Autore: Kevin Vadala

Accadde oggi

«La libertà non è uno spazio libero: è partecipazione»

Il 25 Aprile rappresenta l’occasione giusta per interrogarci su tematiche che, pur essendo importanti, vengono confinate nel luccichio della retorica: una di queste riguarda il significato della libertà.

Il 25 Aprile del 1945 iniziò la ritirata delle truppe nazifasciste dalle città di Torino e Milano come risultato del processo di liberazione attuato dai partigiani italiani e dalle truppe anglo-americane. Infatti l’Italia, all’indomani dell’armistizio di Cassibile dell’8 settembre del 1943, fu occupata militarmente dalle truppe naziste come previsto dall’Operazione Achse, pianificata da Hitler nel caso in cui l’Italia si fosse rivelata un alleato debole.

La mancata coscienza della libertà

Fin dal principio della costituzione dell’Italia Unita, gli italiani non hanno mai partecipato alla formulazione del concetto di libertà. Si noti che, prima del 1861, i movimenti che portarono alla fondazione dell’Unità non partirono mai dal basso con vere e proprie intenzioni rivoluzionarie, ma furono sempre guidati e idealizzati da intellettuali come Mazzini. Infatti, come dice Corrado Augias in Il disagio della libertà, la mancanza di partecipazione all’idea di nazione va ricercata nella mancanza di società. Fin dalla proclamazione del Regno d’Italia la democrazia non è mai stata contemplata, non permettendo lo sviluppo di quell’idea di libertà e coscienza civica fondamentale per una buona società democratica.

La libertà, come cantava Gaber, è «partecipazione», partecipazione alla collettività e all’idea di “bene”. Sempre Gaber affermava che l’uomo può essere libero solo nella democrazia, dove il concetto di libertà trova la sua miglior esplicazione. 

La libertà è stata indagata da molti pensatori: da Platone a Agnes Heller, passando per Locke, Spinoza e Kant, è stata un filo conduttore nella storia e nelle società. Heller è l’esempio più appropriato per questo nostro discorso in relazione alla Festa della Liberazione. La filosofa ha vissuto, da ebrea, in prima persona la limitazione della propria libertà personale nei lontani anni ’30 e ’40. Riuscita a scampare ai campi di concentramento, si è impegnata per tutta la vita in una riflessione morale atta ad accogliere la varietà dei valori nella post-modernità. Da ciò possiamo comprendere che la libertà non è incondizionata, ma ha dei limiti: il rispetto reciproco, il mutuo riconoscimento dell’idea di umanità e la non violazione della dignità altrui.

Fino a che punto si può limitare la libertà?

Nell’uomo vi è il sentimento di libertà, lo stesso sentimento che ha dominato i partigiani italiani negli anni della guerra per liberarsi dall’invasione straniera e dal regime fascista. Come dice la Heller nel suo libro Etica generale: “La libertà, sia personale che di scelta, è basata sull’esperienza vissuta, ovvero sentiamo quando è il momento di scegliere”. Nell’attimo in cui è nato il gruppo partigiano, il cuore degli italiani ha vibrato con spirito rivoluzionario, in favore di una liberazione territoriale e ideologica. Per Heller, la libertà è basata sull’autonomia morale, cioè la possibilità di ognuno di scegliere in una gamma finita di opzioni.

Continuando sul filone filosofico, il pensatore contemporaneo Paul Ricœur afferma che l’uomo può conquistare la propria libertà attraverso le parole e le azioni che, nel caso dei partigiani italiani, hanno portato alla nascita della Repubblica Italiana il 2 giugno 1946. La conquista di questo “spazio” socio-politico per noi è un dono e una responsabilità poiché la libertà non è una realtà statica, ma un processo dinamico in cui ognuno deve divenire una persona libera e un cittadino consapevole del fatto che si è liberi solo insieme.

libertà
Bandiera dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia

Di Kevin Vadalà e Antonio Morabito

Approfondimento

Vincent Van Gogh, uno sguardo nell’inconscio

La mostra 


Roma si prepara ad accogliere 50 opere di Vincent Van Gogh, in mostra presso Palazzo Bonaparte dall’8 Ottobre 2022.
Le opere del celeberrimo pittore olandese verranno trasferite dal Museo Kröller-Müller di Otterlo e saranno a disposizione del pubblico della capitale italiana fino a marzo 2023. La mostra avrà dunque luogo in autunno e ospiterà alcune delle opere più celebri, tra cui il famoso Autoritratto del 1887. Il Museo di Otterlo contiene uno dei più grandi patrimoni dell’arte vangoghiana e grazie alle sue testimonianze biografiche sarà possibile ripercorrere la storia umana e artistica del pittore. Si tratta di un percorso espositivo a cadenza cronologica che parte dal vissuto olandese, per fare tappa a Parigi, ad Arles in Provenza fino a St. Remy e Auvers-Sur-Oise, dove l’artista si suicidò con uno sparo di rivoltella all’età di 37 anni.

La mostra è un ottimo pretesto per fare un passo in avanti rispetto al desueto e addentrarci nell’inconscio del pittore per scoprire più a fondo la complessità del genio creativo che lo animava.

Dodici girasoli in un vaso, 1888, olio su tela. Monaco, Neue Pinakothek

La lettura patografica

Alla pittura di Vincent Van Gogh è quasi sempre stata attribuita, sia dalla storiografia sia dai critici, una validità creativa generatasi più che dal genio, dalla biografia dell’artista. L’obiettivo di questo articolo è di mettere da parte tale lettura patografica per dedicarsi all’analisi del genio creativo avulso dalla biografia del pittore, in altre parole; una lettura che mette in risalto l’io e i pensieri dell’autore a discapito di una biografia che giustifica tale innovatività tramite gli eventi drammatici che hanno segnato la sua breve esistenza. 

Lo sforzo speculativo che ci accingiamo a fare, trae forza ed ispirazione dall’opera dello psicologo Massimo Recalcati, Melanconia e creazione in Vincent Van Gogh (Bollati Boringhieri 2014). La validità dell’analisi di Recalcati sta nel riuscire a far emergere la forza creativa del pittore senza però tracciarne un ritratto idealizzato, bensì disilluso e dinamico. Come ben sappiamo Van Gogh fu un’artista sui generis e famosissimi sono gli episodi di follia a cui la storiografia ci ha abituato. Prima di procedere con un’analisi più dettagliata dell’inconscio dell’autore, ripassiamo qualche vicenda biografica sempre utile per poterne tracciare un quadro complessivo.

Iris, olio su tela, 1889. Los Angeles, Getty Museum

Chi era Vincent Van Gogh? Cenni biografici

Vincent Van Gogh nasce in Olanda il 30 marzo 1853 e muore, suicida, il 29 luglio 1890 nei campi di Auvers. Il primogenito della famiglia, il primo Vincent, nasce morto e l’artista da noi conosciuto ne eredita il nome insieme alle aspettative riposte dai genitori (passo cruciale nell’analisi recalcatiana che attribuisce alle pressioni paterne parte dei tormenti del pittore). Dalla famiglia Vincent riceve un’educazione restrittiva e religiosa, al punto che la prima scelta del giovane è la carriera da predicatore. Fallita quest’ultima Vincent trova, grazie all’arte, il suo posto nel mondo e tramite il fratello Theo, il secondogenito mercante d’arte, riesce ad inserirsi in questo ambiente. In vita i suoi quadri non riscossero il benché minimo successo e incerte sono le fonti su quelli venduti, alcuni dicono addirittura nessuno.

 Autoritratto, 1887, olio su cartone. Art Institute of Chicago (dettaglio in copertina)

La sua arte (clicca qui per conoscere le opere dell’artista nel database online) è in continua evoluzione e passa da una predilezione per i paesaggi scuri al famoso amore per il giallo. Il soggiorno a Parigi presso gli Impressionisti si rivela proficuo sia dal punto di vista artistico che umano, infatti è proprio qui che Vincent si lega a Gauguin, artista con lui in sintonia e con cui decide di avviare una breve convivenza.

Gauguin è protagonista dell’episodio dell’orecchio mozzato e causa degli isterismi presso la casa gialla, residenza che Vincent prende in affitto ad Arles e in cui sogna di riunire una fraterna comunità d’artisti in grado di stimolarsi reciprocamente. Il progetto tuttavia fallisce e, a seguito dell’incidente dell’orecchio, Gauguin si allontana da Vincent. Quest’ultimo continua ad andare avanti in solitudine accompagnato da paranoie e isterismi, entrando e uscendo dal manicomio di Saint-Rémy. Disperato e sempre più vittima di crisi, decide di suicidarsi sparandosi nel petto all’età di 37 anni.   

Cielo tempestoso sulla spiaggia di Scheveningen, 1882 Olio su carta. Amsterdam, Van Gogh Museum

 

Un cromatismo melanconico

Uno dei primi punti da tenere in considerazione dell’arte di Vincent Van Gogh è la sua multiformità. Il dato emerge dalla continua ricerca di una scala cromatica che esprima l’assoluto nella sua essenza, un assoluto melanconico espresso progressivamente. La melanconia, come ben sappiamo, ha un ruolo fondamentale nella vita di Van Gogh ed è uno di quegli elementi imprescindibili per indagare seriamente la sua arte. La melanconia però non pregiudica l’arte a prescindere ma anzi dialoga con l’inconscio diventando la dimensione ontologica vangoghiana.

«In Van Gogh la pittura diventa un gorgo che lo trascina via, una incandescenza che brucia la vita e che frammenta l’essere dell’artista. Si pensi alla travagliata serie degli autoritratti, ma anche al problema della firma delle sue opere. Assistiamo a uno sciame di immagini e di segni, mai uno uguale all’altro, a un caleidoscopio vertiginoso che anziché dare consistenza all’identità del soggetto la sbriciola e la pluralizza senza alcuna possibilità di unificazione. […] Questa assenza di un centro permanente, irraggiungibile e, dunque, ideale in modo esorbitante, tende a produrre un’identificazione di tipo melanconico. È la nostra ipotesi clinico-diagnostica intorno a Van Gogh: la sua schizofrenia è secondaria a una posizione fondamentalmente melanconica del suo essere»¹.

La descrizione della realtà avviene attraverso questa lente melanconica, i soggetti delle sue opere sono la caducità e il vero. Ne I mangiatori di patate del 1885, che sono il compendio della sua prima fase creativa, l’obiettivo è quello di rappresentare le cose così come stanno. «Nella melanconia ciò che emerge senza veli è la “nuda vita”, il reale brutto dell’esistenza, l’esistenza nella sua contingenza più radicale»². Nel caso di questo dipinto – scrive Vincent al fratello Theo – «mi sono sforzato di dare a chi guarda l’idea che queste persone, hanno rivoltato la terra con le stesse mani con le quali prendono il cibo dalla ciotola». Dunque, sono la fatica e la precarietà gli obiettivi della rappresentazione.

I mangiatori di patate, 1885 olio su tela. Amsterdam, Van Gogh Museum

L’assoluto e la religione

Il ruolo della religione nella vita di Vincent si rivela improduttivo in ambito lavorativo – dato che la tanto attesa nomina a predicatore non arrivò mai – ma l’esperienza del sacro nei quadri appare onnipresente da un punto di vista ermeneutico, cioè interpretativo:

«Con la precisazione doverosa che per lui il sacro, l’assoluto, il volto del santo, non è mai accessibile attraverso una rappresentazione canonico-religiosa perché il volto del santo coincide con il volto del mondo. In questa opzione si fa presente tutto il peso della kenosis cristiana come dissoluzione di ogni versione puramente speculativa e teologale di Dio. […] Verbo che si fa carne, assoluto che abita il mondo, che è in ogni cosa, in ogni volto del mondo. Per questo egli non dipinge mai le icone religiose della tradizione, ma solo le cose del mondo, la natura e i volti degli umani elevandoli alla dignità dell’icona. Non c’è anima senza corpo, non c’è trascendenza se non nell’immanenza, non c’è volto del santo se non nei colori e nelle figure che abitano il mondo»³.

La sua arte è quindi da intendere come manifestazione e ricerca di un sacro-assoluto che si esplicita in ogni materia del mondo. Viene notevolmente influenzato dall’arte giapponese, di cui fu un grande collezionista di stampe, ma dal principio, sarà la scossa artistica ricevuta a Parigi dall’Impressionismo ad essere centrale nelle sue produzioni. Nei più di novecento quadri prodotti si ritrova nelle pennellate la necessità di rappresentare il mondo così com’è, senza mediazioni ne artifici.

Terrazza del caffè la sera, Place du Forum, Arles, olio su tela, 1888. Otterlo, Museo Kröller-Müller

La semplicità del linguaggio pittorico traduce nell’immediato la vera dimensione ontologica di ciò che lo circonda; una semplicità ravvisabile nella terza versione della Camera di Vincent ad Arles, in cui concede spazio alla pura espressività del colore con l’intento di semplificare e quindi di donare una dimensione universale agli oggetti. Una dimensione che non lascia spazio a interpretazioni individuali ma che comunica immediatamente l’intenzione del pittore, nel caso della camera, era quello di far pensare al riposo.

La camera di Vincent ad Arles, 1889, olio su tela. The Art Institute of Chicago

«Nonostante l’intenzione di rappresentare uno scenario sereno e pacifico, il dipinto non riesce nel suo intento: gli oggetti non hanno niente in comune, ognuno è isolato al proprio posto. Il senso d’inquietudine è dato inoltre dallo scorcio estremo con cui sono resi, oltre che dal pavimento, che si inclina in avanti e pare quasi sul punto di crollare, dalla finestra semiaperta, dai mobili disposti obliquamente nella stanza, come pure dai quadri che pendono storti dalla parete»4

L’intento vangoghiano di rappresentare uno scenario di tranquillità, non riesce ad emergere nonostante fosse proprio quello lo scopo. Pur approntando una lettura anti-patografica, ecco che la melanconia riappare. Tuttavia, ciò non deve far presuppore un’arte dominata dagli eventi, l’arte per Van Gogh è anzi il posto sicuro in cui rifugiarsi, il luogo dove la creatività dell’inconscio emerge nonostante tutto.

Caos e consapevolezza

Nell’ultimo Autoritratto, quello del fatale 1889, si percepisce che l’uso del colore – arrivato al suo culmine della vivacità negli ultimi anni – è intenzionalmente inquieto. Lo sfondo a spirali azzurro-verdi pulsa sulla tela; le forme «non sono originate né da un ritmo regolare né da un motivo fisso»5. Il forte contrasto emotivo è dato anche dalla contrapposizione di colori accesi come la barba rossiccia e la vivacità dei lineamenti tirati. Le forme in cui Van Gogh rinchiude l’autoritratto sono elementi dinamici, che non sono fuori controllo, bensì accuratamente scelti per rendere sulla tela uno stato tormentoso.

Autoritratto, 1889, olio su tela. Parigi, Musée d’Orsay

La lettura patografica è sicuramente tra le più valide per interpretare l’arte vangoghiana e ciò che la caratterizza; è però soffermandosi individualmente sul processo creativo di ogni opera che si riesce davvero a scorgere il genio dietro questa straordinaria arte multiforme.

 

                                                                            «Tutto ciò che facciamo si affaccia sull’infinito»

                                                                                            – Vincent Van Gogh

Riferimenti bibliografici

  1. M. Recalcati, Melanconia e creazione in Vincent Van Gogh, Bollati Boringhieri, Torino 2014, pp. 27-28.
  2. Ivi, p. 48.
  3. Ivi, p. 12.
  4. I. Walther, Van Gogh, Taschen, Slovakia 2020, pp. 77-78.
  5. Ivi, p. 76.

 

 

News

NEWS | Alla riscoperta della poesia giapponese con Einaudi: gli Haiku di Bashō

Nella settimana appena trascorsa è stato pubblicato da Einaudi “Lo stretto sentiero del profondo Nord “, il capolavoro letterario del padre degli haiku Bashō, nome d’arte di Matsuo Munefusa (1644-94). Si tratta del racconto di un viaggio durato 156 giorni, che attraversa le località più suggestive del Giappone e scandito da haibun, un mix letterario di prosa e haiku, che impreziosisce il testo al punto da renderlo un pilastro della storia della letteratura giapponese. Quello che Einaudi presenta è un testo finora inedito in Italia, comparso solo a tratti sporadicamente su qualche pubblicazione del settore del Sol Levante, l’editore ci da così accesso alla principale opera dell’autore originario di Iga.  Perchè nonostante sia un testo scritto nel XVII  secolo, quindi abbastanza datato Einaudi sceglie di pubblicare oggi un testo del genere? La risposta è più ovvia di quel che sembra, la scrittura di Bashō, con le sue ambientazioni quotidiane e semplici, ed i suoi versi liberi da forma metrica in apparenza, ci restituiscono l’immagine di un Giappone pieno di fascino, che immerge il lettore in un’esperienza sensoriale. 

Copertina del libro

 

 

 

Prima di immergervi nella lettura di questo “nuovo” libro, vi proponiamo un tuffo nella genesi della poesia di Bashō e nell’ispirazione da cui nascono i tradizionali versi giapponesi, che col trascorrere dei secoli assumono forme e valenze diverse. L’haikai e l’haiku di Bashō, devono la propria origine all’usanza di comporre brevi poesie, formate da trentuno sillabe distribuite in versi 5-7-5-7-7, chiamate waka o uta. Esse sono parte di una tradizione risalente al periodo Nara (710-784). Successivamente prese piede la pratica del renga, non più semplice composizione di waka o uta ma un vero e proprio gioco, in cui le trentuno sillabe venivano divise in due parti e composte da due persone diverse, la prima parte composta da 5-7-5 sillabe era chiamato chōku (ku lungo), la seconda da 7-7 sillabe tanku (ku breve).

Nascevano così gli incontri di renga in cui un partecipante elaborava un chōku e un altro lo seguiva con tanku, poi un altro chōku e così via, ogni verso doveva essere ispirato al precedente affinché il componimento avesse forma e coerenza. Insomma, un continuo incatenarsi di versi che nel periodo Kamakura (1192-1333) si stabilì nella forma del hyaku, cioè fino a cento ku. Sulla base di questa usanza nel XIV secolo nacque l’haikai no renga abbreviato in haikai, andò così sdoppiandosi il genere renga in due forme, una più aulica e classica, chiamata ancora oggi renga ed una più comico-popolare, l’haikai che significava “buffo”. Nel XVII secolo l’haikai no renga era a tutti gli effetti un gioco letterario di “poesie buffe a catena” che al tempo riscosse un enorme successo, mentre nel XIX secolo iniziò a essere chiamato renku (ku a catena) per evitare di confonderlo con la parola haiku entrata quindi recentemente nell’uso comune.

Bashō
Haiku su illustrazione tradizionale

 

L’haikai di Bashō

«nel renku, il primo ku è l’hokku: normalmente di 5-7-5 sillabe, deve esprimere la parola che alluda alla stagione, ed essere caratterizzato da un tema e da uno stile che possano essere sviluppati dai ku che seguono. Fu questa l’arte dell’haikai che Bashō cominciò a coltivare: con la sua scuola il ku iniziale divenne una breve ma intensa espressione poetica». «Attualmente ci si riferisce a questa forma essenziale di poesia, a questo ku iniziale, con il termine haiku. L’uso della parola haiku per questo breve genere poetico è dunque recente e viene fatto risalire agli anni del movimento di rinnovamento della poesia giapponese iniziato da Masaoka Shiki (1867-1902).»*

Bashō che è ancora oggi considerato il padre dell’haiku, chiamava le proprie poesie hokku e non haiku, a testimonianza del fatto che l’espressione haiku sia di recente utilizzo. Il noto poeta nacque in condizioni di povertà e dopo che a tredici anni perse il padre entrò al servizio di Kazue Yoshitada, della famiglia Tōdō (al tempo governante della città). Esercitando il mestiere di semplice cuoco, riuscì al contempo a trarre un beneficio letterario dallo stare accanto al suo padrone, che apparteneva alla scuola dell’haikai di Kyōto. Quando Kazue morì, Matsuo si dedicò allo studio dello Zen, della poesia e della filosofia cinese, alla ricerca di un nuovo stile caratterizzato da un’estetica della povertà e dalla riscoperta della bellezza del quotidiano. I suoi versi che non seguono schemi rigidi e prefissati, si librano in una lirica ricca di richiami sensoriali e suggestivi, di seguito un estratto della sua poesia:

Autunno

Un corvo

si è poggiato sul ramo spoglio:

tramonto d’autunno.

La tempesta autunnale batte la pianta di musa:

sento il rumore della pioggia

che cade nel mastello durante la notte.

Nella mente l’immagine di un teschio abbandonato,

mentre il vento penetra

la mia carne.

O poeti che ascoltate commossi le voci delle scimmie,

cos’è per voi il pianto di un bambino

abbandonato al vento autunnale?

Un’altea sul bordo della strada:

l’ha inghiottita

il mio cavallo.

Fitta nebbia:

invisibile, e pur suggestivo

il Fuji oggi.

Addormentato sul cavallo

scorgo, tra sogno e alba, la luna lontana

e il fumo del tè.

Il profumo dell’orchidea

penetra come incenso

le ali di una farfalla.

Senza morire…

dopo molte notti di viaggio

in un tramonto d’autunno.

Luna veloce:

le cime degli alberi

sono impregnate di pioggia.*

Nota bibliografica * M. Muramatsu, dall’haikai all’haiku: la poesia di Bashō in Poesie. Haiku e scritti poetici di M. Bashō, La Vita Felice, Milano 2012, p.7.

  • M. Bashō, Poesie. Haiku e scritti poetici, cit., pp. 29-31.
Bashō
Statua dedicata a Bashō alla stazione di Isayama

 

Accadde oggi

ACCADDE OGGI | 101 anni da Bukowski e dal suo “esistenzialismo da taverna”

101 anni fa nasceva ad Andernach (Germania) Henry Charles “Hank” Bukowski Jr., conosciuto anche come Henry Chinaski, suo alter ego letterario. In occasione dell’anniversario è doveroso ricordare la sua controversa e amata figura.

Bukowski

Trasferitosi con la sua famiglia a Los Angeles nel 1930, fin da bambino soffrì di timidezza e solitudine, quest’ultima destinata a diventare una caratteristica della sua produzione. Scrisse sei romanzi, centinaia di racconti e migliaia di poesie. Fu abile nell’alternare prosa e poesia e spesso demonizzato per via del suo stile crudo e diretto, a tratti comico e tragico nello stesso tempo.

Il motivo della fama

La grandiosità di Bukowski e anche il motivo per il quale spopolò nell’America del XX secolo risiede sicuramente nella sua insofferenza disarmante: parla di temi delicati riuscendo a mantenere un distaccato cinismo. L’alcol, il sesso, il senso della vita e la scrittura come via di fuga saranno i temi che accompagneranno tutta la sua produzione fino alla morte.  

A partire dai 24 anni scrisse alcuni racconti che vennero pubblicati senza riscuotere successo, così abbandonò la scrittura e si dedicò al lavoro di postino per più di dieci anni. Nel 1965 fu scoperto dagli editori della rivista The Outsider, Jon e Louise Webb, che pubblicarono molte delle poesie di Buke, così chiamato informalmente da Jon.

Bukowski
Lo spazio in The Outsider dedicato a Bukowski nei primi anni ’60

Iniziò così il suo vagabondare da un’università all’altra per eventi di reading davanti agli studenti americani. I suoi veri introiti erano però rappresentati dalla vendita di racconti su sesso e donne, che riscossero un notevole successo al punto tale da innalzarlo come uno dei grandi scrittori del ventesimo secolo.  

Bukowski e il gentil sesso: un rapporto spesso frainteso

Il suo rapporto con il gentil sesso viene tutt’oggi frainteso per via delle sue tendenze apparentemente misogine. In realtà, alla domanda se Charles fosse veramente misogino, in un’intervista di Vice a Linda King, sua storica partner, la donna rispose con un «No» secco.

Bukowski
Charles Bukowski e Linda King

Lo stesso Buke nei racconti di Taccuino di un vecchio porco lascia correre l’inchiostro e scrive:

«Gli scrittori sono una brutta razza. Le signore sono state buone con noi. Lo dico quasi sempre, dietro a un grande scrittore c’è sempre una donna dannatamente brava. Se togli l’amore, la metà del lavoro di un artista fallisce».

Cosa aspettarsi dai suoi libri

Precisamente storie di sesso, vagabondaggio, violenza, sbronze colossali e un pizzico di depressione. Racconti tratti direttamente dal suo vissuto, scandito da una moltitudine di donne, abbastanza alcol da procurargli un’ulcera quasi fatale e una lucida malinconia. È tutto vero? Secondo lo stesso Bukowski, i suoi racconti sono veri al 95%.

Perché leggere Bukowski

Leggere Bukowski è uno step indispensabile per tutti gli amanti della letteratura perché rappresenta alla perfezione lo stereotipo del classico scrittore squattrinato, dannato e sopra le righe, impresso nell’ideale americano della Beat Generation (anche se rifiutò quest’etichetta). Il minimalismo e la superficialità che impregnano le sue opere lo classificano un esponente del “realismo sporco”, corrente letteraria sviluppatasi negli Stati Uniti tra gli anni ’70 e ’80.

Cos’è l'”esistenzialismo da taverna”?

“Esistenzialismo da taverna” è la definizione che più calza alla prosa bukowskiana: depressa, priva di eufemismi e tragicomicamente schietta. Definizione creata ad hoc per la prefazione di Pulp, libro del nostro scrittore, edito da Feltrinelli.

L’originalità della sua penna è ancora oggi qualcosa di unico e sui generis, lo si capisce bene da una sua autodescrizione professionale contenuta in Scrivo poesie solo per portarmi a letto le ragazze: «La maggior parte dei miei detrattori copia pressoché pedissequamente il mio stile o comunque ne è influenzata. Il mio contributo è stato sciogliere e semplificare la poesia, renderla più umana. L’ho resa più semplice per loro da seguire. Ho insegnato loro che si può scrivere una poesia nello stesso modo in cui si scrive una lettera, che una poesia può essere perfino divertente e che non ci deve essere necessariamente nulla di sacro in essa».

News

NEWS | Riapre la Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea “Lucio Barbera” di Messina

Dal primo giorno di zona gialla, in Sicilia ha riaperto a tutti gli effetti la Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea “Lucio Barbera”, situata in via XXIV Maggio a Messina. È possibile visitare la Galleria dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 13. Il costo dell’entrata è di tre euro, un euro per gli studenti e gratuito per gli invalidi e i loro accompagnatori.  

galleria d'arte
Ingresso a una sala della Galleria – foto: Galleria Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea “Lucio Barbera” (ME)

Dedicata al critico d’arte messinese, la Galleria è stata inaugurata nel 1998. All’interno è possibile ammirare opere di diverse correnti artistiche: l’Arte Povera, la Pop Art, i “Concetti Spaziali” di Fontana, l’Astrattismo. Oltre a tanti altri quadri appartenenti a grandi nomi del Novecento: tra gli italiani Boetti, Bonalumi e Casorati; tra gli artisti internazionali vi sono quadri e sculture di Liberman e Hodgkin.

Un’intera sezione della galleria è dedicata agli artisti contemporanei messinesi che hanno fatto conoscere l’arte sicula a livello nazionale e internazionale, come Mazzullo, Migneco, Freiles e Samperi.

galleria d'arte
Una sala della Galleria – foto: Galleria Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea “Lucio Barbera” (ME)
News

SPECIALE GIORNO BUIO | “L’affaire Moro”, il dramma democristiano raccontato da Sciascia

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L’affaire Moro di Leonardo Sciascia nella prima edizione del 1978

Scritto nel 1978, Leonardo Sciascia ci consegna un testo di prezioso valore politico, nonché un tragico pezzo di storia della Repubblica Italiana: L’affaire Moro. Il libro è un’attenta cronistoria dei fatti avvenuti dalla mattina del 16 marzo 1978, giorno in cui l’automobile che trasportava Aldo Moro alla Camera dei Deputati fu intercettata dalle Brigate rosse, fino al 9 maggio quando, nel baule di una Renault 4 parcheggiata a Roma in via Caetani, fu ritrovato il corpo del presidente di Democrazia Cristiana.

L’obiettivo dello scrittore siciliano è chiaro: ricostruire quanto più analiticamente possibile ciò che è veramente accaduto in quei 55 giorni di prigionia. Sciascia, che al tempo fu anche membro della Commissione parlamentare d’inchiesta sull’omicidio Moro, riversa nelle pagine la triste verità che è avvenuta in quei mesi del 1978 scrivendo:

«Lo Stato italiano – così com’era – fece da ouverture a quel melodramma di amore allo Stato che sulla scena italiana grandiosamente si recitò dal 16 marzo al 9 maggio […] vittima di questa grandiosa messa in scena fu Aldo Moro».

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Aldo Moro (foto: Radio Rai)
Moro colpevole di voler aprire un dialogo tra DC e Partito Comunista Italiano

Il «melodramma di amore allo Stato» di cui parlò Sciascia, fu rappresentato dal vanaglorioso quanto inutile tentativo di far risaltare lo Stato italiano come forte e ineluttabile di fronte al “ricatto politico” perpetrato dalle Brigate rosse. Moro, fautore del compromesso storico consistente nell’aprire un dialogo tra la DC e il PCI, fu rapito e incarcerato dalle Br. La sua condotta politica e, in particolare, il suo ruolo di mediatore tra fronti ideologicamente opposti destarono il malcontento dei due partiti. L’ipotesi di essere assoggettata a quello Stato democratico non piacque all’ala estremista della sinistra, che colse l’occasione per lanciare un segnale sequestrando Moro.

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Moro in mano alle Brigate rosse
Il 16 marzo 1978 l’onorevole Aldo Moro venne rapito

In quello stesso giorno l’onorevole Andreotti avrebbe presentato il programma del nuovo governo, sorretto anche dai voti comunisti. Portato alla “Prigione del Popolo”, Moro definito in quei giorni «grande statista» dai giornali, passa il suo tempo ad indirizzare lettere ai maggiori esponenti politici quali Cossiga, Andreotti, Fanfani, Zaccagnini, Craxi. Da questi non partirà alcun provvedimento in aiuto di Moro. Solo durante il periodo degli ultimatum dati dalle Brigate rosse, papa Paolo VI chiederà un gesto di misericordia nei confronti del prigioniero. Le Brigate rosse minacciavano di uccidere Moro, qualora il Governo non avesse acconsentito alla liberazione di 13 brigatisti detenuti.

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Il giornale comunista l’Unità il 16 marzo del 1978

L’intervento del pontefice non basta a scuotere gli animi dei vertici della DC, che nemmeno propongono una controfferta né cercano di mediare per la liberazione di Moro. Una situazione surreale si viene a delineare: il presidente della Democrazia Cristiana viene fatto prigioniero e i suoi stessi compagni di partito non muovono un dito per salvarlo. Il 20 aprile viene emesso il settimo comunicato da parte delle Br, poche ore dopo arriva una lettera di Moro a Zaccagnini nella quale scrive:

«Mi rivolgo individualmente a ciascuno degli amici che sono al vertice del partito e con i quali si è lavorato insieme per anni nell’interesse della DC. Penso ai sessanta giorni cruciali di crisi vissuti insieme con Piccoli, Bartolomei, Galloni, Gaspari sotto la tua guida e con il continuo consiglio di Andreotti. Dio sa come mi son dato da fare, per venirne fuori bene. Non ho pensato no, come del resto mai ho fatto, né alla mia sicurezza né al mio riposo. Il Governo è in piedi e questa è la riconoscenza che mi viene tributata, per questa come per tante altre imprese. In allontanamento dai familiari senza addio, la fine solitaria, senza la consolazione di una carezza, del prigioniero politico condannato a morte. Se voi non intervenite sarà scritta una pagina agghiacciante nella storia d’Italia. Il mio sangue ricadrebbe su di voi, sul partito, sul Paese».

Prima pagina de la Repubblica del 22 aprile 1978 (foto: la Repubblica)
L’aberrante lavata di mani: «Non è l’uomo che conosciamo»

Il racconto del 25 aprile 1978 delineato da Sciascia non lascia dubbi sulle intenzioni dei colleghi di partito di Moro:

«È il 25 aprile e nella sede centrale della DC, nella romana piazza del Gesù, viene distribuito ai giornalisti un documento che ho già definito, per come mi parve e mi pare, mostruoso. Una cinquantina di persone, “amici di vecchia data” dell’onorevole Moro solennemente assicurano che l’uomo che scrive le lettere a Zaccagnini, che chiede di essere liberato dal carcere del popolo e argomenta sui mezzi per farlo, non è lo stesso uomo di cui sono stati lungamente amici, al quale per “comunanza di formazione culturale, di spiritualità cristiana e di visione politica” sono stati vicini. “Non è l’uomo che conosciamo, che con la sua visione spirituale, politica e giuridica ha ispirato il contributo alla stesura della stessa Costituzione repubblicana”».

Aldo Moro con Benigno Zaccagnini in sede DC (foto: The Vision)
Una crudele verità

Durante gli ultimi giorni di aprile a Moro appare chiaro il suo destino. Rassegnatosi al non intervento da parte del Governo, si limita a indirizzare lettere di affetto alla famiglia e a dare disposizioni sulle sue esequie: che il suo funerale si svolga nell’anonimato, che non sia istituito il lutto nazionale e che sia accompagnato solo da familiari e pochi intimi.

La conclusione a cui perviene Sciascia all’interno del testo si allinea al pensiero che ha sfiorato tutta Italia in quegli anni: gli alti nomi della Democrazia Cristiana di fatto consentirono l’esecuzione di Aldo Moro.

Estremamente calzante la citazione da “La provincia dell’uomo” di Elias Canetti nell’introduzione de L’affaire Moro, che rivela una crudele verità:

 «La frase più mostruosa di tutte: qualcuno è morto al momento giusto» 

- Elias Canetti, "La provincia dell'uomo" in L. Sciascia, L'affaire Moro
Leonardo Sciascia, autore di L’affaire Moro
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SPECIALE ROMA | Il “cinghiale” premonitore dell’imperatore Diocleziano

In occasione dell’anniversario della fondazione di Roma, vi raccontiamo un simpatico e affascinante retroscena della vita di uno degli imperatori più conosciuti dell’Urbe: Diocleziano. L’episodio vede protagonista un giovane Diocle – questo era il suo nome originale – ancora di basso rango, in una locanda della Gallia, nel paese dei Tungri. Durante una discussione riguardo il vitto da pagare con una druidessa, la Storia Augusta ci racconta che, a un certo punto, la sacerdotessa gli disse: «Diocle, tu sei troppo avido e spilorcio!». Affermazione alla quale il giovane rispose in modo scherzoso: «Quando sarò imperatore, allora darò con larghezza». Si dice che la donna rispose: «Non scherzare, perché tu sarai imperatore dopo che avrai ucciso il cinghiale».

Un presagio di omen imperii destinato ad avverarsi. L’autore afferma di aver appreso di questa vicenda da suo nonno, il quale l’avrebbe appresa dallo stesso Diocleziano, che da quel momento in poi cacciò cinghiali in ogni occasione.

La profezia che si avvera

Durante un’assemblea generale dell’esercito, radunata al fine di nominare il successore di Numeriano, Diocleziano uccise davanti a tutti colui che sospettava essere l’assassino dell’imperatore. Stiamo parlando del prefetto al pretorio Flavio Apro: aper in latino vuol dire “cinghiale”. Diocleziano, acclamato dalle legioni, divenne imperatore col nome latinizzato di Gaio Valerio Diocleziano ed esclamò: «Finalmente ho ucciso il cinghiale!».

Diocleziano
Moneta di emissione dioclezianea
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APPROFONDIMENTO | Alla ricerca della sinagoga: il caso del Tirone (ME)

Nei pressi del Tirone, a Messina, quartiere ormai abbandonato alla desolazione delle macerie circostanti, si trovava la Chiesa di S. Caterina del Sacro Cuore al Tirone, in cui un tempo si è erroneamente ritenuto esserci una sinagoga.

Partiamo dalle origini, cos’è il Tirone?

Il quartiere del Tirone prendeva il nome, secondo alcune teorie, da Jerone II, tiranno di Siracusa, che nel 289 a.C. si accampò su una collina per assediare Messina. Proprio per questo motivo, quell’altura avrebbe assunto successivamente il nome di Monte Hieronis. Il nome del quartiere tratto dal Tiranno subì diverse modifiche nel corso del tempo fino ad arrivare all’attuale: Tirone.

Tirone
Il quartiere del Tirone (ME)

Nel corso dei secoli, il quartiere del Tirone e le immediate vicinanze hanno subito innumerevoli cambiamenti e visto l’erigersi di nuovi edifici. Solo per citarne alcuni, ricordiamo: la Chiesa della Vergine Santissima della Pietà, eretta da Fra Antonio Veneto nel 1533, il Noviziato dei Padri Gesuiti del 1573 e la Chiesa di S. Michele al Tirone, edificata nel 1513.

Nel libro “1908, quella Messina” dello scrittore messinese Silvio Catalioto si ha testimonianza della storia di un’altra importante costruzione religiosa, la Chiesa di S. Caterina del Sacro Cuore. La grata a forma di stella di Davide, presente sulla parte sommitale della facciata, diede motivo di ritenere, erroneamente, che la chiesa fosse stata una sinagoga.

Secondo la descrizione di Catalioto:

Fondata dopo il 1902, andò in rovina a seguito dei bombardamenti della seconda guerra mondiale. Della chiesa rimasero solamente la facciata interna e parte del fianco sinistro. La facciata interna si presentava: al primo ordine con un ingresso molto semplice sormontato da un arco a tutto centro; al secondo ordine con tre grandi finestre ogivali impreziosite da una balaustrata formante un disegno molto particolare (due picche rovesciate ai lati ed un fiore a otto punte al centro); sotto il frontone si notava una finestra ad occhiello che recava una grata in ferro a forma di stella di Davide. La parte rimasta del fianco sinistro si presentava anch’essa con grandi finestre ogivali, probabilmente, decorate da balaustrate. Negli anni trenta la facciata della chiesa venne murata in aderenza con la parete di fondo del nuovo edificio dei PP. Francescani del Terzo Ordine. Nel 2002, quanto rimasto venne demolito perché pericolante”.

Cosa resta del Tirone?

Purtroppo solo baracche e rifiuti occupano al giorno d’oggi il quartiere del Tirone, immenso patrimonio culturale della nostra città lasciato all’abbandono e che forse mai vedrà un restauro. Noi ci siamo stati e abbiamo ripreso le condizioni attuali per la nostra nuova serie, “Italia Relicta”, che prossimamente sarà trasmessa sui nostri canali social.

A Messina ci fu veramente una sinagoga?

La risposta è , considerando che, nei secoli, dai registri cittadini si evince che la città fosse vissuta anche da una nutrita comunità ebraica, che chiaramente doveva avere anche i suoi luoghi di culto. Infatti, la Chiesa di San Filippo Neri, eretta a Messina tra il 1660 ed il 1662, costruita in quella che al tempo era la “Contrada della Giudecca” (l’odierna zona sulla quale oggi sorge l’Istituto “Jaci”), sembra apparentemente essere sorta sui resti di una sinagoga. Il nome della Contrada era dovuto alla massiccia presenza di ebrei che popolavano il quartiere all’epoca, fatto che giustificherebbe la presenza del sopracitato luogo di culto a Messina.

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DANTEDÌ | La coerenza del Ghibellin fuggiasco

In occasione del settecentenario della morte di Dante Alighieri, avvenuta il 14 settembre 1321 a Ravenna, è più che doveroso omaggiare il Sommo Poeta ripercorrendo il forte spirito critico che pervade la sua personalità e le sue opere. In confronto alla dissoluta politica odierna, animata da personaggi che ostentano elucubrazioni populiste inconcludenti, Dante aveva le idee chiare già allora, nonostante vivesse in un clima politico più stratificato e conflittuale di quello di adesso. Animato da un ardente spirito cattolico, il Fiorentino ha sempre optato per una visione eterogenea dello Stato, sostenendo la teoria dei due Soli come soluzione alla lotta tra i due poteri nel Medioevo. Secondo la visione dantesca, potere spirituale e potere temporale sono distinti e separati, infatti egli rivendicherà l’autonomia del potere imperiale da quello papale.

Per comprendere meglio le scelte politiche attuate da Dante è necessario ricordare le fazioni in lotta nella Firenze del 1300. Da un lato vi erano i ghibellini, i quali non volevano l’intrusione della Chiesa nella politica dell’impero, dall’altro i guelfi, sostenitori del Papa e dell’idea che lui solo fosse in grado di governare in quanto investito direttamente da Dio. Dopo una prima sconfitta contro i ghibellini, i guelfi riuscirono a prendere il controllo e dopo la vittoria si suddivisero in due fazioni interne capeggiate da due famiglie ideologicamente divergenti, la famiglia dei Cerchi (guelfi bianchi) e quella dei Donati (guelfi neri).

Il differente pensiero che accompagnava le due fazioni è che i guelfi bianchi, pur sostenendo il Papa, non precludevano un possibile ritorno all’imperatore. I guelfi neri invece erano pienamente sostenitori del Papa come unico avente il diritto di governare. La grande apertura mentale di Dante è dimostrata dal fatto che sostenesse i bianchi. Il Fiorentino infatti possedeva uno spirito incorruttibile intriso di giustizia, giustizia che viene espressa con tutta la sua carica critica nel De Monarchia. L’equità e la coerenza che convivevano con le sue idee politiche gli costarono l’esilio da Firenze in seguito alla vittoria dei guelfi neri. L’ineludibile senso di giustizia e l’alta capacità di comprensione del mondo classico si fanno sentire anche nella Commedia, in cui, da un lato, Dante collocò Papa Bonifacio VIII all’Inferno nonostante fosse cattolico e, dall’altro, invece, scelse come guida Virgilio nonostante fosse stato un pagano in vita.

Il 19 maggio 1315 il governo dei neri emise un provvedimento di amnistia rivolto a tutti gli esiliati di parte bianca, a condizione di versare una multa e di sottoporsi ad una cerimonia di pubblica umiliazione. Dante, una volta appresa la notizia, scrisse una lettera all’amico fiorentino che lo aveva informato dell’offerta; lettera in cui esprime il suo diniego alla possibilità di ritornare in patria e afferma di non voler scontare pene per crimini mai commessi. Pensieri di cui abbiamo testimonianza nell’Epistola XII in cui Dante scrive: 

Lungi da un uomo, apostolo di giustizia, che egli, dopo aver patito ingiuria, paghi del suo denaro a quelli stessi che furono ingiusti con lui, quasi a suoi benefattori. Non è questa, o Padre mio, la via di ritornare in patria.

Ancora una volta emerge tutta l’integrità morale di Dante, che rifiuta l’offerta sebbene fossero passati 15 anni. E come Socrate che rifiutò di essere liberato in punto di morte, Dante dimostra ancora una volta di essere uomo di grande virtù. Spirito saggio, guida delle menti, eccelso poeta e soprattutto italiano, di quelli veri, che diversamente da tanti italiani odierni, ha contribuito a far splendere il Bel Paese. Buon Dantedì!  

dante
“Dante e Beatrice” di Salvador Dalì