesso un mistero. Soprattutto in relazione al campo storico, filologico, archeologico. In effetti, la specializzazione degli studi ha raggiunto una tale profondità da non poter più essere compresa dal cittadino comune, se non per mezzo di un intermediario: il divulgatore scientifico, nei limiti delle sue possibilità. Gli argomenti presentati in occasione dell’11° Colloquium a Lipsia sono, in effetti, molto complessi, seppur assolutamente affascinanti. In relazione all’ambiente, si è parlato del ruolo degli animali in Mesopotamia negli incantesimi, divinazione o addirittura nelle favole. Si è parlato di piante e del loro utilizzo, diffusione, simbolismo. È stato poi analizzato il territorio, in relazione al suo sfruttamento, o alla gestione delle acque. Si è persino parlato di come il meteo influisse sulla vita quotidiana delle persone, o di come queste percepissero la primavera 5 millenni fa.

Locandina dell’evento promosso dall’Istituto di Oriente Antico dell’Università di Lipsia
Il Vicino Oriente Antico e gli studiosi italiani

Nei quattro giorni in cui si è svolto il convegno, un mondo antico, per certi versi perduto, è rinato attraverso le ricche esposizioni dei relatori invitati a parlare. Tra questi figuravano anche accademici di origine italiana. In ordine di programma ecco gli argomenti trattati. La Dott.sa Nicla De Zorzi, professoressa presso il dipartimento di Studi Orientali dell’Università di Vienna, ha proposto un intervento sulla figura degli animali nella Divinazione in Mesopotamia. Il Dr. Carlo Corti, ricercatore presso il dipartimento di Studi Storici dell’Università degli Studi di Torino, ha presentato un intervento sulla viticoltura presso il popolo degli Ittiti. Il Dr. Edoardo Zanetti, ricercatore indipendente, ha parlato di ingegneria idraulica nel III mil. a.C., e di ricostruzione del paesaggio sumerico. Infine, il Dr. Tommaso Scarpelli, dottorando presso l’Istituto di Oriente Antico presso l’Università di Lipsia, ha condiviso i suoi dati relativi all’impatto meteorologico sui viaggi in Mesopotamia.

La sede dell’Istituto di Oriente Antico dell’Università di Lipsia 

 

Il piacere di confrontarsi, il piacere di ritrovarsi

L’evento tenutosi nella storica Biblioteca Albertina, ha richiamato a Lipsia ricercatori provenienti da tutto il mondo, Italia compresa. Non certo una sorpresa, sono moltissimi i colleghi italiani perfettamente inseriti nel contesto internazionale. In ogni caso, una precisazione è dovuta: accademicamente il panorama nostrano è composto tanto da studiosi che operano sul territorio nazionale, quanto da personalità che invece proseguono le proprie carriere all’estero. Gli appuntamenti internazionali, dunque, non solo costituiscono una grande momento di confronto e dibattito, ma offrono soprattutto una preziosa occasione di riavvicinamento tra colleghi connazionali così distanti l’un dall’altro. Da un punto di vista personale, quei sorrisi, quegli abbracci, quegli “A presto!”, scambiati tra una presentazione e l’altra sono uno dei fuochi che alimentano la ricerca stessa, lo stimolo per affrontar le difficoltà, il sostegno per non abbandonare i propri progetti. Una bellezza da difendere nonostante la crisi che colpisce anche il mondo accademico, soprattutto italiano.

Facciata della Biblioteca Albertina
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ACCADDE OGGI | Brucia sul rogo Fra Dolcino, il predicatore eretico

Il 1 Giugno 1307 le fiamme misero fine alla vita di Fra Dolcino. Fu predicatore eretico che con tale vigore influenzò il suo mondo da meritarsi una citazione nella Divina Commedia. Infatti, Maometto, attraverso la penna di Dante, ne profetizza l’arrivo. Lo fa da un luogo singolare: la bolgia dei seminatori di discordie e degli scismatici.

Il fatto storico

Il 1306 la predicazione di Fra Dolcino chiamò contro di sé una crociata. Furono Papa Clemente V e il vescovo Raniero di Vercelli a volerla, e così i dolciniani si ritrovarono costretti a combattere per difendere la propria vita, non solo le proprie idee. Il Monte Rubello divenne fortezza per eretici che riuscirono, per quasi un anno, ad opporsi alle forze di Raniero. Tuttavia, dopo un lungo logoramento, i dolciniani furono alfine sopraffatti. L’assedio li aveva costretti a mangiar i morti tanto erano affamati, e per questo i crociati giustiziarono i sopravvissuti. Non tutti. Fra Dolcino, la sua compagna Margherita ed il luogotenente Longino, furono processati e condannati a morte nel 1307. Margherita e Longino finirono arsi vivi sulle sponde del torrente Cervo. Dolcino subì invece l’umiliazione pubblica prima estinguersi tra le fiamme di fronte la Basilica di Sant’Andrea a Vercelli.

Litografia di Fra Dolcino, Michele Doyen (1809 – 1881)
Le idee

Il pensiero di Fra Dolcino rientra nel più vasto panorama di idee millenariste che circolavano diffusamente in epoca medievale. Nello specifico, la predicazione dolciniana consisteva in una stretta adempienza al messaggio evangelico, sostenendo un forte principio di povertà e credendo in un imminente castigo divino. La Chiesa, in particolare, era accusata di immoralità, di aver tradito i veri valori cristiani. Dolcino seppe essere così convincente da conquistarsi la fiducia di Matteo Visconti, con il quale ottenne militarmente il controllo della Valsesia nel 1304. Eppure, il successo durò poco: solo un anno più tardi il Visconti ritirò il proprio appoggio, e le truppe crociate guidate dal vescovo di Vercelli si misero in marcia.

Lapide commemorativa posta da Tavo Burat e Roberto Gremmo
Curiosità oltre la storia

La vicenda dolciniana è l’ombra che aleggia sui personaggi de “Il nome della Rosa” di Umberto Eco. Nel romanzo numerosi sono gli accenni al contesto storico e sociale in cui si mosse Dolcino. Tra gli altri il personaggio di Bernando Gui fu effettivamente l’inquisitore che sentenziò la morte per i dolciniani nel 1307.  

F. Murray Abraham interpreta Gui nell’adattamento cinematografico del 1986 diretto da Jean-Jacques Annaud
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APPROFONDIMENTO | Decebalo, il re dimenticato

Nei rilievi che animano la colonna traiana vi è un personaggio che troppo spesso resta in ombra agli occhi dei più. È Decebalo, re dei daci, il grande avversario di Traiano e pietra d’inciampo per la politica romana. Lo si vede, in particolare, nella scena 106 della colonna, nell’atto di suicidarsi ormai circondato dai romani. Una fine tragica che segna la fine della seconda campagna dacica, ed il trionfo di Traiano. Eppure, Decebalo fu più di una testa mozzata portata in dono all’imperatore romano. Fu un degno rivale, senza il quale non sarebbe ma stato realizzato uno dei monumenti più importanti della Roma imperiale. Conoscerne la storia, pertanto, è indispensabile: non esistono eroi senza i loro avversari.

Decebalo: l’uomo, il re, il nemico

I romani conoscevano l’importanza dell’attribuire dignità al nemico e per Decebalo non fanno eccezioni. Per quanto questo personaggio sia uno sconfitto, è evidente come nei rilievi lo si mostri fiero, possente, come un uomo in grado di trasmettere sensazioni contrastanti: fascino, in quanto ultimo re della Dacia, morto per essa; timore sapendolo a capo di un regno ostile che osò sfidare l’impero. Lo storico Cassio Dione ne fa una descrizione che ben rivela il carattere di questo illustre sconfitto: doppiamente scaltro; abile in attacco, sia nel ritirarsi; esperto nell’imboscate tanto quanto nello scontro campale. Ma soprattutto: non solo sapeva bene come sfruttare la vittoria, ma era abile a limitare i danni in caso di sconfitta. È chiaro, quindi, che l’allargamento di Roma in Dacia non fu semplice come il far passare lo sguardo sui rilievi della colonna traiana. Si trattò di un’impresa ardua, e dall’epilogo non scontato.  

Statua di Decebalo nella città di Deva, Romania
Il re che sfidò l’impero

La vicenda storica di Decebalo inizia con una sconfitta. Persa la guerra al tempo di Domiziano il re della Dacia dovette accettare la pace. Non si trattò, tuttavia, di un trattato umiliante. Infatti, in cambio della fine delle ostilità Roma, incalzata dalle tribù germaniche, avrebbe pagato un tributo. Ne consegue che Decebalo ottenne così i fondi per ricostruire le proprie forze, tanto da allarmare il nuovo imperatore, Traiano. La guerra fu inevitabile, e probabilmente voluta da entrambe le parti. Vi furono due campagne, e seppur la resistenza di Decebalo fu estenuante, una dopo l’altra le roccaforti daciche caddero. Decebalo continuò a combattere arroccandosi tra le montagne ma, circondato, preferì darsi la morte insieme ai suoi compagni. E con lui scomparve anche il regno di Dacia, ormai inglobato nell’Impero Romano.

Decebalo si taglia la gola, dettaglio della colonna traiana
Un’insolita rivalsa

Seppur Decebalo sia stato scolpito nella colonna traiana nei panni dello sconfitto, il suo spirito può forse tornare a sorridere sprezzante. A circa 2000 anni dalla sua morte, l’imprenditore Iosif Constantin Drăgan ha finanziato la costruzione di un’imponente scultura rupestre dedicata a Decebalo. Si tratta del rilievo roccioso più alto d’Europa, a ridosso della gola del Danubio detta Porte di Ferro, un passaggio strategico nella guerra tra romani e daci. La realizzazione dell’opera avvenne tra il 1992 e il 2004, con la collaborazione scultore italiano Mario Galeotti che diede forma al progetto nella sua fase iniziale. Così, il volto serio di Decebalo è tornato a scrutare quelli che furono i confini del proprio regno, e a guardare con sdegno la Tabula Traiana che svetta sul lato opposto del fiume. Si tratta di un’iscrizione lasciata da Traiano, prova del suo passaggio attraverso le Porte di Ferro. Pertanto, la guerra non è ancora finita: Tiberio e Decebalo, ognuno nella propria roccia, ancora una volta si oppongono.

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APPROFONDIMENTO | La Frontiera agli albori della storia

Il concetto di frontiera e terra di nessuno si era quasi perso entro i confini europei, pur rimanendo fondamentale nel resto del mondo. Da ultimo, le vicende tra Russia e Ucraina, Russia e Occidente, hanno riportato all’attenzione il tema della frontiera, e di quanto sia delicato. Tuttavia, l’idea di una linea invalicabile che separa gli stati è antica quasi quanto la storia stessa, e sin dagli albori le dinamiche legate ai confini sono pressoché sempre gli stessi. Vale la pena conoscerne l’origine per comprendere meglio la nostra attualità.

Il contesto storico

L’idea di un confine ideologico e non geografico nasce nel III milllennio a.C. nella bassa Mesopotamia (Iraq). In quel tempo venne rendicontata la prima guerra mai descritta dall’uomo, tra il regno di Lagaš contro quelli di Ur e Umma. Il conflitto finì con l’innalzamento di colline di cadaveri nella piana. Tale gesto dovette far breccia nell’animo umano in quel tempo, tanto che dopo quella battaglia i sovrani inizieranno a usare i cumuli di cadaveri nemici per stabilire la frontiera, e stelie disposte lungo il confine per commemorare gli eventi bellici. In particolare, la prima guerra di confine mai documentata è quella per il possesso della regione del Guedina, tra i regni sumerici di Lagaš e Umma. Si tratta di un conflitto per accaparrarsi le principali riserve agricole della regione, dinamica che motiva ancora le guerre attuali.

La Mesopotamia con evidenziate le principali città del III millennio a.C.
Non oltrepassare il confine

Secondo la tradizione religiosa dei sumeri erano stati gli dèi a decretare i confini tra gli stati. Gli uomini, invece, ne garantivano l’ordine attraverso la stipulazione di trattati, ossia attraverso una primissima forma di diplomazia interstatale. Tuttavia, il regno di Umma contravvenne all’ordine imposto tendando di strappare il Guedina dal controllo di Lagaš. A termine di ogni battaglia i difensori ristabilivano le stele di confine, in cui erano impressi i moniti contro gli invasori. Ad esempio, il testo RIME 1.9.5.1 tramanda un’interessante maledizione: Possa Enlil (capo del pantheon sumerico) annientare l’uomo di Umma che tenti di oltrepassare il confine di Ninĝirsu e Našše (divinità principali in Lagaš) per strappare i campi con la violenza, che sia esso di Umma o uno straniero.

Le truppe di Lagaš marciano in formazione contro il nemico, un dettaglio dalla cosiddetta “Stele degli avvoltoi” (RIME 1.9.3.1)
Una terra di nessuno per garantire la pace

Per ovviare al problema dei confini sovrapposti i re di Lagaš inventarono quella che oggi è chiamata terra di nessuno. Sono gli stessi sumeri a darne la definizione nell’iscrizione RIME 1.9.5.1: Eannatum, il principe di Lagaš […] tracciò i confini con Enakalle, il principe di Umma […] lasciando dalla parte di Umma il campo di Ningirsu per un’ampiezza di 1290 metri […] e stabilendolo come campagna senza proprietario; su questo fossato eresse delle stele […] e non penetrò nelle campagne di Umma. I due regni erano, quindi, separati da circa un chilometro di campagna, ma gli accordi non vennero rispettati: Il sovrano di Umma […] bruciò le stele di confine e le sradicò; distrusse gli altari degli dèi nella “terra di nessuno”; assoldò genti straniere e attraversò “la frontiera”. Questa dinamica si ripeté per circa un secolo, fino all’assalto finale. Infatti, seppur con stile, fu Lagaš a perdere la guerra.

Il testo sumerico RIME 1.9.5.1 in cui sono narrate le vicende belliche in relazione alla frontiera tra Umma e Lagaš
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APPROFONDIMENTO | Essere mamma agli albori della storia

L’8 maggio si celebra la cosiddetta Festa della Mamma. Un evento che certamente riguarda il nostro presente ed il rapporto che abbiamo con chi ci è vicino. Eppure, vale la pena chiedersi quanto sia antica questa figura così amorevole, o così severa, ma che, in ogni caso, è legata ai figli da una certa consapevolezza e sentimento. Le fonti che ce la svelano sono di circa 4 millenni fa e, in particolare, sono i proverbi e le lettere di epoca sumerica e babilonese a rivelarne gli aspetti più intimi e affascinanti. A seguire, qualche piccolo spunto. 

Mai raccontare bugie alla mamma

Il rapporto con i figli è spesso così difficile da costituire un aspetto fondamentale nella vita dei genitori. Lo è oggi così come al tempo dei sumeri, tanto che in uno dei più antichi componimenti scritti dall’uomo, Le istruzioni di Shuruppak, databile alla metà III millennio a.C., è presente un consiglio pedagogico di particolare interesse. È rivolto ai figli, e recita come segue: Non devi dire bugie a tua madre: queste generano odio! […] La madre è come il dio sole, ha generato il genere umano (258–263). Concetto ripreso secoli dopo in un proverbio paleo-babilonese che definisce meglio l’insegnamento: un bambino dovrebbe comportarsi con modestia verso sua madre. Dovrebbe prendere in considerazione la vecchiaia! (UET 6/2 371). Insomma, i tempi cambiano ma certe dinamiche sembrano restare invariate.

Dipinto con ambientazione vicino orientale, An ancient custom di Edwin Long
Mamme disperate e figli ribelli

L’aspetto del disordine è uno dei principali casus belli tra mamme e figli. Nulla di nuovo, nemmeno per i sumeri. Infatti, non stupirà quanto le fonti antiche hanno da dire su questo argomento, anzi nel leggerle si potrebbe provare un certo senso di complicità o, più che altro, rassegnazione. Il consiglio, in questo caso, ha più il sapore di uno sfogo immortale: un figlio disordinato? sua madre non avrebbe dovuto metterlo al mondo, il suo dio non avrebbe dovuto crearlo! (c. 1.157). Non manca poi l’analisi del differente rapporto che si instaura con una figlia o con un figlio, come recita il seguente proverbio: una ragazza chiacchierona è messa a tacere da sua madre; un ragazzo chiacchierone non viene messo a tacere da sua madre (c. 1.185). Da questo punto di vista, ci si metta allora l’animo in pace: a quanto pare i maschi sono storicamente ingestibili.

Dipinto con ambientazione vicino orientale Queen Esther di Edwin Long
Mamme ingrate e figli fuorisede

Dato un assaggio ai proverbi sumerici, vale la pena passare alle lettere private. In un caso, troviamo un figlio che studia lontano da casa. Decisamente arrabbiato, prende argilla a stilo, e scrive una lettera a sua madre rinfacciandole di non inviargli vestiti nuovi. Il risultato è esilarante: […] Hai reso i miei vestiti più economici di anno in anno. Risparmiando sulle mie vesti sei diventata ricca! […] Il figlio di Adad-iddinam, il cui padre è un servo di mio padre, ha due vestiti nuovi […] Mentre tu mi hai dato alla luce, sua madre lo ha adottato, ma tu non mi ami nel modo in cui sua madre lo ama! (AbB 14 165). Una situazione proprio incresciosa quella vissuta dallo studente babilonese fuorisede che, evidentemente, subisce il peso di non sentirsi alla moda come i suoi coetanei. Che avesse ragione o meno il suo sfogo ha prevaricato, nel tempo, sulle ragioni di sua madre.

Dettaglio del dipinto con ambientazione vicino orientale, The Babylonian marriage market di Edwin Long
Mamme amorevoli e figli in ritardo a scuola

A chiusura di questo excursus sulle mamme agli albori della storia vale la pena ricordare la giustificazione di uno studente per il suo ritardo a scuola. L’episodio è tratto, in realtà, da un componimento sulla vita degli scribi, detto Edubba A, ma a tutti gli effetti è una finestra sulla vita scolastica dei fanciulli.  In questo caso, si può concludere che dar il la colpa alla mamma sia una strategia antichissima da usare con i maestri a scuola. Così parla il protagonista: la mattina svegliami, dissi, se faccio tardi il maestro mi punirà; ma al mio risveglio ho puntato gli occhi su mia madre, e le dissi, dammi la colazione che devo andare a scuola! Niente da fare, come si capisce dalle linee successive del testo, il ragazzo saltò la mattinata scolastica per aver ricevuto la colazione in ritardo. Sempre colpa di mamma, in ogni caso. D’altronde, un proverbio sumerico è molto chiaro in merito: la mia sorte è in una voce, (e) la mia mamma la può cambiare (c. 2.6).

 

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ACCADDE OGGI | Il Sacco di Roma: quando spagnoli e lanzichenecchi misero in ginocchio la Città Eterna

Il sacco di Roma da parte dei lanzichenecchi è uno degli eventi più tristi per la città dei Papi, considerato ben più terribile di quello perpetrato dai Goti o dai Vandali. Non solo. Fu una vera umiliazione per la Chiesa Cattolica, già duramente indebolita dall’affermazione della Riforma Luterana. Ma è anche il culmine simbolico della guerra tra Regno di Francia e Sacro Romano Impero per la supremazia in Europa. Non a caso l’evento del Sacco di Roma è considerato uno spartiacque tra il Rinascimento e l’Età Moderna.

Il fatto storico

Il 6 maggio 1527 fu un giorno particolarmente triste per la storia di Roma. In migliaia morirono, altrettanti fuggirono. Chi rimase assistette impotente alla devastazione portata dai lanzichenecchi congiunti alle forze spagnole: stupri, dissacrazioni, razzie. Seguì l’umiliazione del Papa, arroccatosi nella fortezza di Castel Sant’Angelo, e costretto a pagare un’ingente somma di denaro per il riscatto della città. Infine, la beffa: Roma, messa in ginocchio e derubata, dovette subire anche il morso della peste. Infatti, a causa del sovraffollamento dovuto alla presenza degli occupanti, la già precaria situazione igienica tracollò e le malattie colpirono lì dove le spade non erano arrivate.

Il “Sacco di Roma” dipinto da Johannes Lingelbach
Il contesto storico ed i protagonisti in campo

La prima metà del XVI secolo europeo si caratterizza per le accese lotte tra il Sacro Romano Impero ed il Regno di Francia. La rivalità tra le due potenze fece del suolo italico terreno di scontro, dinamica che spinse gli stessi stati italiani a scegliersi una parte a seconda del momento. Così, nel 1526, troviamo un’instabile coalizione antimperiale, detta Lega di Cognac, composta principalmente da Papa Clemente VII, dalle repubbliche di Venezia e Firenze, e dal Regno di Francia. Tuttavia, furono due uomini a determinare la storia del tempo, due condottieri di chiara fama. Georg von Frundsberg, condottiero per parte imperiale, e Ludovico di Giovanni de’ Medici, passato alla storia come Giovanni delle Bande Nere, condottiero al soldo del Papa. Il fiume Po divenne la linea da non valicare, e le Bande Nere ne furono i custodi implacabili, almeno finché la bocca di un falconetto non urlò il proprio boato.

Statua di Georg von Frundsberg presso il municipio della città bavarese di Mindelheim
Giovanni delle Bande Nere, l’ultimo difensore di Roma

Quando l’esercito papale ripiegò evitando lo scontro con le forze imperiali Giovanni, detto delle Bande Nere, non concesse terreno agli invasori. S’impegnò in una caccia al fine di bloccare il condottiero imperiale Georg von Frundsberg, impegnandolo in una guerriglia sfiancante. Tuttavia, Ferrara e Mantova presero in segreto la parte degli invasori, i primi fornendo pezzi d’artiglieria, i secondi non impedendo il passaggio dei lanzichenecchi. Alla fine, il 25 novembre del 1526 i due condottieri rivali si ritrovarono l’un di fronte all’altro, pronti ad affrontarsi nell’assalto decisivo. La battaglia fu aspra, e la fortuna passò dalla parte imperiale solo quando i falconetti fiorentini presero a sparare. Nella battaglia un colpo d’artiglieria raggiunse Giovanni a una gamba costringendolo a ritirarsi. Morirà per la ferita pochi giorni dopo, mentre i lanzichenecchi oltrepassavano il Po.

Più violenti dei Goti, più crudeli dei Vandali

Il 28 novembre 1526 le forze imperiali attraversarono il Po nei pressi di Ostiglia, riuscendo a respingere le forze della Lega di Cognac. Con l’inizio del nuovo anno le truppe di lanzichenecchi si unirono a quelle spagnole. L’esercito fu ulteriormente ingrossato da contingenti italiani filoimperiali entro la primavera.  Tuttavia, quello che non arrivò fu la paga dei soldati e il malcontento degli uomini portò all’infarto l’ormai anziano Georg von Frundsberg nel tentativo di placare le proteste. La tregua stipulata col Papa inasprì ancor di più la situazione. Solo il saccheggio delle terre nemiche avrebbe placato la rabbia dell’esercito imperiale. E così accadde: mentre von Frundsberg restava a curarsi a Ferrara, il nuovo comandante, Carlo di Borbone, riprendeva l’avanzata verso Roma, e verso la propria morte in battaglia. Il 6 maggio 1527, 20000 tra lanzichenecchi e spagnoli assaltavano le deboli difese romane e, seppur con ingenti perdite, la città alla fine capitolò.

“I cinque Lanzichenecchi” acquaforte di Daniel Hopfer