Accadde oggi

Accadde oggi

13 dicembre 1250, muore lo “stupor mundi” Federico II

L’evento

Il 13 dicembre 1250 moriva, a Fiorentino di Puglia, Federico II di Svevia. Costui viene ricordato come l’ultimo imperatore del Sacro Romano Impero. Dopo la sua morte, infatti, non ci fu più un impero né tantomeno un imperatore. La sua influenza fu tale che il figlio, Manfredi, lo definì “il sole del mondo, dei giusti. L’asilo della pace.”

Ritratto dell’imperatore dal trattato De arte venandi cum avibus, di cui è autore lo stesso Federico II (immagine presa via Puglia.com)

Giovinezza

Federico II nacque a Jesi, nelle Marche, il 26 dicembre 1194, dal matrimonio tra Costanza d’Altavilla, figlia di Ruggero II re di Sicilia, ed Enrico VI, figlio di Federico Barbarossa. Dalla madre ereditava così il regno di Sicilia e dal padre l’Impero. Nel 1198, a distanza di un anno l’uno dall’altra, morirono entrambi i genitori e la sua educazione fu affidata a papa Innocenzo III. Egli crebbe presso la corte siciliana, venendo a contatto con la cultura dinamica del regno.

La politica e le scomuniche

Nel 1208, raggiunta la maggiore età, divenne a pieno titolo Re di Sicilia e nel 1215 venne incoronato Imperatore da papa Onorio III, a seguito della morte degli altri pretendenti. Per quel che riguarda la Sicilia, egli unificò il regno e rafforzò la monarchia attraverso alcuni provvedimenti: combatté contro i baroni troppo autonomi, attuò una riorganizzazione del diritto e della cultura, liberandola dagli influssi saraceni, e deportò in Puglia gli ultimi musulmani rimasti. Parallelamente, l’alleanza tra papato ed impero si incrinò poiché entrambi volevano il potere assoluto, sia temporale che spirituale.

 

Augustale, moneta d’oro fatta coniare dall’Imperatore a partire dal 1231 nelle zecche di Messina e Brindisi


Le lotte che
iniziarono tra le due istituzioni sfociarono in ben due scomuniche ai danni di Federico II da diversi papi: Gregorio IX e Innocenzo IV. La prima volta, il 23 marzo 1228, perché non mantenne la promessa di una sesta crociata in Terrasanta, voluta da Onorio III. Per ritornare nelle grazie del papa, nonostante la scomunica, partì lo stesso verso la Terrasanta e, nel 1229, si fece incoronare Re di Gerusalemme. La seconda scomunica la ottenne nominando suo figlio Ezio Re di Sardegna. Tale possedimento, in realtà, apparteneva al papa. L’imperatore venne scomunicato durante la Settimana Santa e, per evitare la conferma del provvedimento, Federico II arrivò a prendere in ostaggio i cardinali che avrebbero dovuto partecipare al consiglio indetto dal papa.

I tentativi di annessione dei Comuni

L’imperatore si trovò ancora ad affrontare altri nemici della corona: i Comuni italiani. Difatti, Federico voleva annettere l’Italia ai domini imperiali ma ciò contrastava con l’indipendenza ottenuta dai Comuni, oltre che con gli interessi papali. I Comuni decisero di ricreare la cosiddetta Lega Lombarda, costituita da Milano, Bologna, Piacenza, Mantova, Lodi, Bergamo, Torino e Padova, per opporsi a Federico II e lottare per la libertà che avevano acquisito già sotto Federico Barbarossa. Nemmeno in Germania l’imperatore ebbe un appoggio; anzi, emersero delle spinte centrifughe che portarono all’affermarsi dei signori locali tedeschi e ben poco poté fare Federico per evitare che il potere imperiale si sgretolasse. Gli scontri contro i Guelfi, ormai alleati dei comuni e appoggiati dal papa, segnarono la fine di Federico II nel 1250.

 

Miniatura del XIV secolo rappresentante Federico II e la sua passione per la falconeria

 

Lascito federiciano

Federico II, definito dai suoi alleati stupor mundi e anticristo dai suoi nemici, fu, in realtà, un grande uomo di cultura. Grazie alla sua azione venne fondata la prima università laica a Napoli nel 1224, in contrapposizione all’Università di Bologna di stampo religiosa, e inoltre venne costruito nel 1240 uno dei castelli più suggestivi al mondo, ovvero Castel del Monte. La fortezza, un prezioso esempio di architettura gotica, romanica e araba, unica nel suo rigore matematico ed astronomico, si trova in Puglia e a partire dal 1996 fa parte dei beni dichiarati Patrimoni dell’umanità dell’Unesco.

La scuola poetica siciliana

La sua iniziativa, però, non si limitò soltanto a questo. Egli, infatti, fu il fondatore della Scuola poetica siciliana nel 1230, da cui deriva il volgare italiano. Questa si incentrò sull’attività dei funzionari imperiali incentivati dallo stesso imperatore, come Giacomo da Lentini, Guido delle Colonne, Cielo d’Alcamo, l’autore di Rosa fresca aulentissima, e Pier delle Vigne, che viene citato addirittura da Dante nella Commedia, precisamente nel XIII canto dell’Inferno tra i suicidi, dopo essere stato accusato ingiustamente di tradimento.

Lo scopo era quello diffondere il volgare italiano, in particolar modo il siciliano, ispirandosi alla lirica cortese dei trovatori; infatti, la produzione poetica della Scuola siciliana costituì la prima produzione lirica in volgare e soprattutto del componimento noto come sonetto. Ma non solo, l’attività poetica dei siciliani anticipò anche alcuni tratti stilistici che furono tipici dello Stilnovismo toscano.

Gli intellettuali della Scuola siciliana, rappresentati in una miniatura (immagine via Lavocedell’Jonio)
Accadde oggi

Luigi Pirandello, il premio Nobel siciliano

L’evento 

Il 10 dicembre 1936 moriva a Roma Luigi Pirandello, uno degli scrittori e drammaturghi italiani più influenti del Novecento, premio Nobel per la letteratura nel 1934.

Pirandello mentre fuma una sigaretta nel suo studio (immagine presa via lebiografie.it)
Pirandello mentre fuma una sigaretta nel suo studio (immagine via lebiografie.it)

Formazione 

Luigi Pirandello nacque in Sicilia il 28 giugno 1867, a Girgenti, l’attuale Agrigento. Egli crebbe in una famiglia relativamente agiata dal punto di vista economico, legata ad un patriottismo antiborbonico. Questo influenzò la sua educazione e i suoi ideali politici. 

Inoltre, furono importanti nella formazione letteraria dell’autore tre ambienti: quello siciliano, pieno di suggestioni magico-popolari, quello romano, che lo avvicina a Luigi Capuana e quello tedesco, dove scoprirà Nietzsche e Freud

Poetica 

Nel 1889 pubblica la sua prima opera: la raccolta poetica, Mal Giocondo. Nel 1904 l’autore pubblicò sulla rivista Nuova Antologia Il fu Mattia Pascal. In questo romanzo troviamo i tratti caratteristici delle sue opere: come l’umorismo, la derisione della borghesia, la presenza della psicoanalisi, la teoria delle maschere nello stesso individuo ed il relativismo. Tra le altre opere si ricordano: L’Esclusa (1901), Quaderni di Serafino Gubbio operatore (1916/1925), Sei personaggi in cerca d’autore (1921), Enrico IV (1922), Novelle per un anno (1922), Ciascuno a suo modo (1924), Uno, nessuno e centomila (1925), Questa sera si recita a soggetto (1930) ed i Giganti della montagna, pubblicata postuma (1937).

Prima edizione de Il fu Mattia Pascal (immagine via pirandelloweb.com)

L’eredità pirandelliana 

Insieme a Franz Kafka, Robert Musil e James Joyce, Luigi Pirandello introdusse un nuovo approccio al racconto breve e al romanzo, liberandolo dalle arretratezze del romanzo ottocentesco. Infatti, se l’impalcatura esterna continuò a sembrare tradizionale, i contenuti inseriti furono quelli delle avanguardie del primo Novecento: l’Espressionismo e il Surrealismo. Infine, ancora oggi le opere dello scrittore siciliano, continuano ad essere studiate e tradotte in tutto il mondo. 

 

Accadde oggi

Pearl Harbor: le Hawaii in fiamme sotto l’attacco giapponese

L’evento

Il 7 dicembre 1941 il Giappone attaccò la base americana di Pearl Harbor, nelle Hawaii. Si trattò di un pesante colpo per gli Stati Uniti durante la Seconda Guerra Mondiale, tanto che, dal giorno successivo, gli USA, neutrali fino a quel momento, entrarono in guerra.

Prima dell’attacco

Gli U.S.A all’inizio del conflitto non presero parte alle ostilità, ma si dichiararono dalla parte della democrazia, mettendosi indirettamente contro l’Italia, la Germania ed il Giappone.

La situazione precipitò quando quest’ultimo invase Saigon, una regione dell’Indocina francese, il 24 luglio 1941. Gli Stati Uniti, sentendosi minacciati, risposero con il blocco delle esportazioni di materie prime verso il Giappone, che ne era carente.

A questo punto la potenza orientale decise di sferrare un attacco a tradimento alla base militare americana di Pearl Harbor. Difatti, non c’era stata alcuna dichiarazione di guerra contro gli Stati Uniti, tutto avvenne all’improvviso.

Veduta del porto di Pearl Harbor

L’attacco

L’offensiva giapponese incominciò all’alba del 7 dicembre 1941, esattamente alle 3:42, quando l’aviazione e la flotta imperiale nipponica entrarono nel radar della base di Pearl Harbor, nelle Hawaii. Lo stato di allerta venne diramato solo a partire dalle 7:58 dal capitano Logan Ramsey.

L’assalto si protrasse fino al pomeriggio con la sconfitta degli U.S.A, che non seppero organizzare una controffensiva adeguata. I giapponesi, invece, guidati dall’ammiraglio Isoroku Yamamoto riuscirono a danneggiare gravemente le navi ancorate al porto e a distruggere ben quattro corazzate (navi da guerra con un rivestimento, o meglio corazza, in acciaio o ferro), ovvero la California, la Nevada, l’Arizona e l’Oklahoma che si capovolse. La United States Pacific Fleet ne uscì semidistrutta. I danni furono ingenti a causa dei molteplici incendi che si svilupparono; soprattutto fu elevato il numero di vittime e feriti tra soldati e civili. Si contano circa 2403 militari e 57 civili tra i morti. Fortunatamente, i portaerei non trovandosi nella base hawaiana, vennero risparmiati.

L’U.S.S. Shaw, uno dei cacciatorpedinieri americano, avvolto dalle fiamme (immagine via New York Times)

Dopo l’attacco

La manovra aggressiva del Giappone ebbe l’effetto di rompere la non belligeranza statunitense. Gli Stati Uniti, infatti, l’8 dicembre 1941 dichiararono guerra al Giappone e ai suoi alleati. Di contro l’Italia e la Germania si schierarono contro gli americani. Ormai era diventato un conflitto di portata mondiale. Non solo.

Gli americani non dimenticarono mai quanto successe a Pearl Harbor e verso la fine della Seconda Guerra, per far arrendere il Giappone, sganciarono l’arma più spaventosa che l’uomo avesse mai visto: la bomba atomica.

In copertina: la corazzata americana Arizona completamente distrutta dai bombardamenti (immagine via Britannica.com)

Accadde oggi

La battaglia di Zama e la fine della Seconda guerra punica

La guerra

Il 19 ottobre del 202 a.C. si svolse la battaglia di Zama che portò alla fine della Seconda guerra punica.

La guerra tra Roma e Cartagine andava avanti da circa sedici anni; iniziata per il controllo dei territori dell’Hispania, si estese su più fronti, fino alla penisola italica.

Busto di Publius Cornelius Scipio Africanus scoperto nella Villa dei Papiri a Ercolano; metà I secolo a. C., Museo Archeologico Nazionale di Napoli

 

Dato l’enorme sforzo bellico ed economico, nel 204 a.C. il console Publio Cornelio Scipione propose un piano rischioso per porre fine alla guerra: attaccare direttamente Cartagine sul suo territorio, ripagando il generale Annibale della stessa moneta.

Il piano di Scipione

Il console puntava ad attirare le forze cartaginesi in Africa, allontanandole così da Roma.

E mentre il senato discuteva se appoggiare o meno l’ambizioso e rischioso piano, Scipione agiva in Africa cercando di strappare quanti più alleati a Cartagine. Il più importante risultato del console in queste trattative è sicuramente quello di aver portato dalla sua parte Massinissa (principe della Numidia) e la sua cavalleria.

Campagna africana di Scipione dal 204 al 203 a.C. Da: The Fall of Carthage: The Punic Wars 265–146 BC. di Adrian Goldsworthy

Il piano di Scipione ebbe successo: date le vittorie romane sul suolo africano, Annibale fece ritorno in patria.

La battaglia

La battaglia decisiva si svolse a Zama, vicino l’odierna Tunisi, dove le forze cartaginesi superavano quelle romane nonostante i rinforzi trovati.

Sul campo di battaglia, Annibale dispose i pachidermi in prima linea per rompere i ranghi romani, formati da tre linee di fanteria al centro e la cavalleria ai lati; la disposizione cartaginese era simile a quella romana ma più compatta.

Disposizione delle forze sul campo di battaglia

La strategia di entrambe le forze era quella di accerchiare il nemico, ma Annibale puntava di riuscirci prima grazie all’aiuto degli elefanti. Una volta iniziato lo scontro, i romani sfruttarono la debolezza dei pachidermi (si facevano prendere dal panico) attraverso il suono delle trombe e il lancio di giavellotti e pietre; come aveva previsto Scipione, gli elefanti tentarono di fuggire attraverso le linee romane che, essendo disposte in unità separate, non subirono danni. 

La battaglia di Zama di Henri-Paul Motte, 1890

Sfruttando il caos, la cavalleria romana attaccò i fianchi del nemico, portando alla ritirata dei cavalieri cartaginesi; questo aiutò la causa romana, perché la sua cavalleria poté volgersi su sé stessa e attaccare dalle retrovie la formazione cartaginese determinando l’esito della battaglia.

Questo evento causò il crollo della potenza cartaginese; Roma acquisì il controllo del Mediterraneo occidentale e di tutte le colonie cartaginesi in Spagna. La repubblica romana non fu tenera con Cartagine, imponendole non solo lo smantellamento della flotta, ma anche un pesante tributo che graverà sulle sue economie per circa cinquanta anni.

 

Accadde oggi

19 ottobre 1434, nasce l’Università di Catania

La più antica università di Sicilia

È 19 ottobre 1434: il re di Spagna e Sicilia Alfonso di Trastámara, detto il Magnanimo, fonda il Siciliae Studium Generale. Ad autorizzarne la costruzione sarà la bolla pontificia emanata il 18 aprile del 1444 da papa Eugenio IV; grazie ad essa il Siculorum Gymnasium inizierà a tenere insegnamenti di Teologia, Giurisprudenza, Medicina e Arti liberali.

Eccoci dunque dinnanzi la più antica Università di Sicilia, un ateneo tra i più antichi e attualmente frequentati in Italia.

Ingresso monumentale del Monastero dei Benedettini, sede del dipartimento di Scienze Umanistiche

 

Un Ateneo, secoli di storia

Grazie ad alcune fonti epigrafiche sappiamo che la presenza di un Gymnasium caratterizzò la città di Catania a partire dal V secolo a.C. Dell’antica struttura purtroppo non rimane nulla, sappiamo solo che fu il terzo gymnasium per prestigio dopo Rodi e Cnido. Vittima di spolia, l’edificio fu smantellato per costruire il Castello Ursino.

La fondazione di un’università a Catania matura nuovamente tra il 1434 e il 1444, come risarcimento alla città per il trasferimento della capitale di Sicilia a Palermo. In origine esistevano tre facoltà, caratterizzate da due insegnamenti l’una: Teologia, GiurisprudenzaMedicina. Il rapido crescere dell’università permise l’apertura della facoltà di Arti Libere e l’inserimento di nuovi insegnamenti nei principali dipartimenti.

I corsi vennero inizialmente tenuti presso alcuni locali della Platea Magna o Piano di Sant’Agata, ossia l’odierna Piazza Duomo: a fianco della Cattedrale, con l’annesso Seminario, e del palazzo del Comune. Con la distruzione dei locali (a causa del terremoto prima e della sistemazione della piazza poi), per molti anni l’Università ebbe sede mobile, ospite per lo più in luoghi privati, civili ed ecclesiastici. La costruzione del nuovo palazzo dell’Università fu completata soltanto intorno al 1760. La piazza preposta ad ospitare la nuova sede, tradizionalmente nota come Piazza della fiera del lunedì, prese il nome di Piazza degli Studi, oggi Piazza dell’Università.

Palazzo Università, piazza dell’Università a Catania

Siciliae Studium Generale

Fino al XIX secolo gli studenti provenivano dall’intera Sicilia. Catania fu per quasi quattro secoli l’unica università del regno di Sicilia: questo permise all’ateneo di godere della privativa, ossia del privilegio esclusivo di rilasciare lauree nel Regno di Sicilia.

Lo Studio venne più volte riformato: nel 1873 fu soppressa Teologia e, a seguire, furono riorganizzate tutte le altre facoltà. Gli attuali dipartimenti sono di istituzione novecentesca.

Anche la figura stessa del rettore mutò. Inizialmente, come in uso in tutte le antiche università, la carica veniva eletta tra gli studenti dell’ultimo anno e aveva il compito di proteggere e giudicare gli studenti stessi. Nel 1779 venne abolita per essere ripristinata solo nel 1840 con sostanziali cambiamenti. Il rettore novecentesco è ora un professore posto al vertice del governo dell’Ateneo.

Sigillo storico dell’Università di Catania

 

Unict, Università degli studi di Catania 

Ad oggi sono circa 40 mila gli studenti iscritti all’Università degli studi di Catania. Presenta un’offerta di 104 corsi di studio, suddivisi tra triennali, magistrali e a ciclo unico, cosi come presenta 20 corsi di dottorato di ricerca ed oltre 30 master. L’Ateneo permette inoltre l’iscrizione presso le scuole di specializzazione per medici, archeologi, fisici e specialisti delle professioni legali. L’organizzazione della didattica è affidata a 17 dipartimenti, tra questi abbiamo il Dipartimento di Scienze Umanistiche (DiSUm), situato all’interno di uno dei gioielli del patrimonio culturale siciliano, il Monastero dei Benedettini di San Nicolò l’Arena.

Patrimonio mondiale dell’Unesco, l’edificio monastico nasce nel 1558 e fu più volte sconvolto da calamità naturali. Distrutto e ricostruito, si sviluppa fino ai giorni nostri conservando tracce evidenti di ogni sua fase. Il Monastero è un luogo unico, un monumentale testimone, in grado di raccontare le vicende umane e storiche di Catania e di Monte Vergine. Oggetto di continui studi e scavi, il complesso custodisce sotto di sé i resti di una domus romana e tracce di Katane, la Catania Greca.

Resti di domus, età romana, Monastero dei benedettini di San Nicolò l’Arena

Articolo a cura di Chiara Ansini ed Eliana Fluca.

Accadde oggi

7 ottobre 1571: quando la battaglia di Lepanto diede origine alla festa della Madonna del Rosario

I protagonisti dello scontro

Combattuta quasi mezzo millennio fa, la Battaglia di Lepanto del 7 ottobre 1571 fu uno degli scontri navali più intensi della storia moderna, nel contesto della Guerra di Cipro. Protagoniste furono le flotte cristiane, organizzate dalla Lega Santa (una coalizione militare voluta da papa Pio V a seguito dell’attacco turco a Cipro), contro le flotte musulmane dell’Impero ottomano. La Lega Santa era formata dalle forze navali della Repubblica di Venezia, dell’Impero spagnolo (con il Regno di Napoli e il Regno di Sicilia), dello Stato Pontificio, della Repubblica di Genova e di vari Ducati e Granducati della penisola

Ruolo cruciale in questo avvenimento venne giocato dalla città di Messina, da cui partì la spedizione della Lega Santa. Il 16 settembre 1571, infatti, Messina si svegliava con lo sguardo alle circa 230 galle della flotta cristiana pronte a partire alla volta di Cipro.

Targa commemorativa a Messina

Propagandato come simbolo della vittoria cristiana contro i turchi, lo scontro di Lepanto viene inconsapevolmente ricordato ancora oggi dalla comunità cristiana tutta, poiché ha dato origine alla celebrazione della festa della Madonna del Rosario, in data 7 ottobre, appunto.

Vessillo della Lega Santa

L’imponente battaglia di Lepanto

Il comando fu preso dalla Lega Santa, decisa a contrastare la flotta nemica del sultano Selim II. La battaglia navale ebbe luogo nelle acque del golfo di Patrasso, presso Lepanto il 7 ottobre 1571, con un massiccio dispiegamento di forze. La Lega contava infatti più di 200 galere e 6 galeazze fornite dai diversi componenti della Lega.

La flotta della Lega era comandata da Giovanni d’Austria, fratello illegittimo del re di Spagna Filippo IIInsieme a lui, anche il figlio del duca della RovereFrancesco Maria II, a capo della flotta del ducato d’Urbino. Anche la flotta ottomana contava circa 200 navi, quasi tutte galee, aventi però meno armamenti rispetto alle potenze occidentali; queste erano guidate, sul fronte destro, dall’ammiraglio Mehmet Shoraq, detto Scirocco, e dal comandante supremo Alì Pascià; sul fronte sinistro, invece, era impegnato Uluč Alì, apostata di origine calabrese convertito all’islam.

Gli schieramenti della battaglia in una riproduzione del geografo Ignazio Danti (XVI sec.), Galleria delle carte geografiche del Vaticano

La flotta cristiana contava, secondo le fonti, più di 35.000 combattenti addestrati (comprendenti soldati, marinai e archibugieri) a cui si aggiungevano circa altri 30.000 uomini tra gli addetti alle navi e rematori, tutti, verosimilmente, muniti di armi all’occorrenza. Quella ottomana, invece, aveva un numero sensibilmente inferiore di uomini a disposizione: tra i 20.000 e i 25.000 uomini, compresi i giannizzeri, la fanteria dell’esercito privato del sultano ottomano.

La vittoria della cristianità

Le prime ore della battaglia vedevano un vantaggio della flotta ottomana. Secondo le fonti, intorno a mezzogiorno, cambiato il vento, cambiarono anche le sorti dello scontro a favore delle forze cristiane, vincitrici della battaglia. Sotto il comando di Don Giovanni d’Austria, la Lega Santa ebbe la sua prima storica e clamorosa vittoria contro il potentissimo Impero: 117 galee vennero affondate, 130 catturate.

La vittoria della Lega Santa ebbe, prevalentemente, un’importanza psicologica. I turchi, infatti, fino a quel momento avevano goduto di un periodo florido, di continua espansione e di numerose vittorie nei conflitti contro i cristiani d’oriente. La vittoria della battaglia di Lepanto segnava, quantomeno nelle menti cristiane del tempo, la vittoria del cristianesimo sull’islam. Tuttavia, l’importanza di tale vittoria rappresentava più un simbolo di ciò a cui aspirava la cristianità, anziché una supremazia religiosa vera e propria.

Battaglia di Lepanto, Andrea Michieli detto Vicentino, 1580 circa; dipinto a olio per Palazzo Ducale, Venezia

I turchi, infatti, continuarono le proprie espansioni senza trovare più la Lega Santa a contrastarli. Già nel periodo successivo alla battaglia di Lepanto, i turchi avevano ottenuto, tra le altre isole, anche Creta, strappandola ai veneziani. La Lega, infatti, non aveva né il potere né la coesione di contrastare l’espansionismo musulmano. Vi erano infatti profonde divisioni politiche tra le stesse potenze cristiane d’Europa, a seguito della morte di Pio V (1572). La stessa Venezia preferì stringere accordi di pace con gli stessi ottomani (rinunciando così a Cipro), in cambio di sicurezza commerciale (1573).

Nostra Signora della Vittoria

Nonostante la notizia della vittoria non fosse giunta a Roma prima di una ventina di giorni, secondo una leggenda Pio V, allo scoccare del mezzogiorno del 7 ottobre 1571, avrebbe dato ordine di suonare le campane per la vittoria a Lepanto grazie all’intercessione della Vergine Maria. Fondamentale, quest’ultima, per le sorti della battaglia, al punto che Pio V decise di dedicare la giornata del 7 ottobre alla Nostra Signora della Vittoriaauxilium christianorum.

In seguito, fu Gregorio XIII, succeduto a Pio V, a trasformare la celebrazione in Nostra Signora del Rosario, per celebrare l’anniversario della vittoria di Lepanto ottenuta grazie all’Aiuto dei Cristiani.

Allegoria della Battaglia di Lepanto, Paolo Veronese, 1571; Galleria dell’Accademia, Venezia

L’intento era, dunque, quello di rendere la vittoria, simbolicamente, il trionfo dell’Europa cristiana contro l’invasione musulmana. Una vittoria utile più a risollevare gli animi in prospettiva di future battaglie cristiane contro il nemico turco o qualsiasi altro rivale.

In copertina: Battaglia di Lepanto, National Maritime Museum, Greenwich, Londra.

 


Articolo a cura di Oriana Crasì ed Eliana Fluca

Accadde oggi

3 ottobre 1935, inizia la Guerra d’Etiopia

L’Italia fascista alla conquista dell’Etiopia

La Guerra di Etiopia fu un conflitto armato fra l’Italia fascista e l’Impero di Etiopia. Si svolse tra il 3 ottobre 1935 e il 5 maggio 1936 e vide le truppe italiane vincere e conquistare la regione Abissina. Ma cosa spinse l’Italia a conquistare il territorio Africano?

Antefatti

L’Italia dell’immediato primo Dopoguerra voleva espandere la propria influenza coloniale in Africa, oltre l’Eritrea, la Somalia e la Libia. Riteneva, infatti, suo diritto avere un numero maggiore di colonie, al pari almeno delle altre potenze vincitrici del conflitto.

Nel 1926, Jacopo Gasparini, governatore italiano dell’Eritrea, stipulò contratti di amicizia nello Yemen del Nord, al confine col Protettorato di Aden (colonia britannica). Lo scopo era quello di allargare la propria influenza dal punto di vista economico, commerciale e politico. Tuttavia, Mussolini trascurò tale campagna coloniale, non volendosi, nei suoi primi anni di regime, nemicare gli ambienti liberali vicini alla Gran Bretagna. In Somalia, infatti, Cesare Maria De Vecchi aveva già occupato la regione meridionale dell’Oltregiuba nel 1925, proprio su concessione della Gran Bretagna.

Benito Mussolini

L’interesse dell’espansione coloniale italiana, però, crebbe progressivamente agli inizi degli anni Trenta. La causa va ricercata principalmente negli ideali del Duce, che voleva la ricostruzione di un’Impero Italiano sullo stile di quello Romano. A questo, inoltre, si aggiungeva il problema emigratorio italiano, che sarebbe stato facilmente arginabile con la conquista di colonie.

La guerra

Negli anni Trenta, l’Etiopia, governata dall’imperatore Hailé Selassié, era uno dei pochi paesi africani ancora indipendente. Proprio per questo motivo divenne la meta prediletta di Mussolini per iniziare la propria campagna coloniale.

Il 3 ottobre 1935, quindi, l’Italia dichiarò guerra all’Etiopia, sfruttando come pretesto una serie di incidenti reiterati tra soldati italiani ed etiopi (fra tutti, l’incidente di Ual Ual nel 1934). A condurre il conflitto fu inizialmente Emilio De Bono, poi continuato e concluso dal Maresciallo Pietro Badoglio. Nonostante le pesanti sanzioni economiche da parte della Società delle Nazioni, l’Italia perseverò nel conflitto e, il 5 maggio 1936, le truppe italiane entrarono nella capitale Addis Abeba, conquistando nelle successive 48 ore l’Abissinia.

Il 9 maggio 1936 terminò la Guerra, con Mussolini che proclamò la nascita dell’Impero Italiano e della A.O.I (Africa Orientale Italiana), composta da Eritrea, Somalia e Abissinia.

Cartina dell’Africa Orientale Italiana

Le conseguenze della guerra

Le conseguenze della guerra furono terribili. Persero la vita 275.000 soldati etiopi, con 500.000 feriti; 4.350 tra soldati e civili italiani e 4000 ascari, militi indigeni che combattevano con le forze coloniali.

In termini economici, invece, il 4 luglio 1936 la Società delle Nazioni revocò le sanzioni inflitte all’Italia, grazie soprattutto alle pressioni provenienti dai partner commerciali del Bel Paese. Proprio per questo motivo, la Guerra di Etiopia è ritenuta da molti storici il punto più alto del ventennio fascista.

Accadde oggi

ACCADDE OGGI | I sogni di gloria di Crasso e la disfatta di Carre del 9 giugno 53 a.C.

Il 9 giugno del 53 a.C. avvenne una delle più umilianti sconfitte di Roma, moralmente peggiore di quelle di Teutoburgo o di Adrianopoli. Infatti, la disfatta di Carre (oggi Harran, in Turchia) non fu tanto l’opera di un nemico forte, ma il risultato della superbia del triunviro Crasso in cerca di gloria e legittimazione.

Il fatto storico

Non si trattò di una battaglia, ma di un massacro annunciato. L’esercito romano era stato logorato dal deserto, e sfiancato dalla guerriglia portata dai parti. In realtà, furono proprio quegli attacchi veloci a spingere Crasso in trappola: li ritenne una prova della debolezza nemica. Alla prova dei fatti, il condottiero romano optò per uno schieramento difensivo, a quadrato, in modo da non lasciar fianchi scoperti. Eppure, la pioggia di frecce tirata dagli arcieri a cavallo partici costrinse la cavalleria romana all’ingaggio. L’esito fu tragico e lo stesso figlio di Crasso, Publio, morì in quella sortita. Crasso decise quindi di ritirarsi nella fortezza di Carre, lasciandosi alle spalle le aquile di sette legioni che finirono in mano nemica. Alla fine, lui stesso fu catturato ed ucciso.

Busto di Crasso (Louvre MR 510)
Necessità politiche e strategia militare

Crasso fu uno degli uomini più ricchi di Roma, ma con i soldi non aveva comprato la fama di cui invece godevano i suoi pari, e rivali, Cesare e Pompeo. Decise, quindi, di inserirsi nella politica partica, appoggiando la pretesa al trono di Mitridate contro suo fratello Orode. Oltre 40000 soldati romani penetrarono così in territorio nemico attraverso il deserto siriano, un errore strategico imperdonabile. Crasso cercava, infatti, una vittoria rapida, e questo lo spinse ad esporsi. Da un punto di vista strategico l’esercito romano si ritrovò a resistere ad una sfiancante marcia, in un luogo privo di ripari naturali, in balia di un nemico che faceva della mobilità il proprio punto di forza. Così, lontani dall’acqua, le forze partiche trascinarono i romani in un inseguimento mortale.

Arciere partico a cavallo (Palazzo Madama, Torino)
Un terribile epilogo e qualche dettaglio interessante

Secondo lo storico Cassio Dione la sorte di Crasso rivela un deciso contrappasso in relazione alla sua superbia. Lui, così avido di ricchezza e potere, morì tra mani nemiche che gli versarono in gola l’oro che così tanto desiderava. Ben diversa fu invece la sorte di Gaio Cassio Longino, che seguì il triunviro nella sua spedizione. Cassio scelse di abbandonare Carre ritirandosi verso la Siria e, in questo modo, riuscì a salvarsi. Sarà lui, nel 44 a.C., a congiurare contro Giulio Cesare, mettendo fine a un’epoca. Il 9 giugno del 38 a.C., invece, le truppe comandate da Publio Ventidio Basso vendicheranno la morte di Crasso, infliggendo una grave sconfitta ai Parti, riportando il confine lungo l’Eufrate, e potendo, per questo, celebrare il trionfo a Roma.

Accadde oggi

ACCADDE OGGI | 8 giugno 208 a.C.: un ragazzo, sua nonna e un eunuco conquistarono Roma

L’8 giugno 208 a.C. si svolse la battaglia di Antiochia, non a torto un vero e proprio paradosso nella storia della Roma Imperiale. Macrino, infatti, riuscì a mettersi in scacco da solo, offrendo la vittoria ad un nemico più debole e impreparato. Tale sconfitta permise a Giulia Mesa di porre sul trono di Roma suo nipote, Eliogabalo, dapprima amato, poi abbandonato.

Il fatto storico

Il tempo non giocò a favore di Macrino. L’aiuto che aveva chiesto al senato, e che dimostra lo stato di debolezza dell’imperatore, non arrivò mai in tempo. Inoltre, parte della II legione Parthica, dopo aver ucciso il proprio comandante Ulpio Giuliano, passò dalla parte di Eliogabalo. In questo modo, Macrino fu costretto ad affrontare il nemico contando solo su quanto rimaneva delle proprie forze, la guardia pretoriana. Gli mosse contro Gannys, eunuco e tutore di Eliogabalo, promosso al ruolo di prefetto del pretorio. Inizialmente i pretoriani di Macrino riuscirono a sfondare la difesa avversarie, ma Giulia Mesa e Gannys riuscirono a risollevare la morale degli uomini, capovolgendo l’esito di quello scontro. Alla fine, Macrino fu costretto ad asserragliarsi in Antiochia e, intuita la fine, tentò la fuga sotto false spoglie.

Busto di Macrino, Musei Capitolini
Malcontento e propaganda: come conquistare un impero

Principalmente due furono le cause che portarono alla battaglia di Antiochia. Il fatto che Macrino avesse ridotto la paga e i privilegi dei legionari, e la propaganda sostenuta da Giulia Mesa a favore di suo nipote Eliogabalo, sacerdote del dio Sole di Emesa e presunto figlio di Caracalla. Dapprima fu la III legione gallica ad appoggiare il giovanissimo Eliogabalo; poi, sempre più legionari prestarono ascolto alle promesse di Giulia Mesa, scontenti delle privazioni subite. Addirittura, il prefetto del pretorio  della II legione parthica, Ulpio Giuliano, inviato da Macrino a sedar la rivolta, fu tradito dai suoi che passarono dalla parte dei ribelli. Laute allora furono le promesse di pagamento fatte da Macrino ai soldati. In effetti, la lotta per il potere non fu tanto vinta dagli eserciti quanto dall’offerta migliore in campo, ed i soldati si fidarono più delle ricchezze di Giulia Mesa che non di Macrino.

Accadde oggi

ACCADDE OGGI | Terra Santa, 7 giugno 1099: cade Gerusalemme

Gerusalemme è storicamente conosciuta come la meta privilegiata dai cattolici per i pellegrinaggi. La Terrasanta è stata la custode del Santo Sepolcro, e i tentativi dei cristiani di cacciare i nemici musulmani sono tanto famosi da attirare l’attenzione degli storici contemporanei. Armate di cavalieri cavalcarono il 7 giugno del 1099, dopo aver ucciso intere popolazioni non solo musulmane ma anche ebree. In questa maniera, secondo la loro visione, il Santo Sepolcro “veniva liberato”. Ma è stato davvero così?

 

Cosa succedeva esattamente

La prima crociata cominciò con la partenza di contingenti militari, guidati da personaggi illustri come il duca Goffredo di Buglione, da varie parti d’Europa. Dopo aver fatto fuori i “nemici”, con l’attacco a Costantinopoli nel 1095, i capi crociati si riunirono per gestire le terre appena occupate scegliendo come difensore supremo del Sacro Sepolcro Goffredo di Buglione. Egli diede vita al regno latino di Gerusalemme, anche se non fu letteralmente un re. Inoltre il titolo regale spettava solo al papa, che in quel periodo era Urbano II. Il titolo Terrasanta, oltre ad essere devozionale, era anche giuridico secondo le leggi di Giustiniano: le res sanctae non dovevano appartenere al potere terreno ma solo a quello spirituale.

Papa Urbano II
Le conseguenze

Una delle tante conseguenze di questa crociata colpii proprio l’Italia.  Le città commerciali di Pisa e Genova ebbero grande importanza nel commercio con il Levante, come ringraziamento per aver trasportato i crociati con le proprie navi. Estesero così la merce italiana verso le regioni appena conquistate. Venezia però non partecipò perché grande alleata dei musulmani, anche se ci guadagnò comunque qualcosa. Altra conseguenza fu la creazione di tre signorie feudali, concesse dallo stesso Goffredo, in Oriente: il principato di Antiochia, il principato di Edessa e la contea di Tripoli. L’ultima conseguenza fu la nascita di nuovi ordini. I monaci guerrieri avevano il compito di proteggere il viaggio dei pellegrini, sempre più numerosi nel periodo di Pasqua. Da difendere erano anche i cristiani residenti ma serviva una forza militare preparata per evitare i saccheggi. Nacquero così altri ordini religiosi chiamati monastico-militari che seguivano le stesse regole dei monaci ordinari. Come il voto di castità, la vita in comunità, la fedeltà verso il papa. Un esempio da citare è Bernando di Chiaravalle, il padre del monachesimo cistercense.

Miniatura raffigurante un  monaco cistercense
La prima crociata nell’arte

La crociata fu rappresentata da grandi opere nei secoli successivi, sia letterarie che artistiche. L’esempio più ovvio è La Gerusalemme liberata, il poema corale di Torquato Tasso, scritto nel 1580 dove il protagonista è lo stesso Goffredo di Buglione descritto come l’eroe senza paura. Iconico è anche il dipinto del 1835 di Francesco Hayez, raffigurante Urbano II nella piazza di Clermont mentre predica ad una folla di fedeli ammassati. Essi hanno gli occhi alzati e le braccia spalancate, come se avessero appena assistito ad un miracolo.

F. Hayez, Urbano II a Clermont, dipinto del XVIII secolo