Autore: Edoardo Zanetti

Accadde oggi

ACCADDE OGGI | 8 giugno 208 a.C.: un ragazzo, sua nonna e un eunuco conquistarono Roma

L’8 giugno 208 a.C. si svolse la battaglia di Antiochia, non a torto un vero e proprio paradosso nella storia della Roma Imperiale. Macrino, infatti, riuscì a mettersi in scacco da solo, offrendo la vittoria ad un nemico più debole e impreparato. Tale sconfitta permise a Giulia Mesa di porre sul trono di Roma suo nipote, Eliogabalo, dapprima amato, poi abbandonato.

Il fatto storico

Il tempo non giocò a favore di Macrino. L’aiuto che aveva chiesto al senato, e che dimostra lo stato di debolezza dell’imperatore, non arrivò mai in tempo. Inoltre, parte della II legione Parthica, dopo aver ucciso il proprio comandante Ulpio Giuliano, passò dalla parte di Eliogabalo. In questo modo, Macrino fu costretto ad affrontare il nemico contando solo su quanto rimaneva delle proprie forze, la guardia pretoriana. Gli mosse contro Gannys, eunuco e tutore di Eliogabalo, promosso al ruolo di prefetto del pretorio. Inizialmente i pretoriani di Macrino riuscirono a sfondare la difesa avversarie, ma Giulia Mesa e Gannys riuscirono a risollevare la morale degli uomini, capovolgendo l’esito di quello scontro. Alla fine, Macrino fu costretto ad asserragliarsi in Antiochia e, intuita la fine, tentò la fuga sotto false spoglie.

Busto di Macrino, Musei Capitolini
Malcontento e propaganda: come conquistare un impero

Principalmente due furono le cause che portarono alla battaglia di Antiochia. Il fatto che Macrino avesse ridotto la paga e i privilegi dei legionari, e la propaganda sostenuta da Giulia Mesa a favore di suo nipote Eliogabalo, sacerdote del dio Sole di Emesa e presunto figlio di Caracalla. Dapprima fu la III legione gallica ad appoggiare il giovanissimo Eliogabalo; poi, sempre più legionari prestarono ascolto alle promesse di Giulia Mesa, scontenti delle privazioni subite. Addirittura, il prefetto del pretorio  della II legione parthica, Ulpio Giuliano, inviato da Macrino a sedar la rivolta, fu tradito dai suoi che passarono dalla parte dei ribelli. Laute allora furono le promesse di pagamento fatte da Macrino ai soldati. In effetti, la lotta per il potere non fu tanto vinta dagli eserciti quanto dall’offerta migliore in campo, ed i soldati si fidarono più delle ricchezze di Giulia Mesa che non di Macrino.

Accadde oggiApprofondimento

ACCADDE OGGI | Brucia sul rogo Fra Dolcino, il predicatore eretico

Il 1 Giugno 1307 le fiamme misero fine alla vita di Fra Dolcino. Fu predicatore eretico che con tale vigore influenzò il suo mondo da meritarsi una citazione nella Divina Commedia. Infatti, Maometto, attraverso la penna di Dante, ne profetizza l’arrivo. Lo fa da un luogo singolare: la bolgia dei seminatori di discordie e degli scismatici.

Il fatto storico

Il 1306 la predicazione di Fra Dolcino chiamò contro di sé una crociata. Furono Papa Clemente V e il vescovo Raniero di Vercelli a volerla, e così i dolciniani si ritrovarono costretti a combattere per difendere la propria vita, non solo le proprie idee. Il Monte Rubello divenne fortezza per eretici che riuscirono, per quasi un anno, ad opporsi alle forze di Raniero. Tuttavia, dopo un lungo logoramento, i dolciniani furono alfine sopraffatti. L’assedio li aveva costretti a mangiar i morti tanto erano affamati, e per questo i crociati giustiziarono i sopravvissuti. Non tutti. Fra Dolcino, la sua compagna Margherita ed il luogotenente Longino, furono processati e condannati a morte nel 1307. Margherita e Longino finirono arsi vivi sulle sponde del torrente Cervo. Dolcino subì invece l’umiliazione pubblica prima estinguersi tra le fiamme di fronte la Basilica di Sant’Andrea a Vercelli.

Litografia di Fra Dolcino, Michele Doyen (1809 – 1881)
Le idee

Il pensiero di Fra Dolcino rientra nel più vasto panorama di idee millenariste che circolavano diffusamente in epoca medievale. Nello specifico, la predicazione dolciniana consisteva in una stretta adempienza al messaggio evangelico, sostenendo un forte principio di povertà e credendo in un imminente castigo divino. La Chiesa, in particolare, era accusata di immoralità, di aver tradito i veri valori cristiani. Dolcino seppe essere così convincente da conquistarsi la fiducia di Matteo Visconti, con il quale ottenne militarmente il controllo della Valsesia nel 1304. Eppure, il successo durò poco: solo un anno più tardi il Visconti ritirò il proprio appoggio, e le truppe crociate guidate dal vescovo di Vercelli si misero in marcia.

Lapide commemorativa posta da Tavo Burat e Roberto Gremmo
Curiosità oltre la storia

La vicenda dolciniana è l’ombra che aleggia sui personaggi de “Il nome della Rosa” di Umberto Eco. Nel romanzo numerosi sono gli accenni al contesto storico e sociale in cui si mosse Dolcino. Tra gli altri il personaggio di Bernando Gui fu effettivamente l’inquisitore che sentenziò la morte per i dolciniani nel 1307.  

F. Murray Abraham interpreta Gui nell’adattamento cinematografico del 1986 diretto da Jean-Jacques Annaud
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ACCADDE OGGI | Eliogabalo: il dio, l’imperatore, il ragazzo

Eliogabalo divenne imperatore 16 maggio 218 d.C. Quando parliamo di lui  sono semmai i ricordi di scuola a tornar subito alla mente. Poche parole, in effetti, che liquidano questo personaggio storico quasi come fosse un errore, un paradosso nella linea di successione imperiale, come un uomo che volle avvelenare Roma con culti orientali. In realtà. Eliogabalo, nato come Sesto Vario Avito Bassiano, fu poco più di un bambino, mai del tutto padrone della propria vita. Furono, invece gli interessi di sua nonna, Giulia Mesa, a consacrarlo al potere, così come a spingerlo poi verso una fine orribile.

Ai margini dell’impero

Avito nacque in Siria nel 203 d.C. Nel suo sangue scorrevano due lignaggi importanti: sua madre, Giulia Soemia, era la cugina di Caracalla, con il quale terminava la discendenza maschile della propria famiglia; il suo bisnonno materno, Gaio Giulio Bassiano, era sacerdote dei El-Gabal, dio solare venerato a Emesa. Pertanto, il giovane Avito non si sarebbe mai potuto mettere in salvo dai quei giochi politici che, in un modo o nell’altro, lo attendevano. Ma più di tutti, fu sua nonna, Giulia Mesa, a spingerlo verso un destino amaro. Fu lei, infatti, a far sparger la voce che Avito fosse, in realtà, il figlio illegittimo di Caracalla. Fu lei a manipolare il sostegno delle truppe al fine di spodestare Macrino, il nuovo imperatore. Alla fine, la Legio III Gallica acclamò Eliogabalo, e da quel momento la scalata per il potere si combatté più con la propaganda che con le armi.

Busto di Eliogabalo, Musei Capitolini
Un fanciullo si fa imperatore

Vennero fatte promesse da entrambi i lati pur di conquistare il sostegno dei soldati. Giulia Mesa attirava fedeli grazie alle proprie ricchezze e alla grande influenza del tempio di El-Gabal. Macrino, invece, s’impegnò in generose offerte ai soldati, affinché non lo tradissero, e scrisse addirittura al senato mettendolo in guardia dalla follia del giovane rivale. Tuttavia, le promesse di Giulia Mesa sembrarono ben più dolci di quelle fatte da Macrino e, in più di un’occasione, i soldati in campo passarono dalla parte di Eliogabalo, l’usurpatore. Alla fine, Macrino fu messo in fuga e poi ucciso. Avito, all’età di 14 anni aveva vinto, mostrandosi agli uomini glorioso come fosse stato il dio sole stesso, aspetto che poi volle darsi in concreto durante il suo mandato imperiale. Ma l’Idilio durò poco.

Busto di Macrino, Musei Capitolini
Al centro del mondo

Roma non era Emesa. Se in Siria i costumi e i modi di Avito potevano passare inosservati, al centro del mondo i mormorii avrebbero accompagnato in ogni momento il nuovo imperatore, passo dopo passo. E così accadde. A nulla valsero i consigli di Giulia Mesa, Eliogabalo decise di esser lui stesso fautore della propria fortuna, conscio che il suo impero lo avrebbe seguito ed amato. Si sbagliava: il mal contento dei soldati crebbe sin da subito e la stessa Legio III Gallica, che aveva lo aveva sostenuto sin dal principio, tentò di metter fine al suo mandato. Fu un fallimento. Avito, infatti, riuscì a rimanere al potere fino ai suoi 18 anni, scandalo dopo scandalo. Alla fine, la stessa Giulia Mesa rivolse la propria attenzione ad un altro nipote, Alessandro Severo, favorendolo affinché soppiantasse il sempre più impresentabile Eliogabalo. Da qui, inizia la caduta del giovane imperatore, una sconfitta di cui lui stesso fu artefice.

Le nozze di Eliogabalo, Alma-Tadema (1888)
Morto di gelosia

Eliogabalo venne convinto ad affiancarsi Alessandro Severo come suo successore, in modo da cedere a lui la gestione secolare dell’impero. Tuttavia, in breve, fu chiara a tutti il maggior consenso che Alessandro godeva presso i soldati. Eliogabalo ne fu geloso, ed iniziò ad agire in maniera sconsiderata provocando la reazione dei pretoriani. Già in un’occasione scampò al loro dissenso, rimandando la fine. Fu come una partita a dadi con la sorte, e non vi era lancio che avrebbe potuto mai portar fortuna all’imperatore. Ancora una volta Eliogabalo tentò di sondare l’affetto dei pretoriani, e questi, alla fine, furono chiari nella risposta. Il giovane Avito morì cercando rifugio in una latrina, e sua madre lo seguì nella sorte, abbracciandolo sino alla fine. Ma non è tutto: fu poi applicata la damnatio memorie  nei confronti dell’imperatore caduto, così che di lui non rimanesse più niente.

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APPROFONDIMENTO | Decebalo, il re dimenticato

Nei rilievi che animano la colonna traiana vi è un personaggio che troppo spesso resta in ombra agli occhi dei più. È Decebalo, re dei daci, il grande avversario di Traiano e pietra d’inciampo per la politica romana. Lo si vede, in particolare, nella scena 106 della colonna, nell’atto di suicidarsi ormai circondato dai romani. Una fine tragica che segna la fine della seconda campagna dacica, ed il trionfo di Traiano. Eppure, Decebalo fu più di una testa mozzata portata in dono all’imperatore romano. Fu un degno rivale, senza il quale non sarebbe ma stato realizzato uno dei monumenti più importanti della Roma imperiale. Conoscerne la storia, pertanto, è indispensabile: non esistono eroi senza i loro avversari.

Decebalo: l’uomo, il re, il nemico

I romani conoscevano l’importanza dell’attribuire dignità al nemico e per Decebalo non fanno eccezioni. Per quanto questo personaggio sia uno sconfitto, è evidente come nei rilievi lo si mostri fiero, possente, come un uomo in grado di trasmettere sensazioni contrastanti: fascino, in quanto ultimo re della Dacia, morto per essa; timore sapendolo a capo di un regno ostile che osò sfidare l’impero. Lo storico Cassio Dione ne fa una descrizione che ben rivela il carattere di questo illustre sconfitto: doppiamente scaltro; abile in attacco, sia nel ritirarsi; esperto nell’imboscate tanto quanto nello scontro campale. Ma soprattutto: non solo sapeva bene come sfruttare la vittoria, ma era abile a limitare i danni in caso di sconfitta. È chiaro, quindi, che l’allargamento di Roma in Dacia non fu semplice come il far passare lo sguardo sui rilievi della colonna traiana. Si trattò di un’impresa ardua, e dall’epilogo non scontato.  

Statua di Decebalo nella città di Deva, Romania
Il re che sfidò l’impero

La vicenda storica di Decebalo inizia con una sconfitta. Persa la guerra al tempo di Domiziano il re della Dacia dovette accettare la pace. Non si trattò, tuttavia, di un trattato umiliante. Infatti, in cambio della fine delle ostilità Roma, incalzata dalle tribù germaniche, avrebbe pagato un tributo. Ne consegue che Decebalo ottenne così i fondi per ricostruire le proprie forze, tanto da allarmare il nuovo imperatore, Traiano. La guerra fu inevitabile, e probabilmente voluta da entrambe le parti. Vi furono due campagne, e seppur la resistenza di Decebalo fu estenuante, una dopo l’altra le roccaforti daciche caddero. Decebalo continuò a combattere arroccandosi tra le montagne ma, circondato, preferì darsi la morte insieme ai suoi compagni. E con lui scomparve anche il regno di Dacia, ormai inglobato nell’Impero Romano.

Decebalo si taglia la gola, dettaglio della colonna traiana
Un’insolita rivalsa

Seppur Decebalo sia stato scolpito nella colonna traiana nei panni dello sconfitto, il suo spirito può forse tornare a sorridere sprezzante. A circa 2000 anni dalla sua morte, l’imprenditore Iosif Constantin Drăgan ha finanziato la costruzione di un’imponente scultura rupestre dedicata a Decebalo. Si tratta del rilievo roccioso più alto d’Europa, a ridosso della gola del Danubio detta Porte di Ferro, un passaggio strategico nella guerra tra romani e daci. La realizzazione dell’opera avvenne tra il 1992 e il 2004, con la collaborazione scultore italiano Mario Galeotti che diede forma al progetto nella sua fase iniziale. Così, il volto serio di Decebalo è tornato a scrutare quelli che furono i confini del proprio regno, e a guardare con sdegno la Tabula Traiana che svetta sul lato opposto del fiume. Si tratta di un’iscrizione lasciata da Traiano, prova del suo passaggio attraverso le Porte di Ferro. Pertanto, la guerra non è ancora finita: Tiberio e Decebalo, ognuno nella propria roccia, ancora una volta si oppongono.

Approfondimento

APPROFONDIMENTO | La Frontiera agli albori della storia

Il concetto di frontiera e terra di nessuno si era quasi perso entro i confini europei, pur rimanendo fondamentale nel resto del mondo. Da ultimo, le vicende tra Russia e Ucraina, Russia e Occidente, hanno riportato all’attenzione il tema della frontiera, e di quanto sia delicato. Tuttavia, l’idea di una linea invalicabile che separa gli stati è antica quasi quanto la storia stessa, e sin dagli albori le dinamiche legate ai confini sono pressoché sempre gli stessi. Vale la pena conoscerne l’origine per comprendere meglio la nostra attualità.

Il contesto storico

L’idea di un confine ideologico e non geografico nasce nel III milllennio a.C. nella bassa Mesopotamia (Iraq). In quel tempo venne rendicontata la prima guerra mai descritta dall’uomo, tra il regno di Lagaš contro quelli di Ur e Umma. Il conflitto finì con l’innalzamento di colline di cadaveri nella piana. Tale gesto dovette far breccia nell’animo umano in quel tempo, tanto che dopo quella battaglia i sovrani inizieranno a usare i cumuli di cadaveri nemici per stabilire la frontiera, e stelie disposte lungo il confine per commemorare gli eventi bellici. In particolare, la prima guerra di confine mai documentata è quella per il possesso della regione del Guedina, tra i regni sumerici di Lagaš e Umma. Si tratta di un conflitto per accaparrarsi le principali riserve agricole della regione, dinamica che motiva ancora le guerre attuali.

La Mesopotamia con evidenziate le principali città del III millennio a.C.
Non oltrepassare il confine

Secondo la tradizione religiosa dei sumeri erano stati gli dèi a decretare i confini tra gli stati. Gli uomini, invece, ne garantivano l’ordine attraverso la stipulazione di trattati, ossia attraverso una primissima forma di diplomazia interstatale. Tuttavia, il regno di Umma contravvenne all’ordine imposto tendando di strappare il Guedina dal controllo di Lagaš. A termine di ogni battaglia i difensori ristabilivano le stele di confine, in cui erano impressi i moniti contro gli invasori. Ad esempio, il testo RIME 1.9.5.1 tramanda un’interessante maledizione: Possa Enlil (capo del pantheon sumerico) annientare l’uomo di Umma che tenti di oltrepassare il confine di Ninĝirsu e Našše (divinità principali in Lagaš) per strappare i campi con la violenza, che sia esso di Umma o uno straniero.

Le truppe di Lagaš marciano in formazione contro il nemico, un dettaglio dalla cosiddetta “Stele degli avvoltoi” (RIME 1.9.3.1)
Una terra di nessuno per garantire la pace

Per ovviare al problema dei confini sovrapposti i re di Lagaš inventarono quella che oggi è chiamata terra di nessuno. Sono gli stessi sumeri a darne la definizione nell’iscrizione RIME 1.9.5.1: Eannatum, il principe di Lagaš […] tracciò i confini con Enakalle, il principe di Umma […] lasciando dalla parte di Umma il campo di Ningirsu per un’ampiezza di 1290 metri […] e stabilendolo come campagna senza proprietario; su questo fossato eresse delle stele […] e non penetrò nelle campagne di Umma. I due regni erano, quindi, separati da circa un chilometro di campagna, ma gli accordi non vennero rispettati: Il sovrano di Umma […] bruciò le stele di confine e le sradicò; distrusse gli altari degli dèi nella “terra di nessuno”; assoldò genti straniere e attraversò “la frontiera”. Questa dinamica si ripeté per circa un secolo, fino all’assalto finale. Infatti, seppur con stile, fu Lagaš a perdere la guerra.

Il testo sumerico RIME 1.9.5.1 in cui sono narrate le vicende belliche in relazione alla frontiera tra Umma e Lagaš
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APPROFONDIMENTO | Essere mamma agli albori della storia

L’8 maggio si celebra la cosiddetta Festa della Mamma. Un evento che certamente riguarda il nostro presente ed il rapporto che abbiamo con chi ci è vicino. Eppure, vale la pena chiedersi quanto sia antica questa figura così amorevole, o così severa, ma che, in ogni caso, è legata ai figli da una certa consapevolezza e sentimento. Le fonti che ce la svelano sono di circa 4 millenni fa e, in particolare, sono i proverbi e le lettere di epoca sumerica e babilonese a rivelarne gli aspetti più intimi e affascinanti. A seguire, qualche piccolo spunto. 

Mai raccontare bugie alla mamma

Il rapporto con i figli è spesso così difficile da costituire un aspetto fondamentale nella vita dei genitori. Lo è oggi così come al tempo dei sumeri, tanto che in uno dei più antichi componimenti scritti dall’uomo, Le istruzioni di Shuruppak, databile alla metà III millennio a.C., è presente un consiglio pedagogico di particolare interesse. È rivolto ai figli, e recita come segue: Non devi dire bugie a tua madre: queste generano odio! […] La madre è come il dio sole, ha generato il genere umano (258–263). Concetto ripreso secoli dopo in un proverbio paleo-babilonese che definisce meglio l’insegnamento: un bambino dovrebbe comportarsi con modestia verso sua madre. Dovrebbe prendere in considerazione la vecchiaia! (UET 6/2 371). Insomma, i tempi cambiano ma certe dinamiche sembrano restare invariate.

Dipinto con ambientazione vicino orientale, An ancient custom di Edwin Long
Mamme disperate e figli ribelli

L’aspetto del disordine è uno dei principali casus belli tra mamme e figli. Nulla di nuovo, nemmeno per i sumeri. Infatti, non stupirà quanto le fonti antiche hanno da dire su questo argomento, anzi nel leggerle si potrebbe provare un certo senso di complicità o, più che altro, rassegnazione. Il consiglio, in questo caso, ha più il sapore di uno sfogo immortale: un figlio disordinato? sua madre non avrebbe dovuto metterlo al mondo, il suo dio non avrebbe dovuto crearlo! (c. 1.157). Non manca poi l’analisi del differente rapporto che si instaura con una figlia o con un figlio, come recita il seguente proverbio: una ragazza chiacchierona è messa a tacere da sua madre; un ragazzo chiacchierone non viene messo a tacere da sua madre (c. 1.185). Da questo punto di vista, ci si metta allora l’animo in pace: a quanto pare i maschi sono storicamente ingestibili.

Dipinto con ambientazione vicino orientale Queen Esther di Edwin Long
Mamme ingrate e figli fuorisede

Dato un assaggio ai proverbi sumerici, vale la pena passare alle lettere private. In un caso, troviamo un figlio che studia lontano da casa. Decisamente arrabbiato, prende argilla a stilo, e scrive una lettera a sua madre rinfacciandole di non inviargli vestiti nuovi. Il risultato è esilarante: […] Hai reso i miei vestiti più economici di anno in anno. Risparmiando sulle mie vesti sei diventata ricca! […] Il figlio di Adad-iddinam, il cui padre è un servo di mio padre, ha due vestiti nuovi […] Mentre tu mi hai dato alla luce, sua madre lo ha adottato, ma tu non mi ami nel modo in cui sua madre lo ama! (AbB 14 165). Una situazione proprio incresciosa quella vissuta dallo studente babilonese fuorisede che, evidentemente, subisce il peso di non sentirsi alla moda come i suoi coetanei. Che avesse ragione o meno il suo sfogo ha prevaricato, nel tempo, sulle ragioni di sua madre.

Dettaglio del dipinto con ambientazione vicino orientale, The Babylonian marriage market di Edwin Long
Mamme amorevoli e figli in ritardo a scuola

A chiusura di questo excursus sulle mamme agli albori della storia vale la pena ricordare la giustificazione di uno studente per il suo ritardo a scuola. L’episodio è tratto, in realtà, da un componimento sulla vita degli scribi, detto Edubba A, ma a tutti gli effetti è una finestra sulla vita scolastica dei fanciulli.  In questo caso, si può concludere che dar il la colpa alla mamma sia una strategia antichissima da usare con i maestri a scuola. Così parla il protagonista: la mattina svegliami, dissi, se faccio tardi il maestro mi punirà; ma al mio risveglio ho puntato gli occhi su mia madre, e le dissi, dammi la colazione che devo andare a scuola! Niente da fare, come si capisce dalle linee successive del testo, il ragazzo saltò la mattinata scolastica per aver ricevuto la colazione in ritardo. Sempre colpa di mamma, in ogni caso. D’altronde, un proverbio sumerico è molto chiaro in merito: la mia sorte è in una voce, (e) la mia mamma la può cambiare (c. 2.6).

 

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ACCADDE OGGI | Il Sacco di Roma: quando spagnoli e lanzichenecchi misero in ginocchio la Città Eterna

Il sacco di Roma da parte dei lanzichenecchi è uno degli eventi più tristi per la città dei Papi, considerato ben più terribile di quello perpetrato dai Goti o dai Vandali. Non solo. Fu una vera umiliazione per la Chiesa Cattolica, già duramente indebolita dall’affermazione della Riforma Luterana. Ma è anche il culmine simbolico della guerra tra Regno di Francia e Sacro Romano Impero per la supremazia in Europa. Non a caso l’evento del Sacco di Roma è considerato uno spartiacque tra il Rinascimento e l’Età Moderna.

Il fatto storico

Il 6 maggio 1527 fu un giorno particolarmente triste per la storia di Roma. In migliaia morirono, altrettanti fuggirono. Chi rimase assistette impotente alla devastazione portata dai lanzichenecchi congiunti alle forze spagnole: stupri, dissacrazioni, razzie. Seguì l’umiliazione del Papa, arroccatosi nella fortezza di Castel Sant’Angelo, e costretto a pagare un’ingente somma di denaro per il riscatto della città. Infine, la beffa: Roma, messa in ginocchio e derubata, dovette subire anche il morso della peste. Infatti, a causa del sovraffollamento dovuto alla presenza degli occupanti, la già precaria situazione igienica tracollò e le malattie colpirono lì dove le spade non erano arrivate.

Il “Sacco di Roma” dipinto da Johannes Lingelbach
Il contesto storico ed i protagonisti in campo

La prima metà del XVI secolo europeo si caratterizza per le accese lotte tra il Sacro Romano Impero ed il Regno di Francia. La rivalità tra le due potenze fece del suolo italico terreno di scontro, dinamica che spinse gli stessi stati italiani a scegliersi una parte a seconda del momento. Così, nel 1526, troviamo un’instabile coalizione antimperiale, detta Lega di Cognac, composta principalmente da Papa Clemente VII, dalle repubbliche di Venezia e Firenze, e dal Regno di Francia. Tuttavia, furono due uomini a determinare la storia del tempo, due condottieri di chiara fama. Georg von Frundsberg, condottiero per parte imperiale, e Ludovico di Giovanni de’ Medici, passato alla storia come Giovanni delle Bande Nere, condottiero al soldo del Papa. Il fiume Po divenne la linea da non valicare, e le Bande Nere ne furono i custodi implacabili, almeno finché la bocca di un falconetto non urlò il proprio boato.

Statua di Georg von Frundsberg presso il municipio della città bavarese di Mindelheim
Giovanni delle Bande Nere, l’ultimo difensore di Roma

Quando l’esercito papale ripiegò evitando lo scontro con le forze imperiali Giovanni, detto delle Bande Nere, non concesse terreno agli invasori. S’impegnò in una caccia al fine di bloccare il condottiero imperiale Georg von Frundsberg, impegnandolo in una guerriglia sfiancante. Tuttavia, Ferrara e Mantova presero in segreto la parte degli invasori, i primi fornendo pezzi d’artiglieria, i secondi non impedendo il passaggio dei lanzichenecchi. Alla fine, il 25 novembre del 1526 i due condottieri rivali si ritrovarono l’un di fronte all’altro, pronti ad affrontarsi nell’assalto decisivo. La battaglia fu aspra, e la fortuna passò dalla parte imperiale solo quando i falconetti fiorentini presero a sparare. Nella battaglia un colpo d’artiglieria raggiunse Giovanni a una gamba costringendolo a ritirarsi. Morirà per la ferita pochi giorni dopo, mentre i lanzichenecchi oltrepassavano il Po.

Più violenti dei Goti, più crudeli dei Vandali

Il 28 novembre 1526 le forze imperiali attraversarono il Po nei pressi di Ostiglia, riuscendo a respingere le forze della Lega di Cognac. Con l’inizio del nuovo anno le truppe di lanzichenecchi si unirono a quelle spagnole. L’esercito fu ulteriormente ingrossato da contingenti italiani filoimperiali entro la primavera.  Tuttavia, quello che non arrivò fu la paga dei soldati e il malcontento degli uomini portò all’infarto l’ormai anziano Georg von Frundsberg nel tentativo di placare le proteste. La tregua stipulata col Papa inasprì ancor di più la situazione. Solo il saccheggio delle terre nemiche avrebbe placato la rabbia dell’esercito imperiale. E così accadde: mentre von Frundsberg restava a curarsi a Ferrara, il nuovo comandante, Carlo di Borbone, riprendeva l’avanzata verso Roma, e verso la propria morte in battaglia. Il 6 maggio 1527, 20000 tra lanzichenecchi e spagnoli assaltavano le deboli difese romane e, seppur con ingenti perdite, la città alla fine capitolò.

“I cinque Lanzichenecchi” acquaforte di Daniel Hopfer
Accadde oggi

ACCADDE OGGI | La colonna di Traiano stupisce il mondo: l’inaugurazione nel 113 d.C.

Stando alla fonte dei Fasti ostienses, il 12 maggio dell’anno 113 d.C. viene inaugurata la Colonna di Traiano. Questo monumento costituisce il primo esempio di colonna coclide mai realizzato. La storia che i suoi rilievi raccontano sono un vero e proprio documentario su fatti avvenuti in Dacia al tempo della conquista di Traiano. Inoltre, costituisce  l’unico elemento del foro ad esser giunto sino a noi in buono stato. Per tutti questi motivi, la Colonna di Traiano è stata e sarà il vero alfiere della gloria di Roma attraverso il tempo.

Un dettaglio della Colonna Traiana (immagine via Canale Dieci)
A prova di tempo

La Colonna Traiana fu inaugurata il 12 maggio 113 d.C. e da quel momento rimase in piedi, sopravvivendo alle tragedie che sconvolsero la città. Le ceneri dell’imperatore Traiano e di sua moglie Plotina, custodite in urne d’oro nel basamento del monumento, furono depredate dagli avidi lanzichenecchi nel 1527, durante il sacco di Roma. La superfice della colonna, decorata da un lungo rilevo a spirale, catturò l’interesse di Napoleone che la volle traferire in Francia. Per fortuna gli ingenti costi di trasporto bloccarono sul nascere l’ambizioso progetto. Così, ad oggi, la Colonna Traiana è l’unico monumento del foro ad aver superato quasi indenne le brutalità barbariche e gli spogli di epoche più recenti.

Colonna Traiana vista da est
Marmo di Carrara e dimensioni eccezionali!

La Colona di Traiano è un monumento singolare, non solo per magnificenza che suscita all’occhio. Alta circa 40 metri, realizzata in marmo di Carrara, la colonna è composta da 18 blocchi sovrapposti l’uno sull’altro. Un dettaglio non da poco. Infatti, si tenga conto della presenza di scala a chiocciola interna al fusto, e della lunga striscia narrativa che decora la colonna esternamente. Pertanto, al momento della posa dei blocchi, da 40 tonnellate ciascuno, non potevano sussistere discrepanze che alterassero la fluidità del rilievo o la regolarità della scala interna. Per quanto riguarda il fregio, lungo 200 metri, vale la pena notare come cresca in altezza nell’allontanarsi dalla base. Questa soluzione garantiva la giusta resa prospettica per tutta la lunghezza del rilievo, evitando distorsioni alla vista. 

Plastico che riproduce l’ipotesi di costruzione della Colonna; dalla mostra Costruire un capolavoro del MUseo Galileo, a Firenze (fonte Museo Galileo)
Il rilievo

Quanto narrato dal fregio della Colonna Traiana è divisibile in 114 riquadri equivalenti tra loro. Questi possono essere raggruppati, a loro volta, in due atti distinti: quello della prima e quello della seconda campagna dacica. Il ritmo narrativo non conosce interruzioni, se non per la raffigurazione della vittoria alata che divide i due episodi. Visivamente si assiste ad una progressione temporale, dall’attraversamento del Danubio all’accumulo dei trofei di guerra a termine della prima campagna; poi, dalla partenza della flotta romana fino alla deportazione in massa dei nemici sconfitti a termine del secondo atto. Per quanto riguarda lo stile, i rilevi che decorano la Colonna di Traiano fanno del realismo e del dinamismo la propria anima. Inoltre, l’attenzione ai dettagli e il coinvolgimento emotivo che si prova nell’osservare le scene raffigurate attribuiscono all’opera un chiaro e deciso valore documentario.

Un dettaglio del rilievo in cui i soldati romani costruiscono mura difensive
Oltre il rilievo: il fatto storico

Quanto narrato dal marmo della Colonna di Traiano è relativo alle campagne militari in Dacia condotte dall’imperatore stesso. Secondo lo storico Cassio Dione, fu la crescente arroganza dei Daci a motivare l’inizio della guerra, necessaria per limitarne la crescente forza militare. Nell’anno 101 d.C. ebbe inizio la prima campagna dacica: le forze domane si addentrarono nel territorio nemico sino a Tibiscum (Timișoara); poi, l’anno seguente, ebbero inizio gli scontri che portarono alla resa di Decebalo, re dei daci. La seconda campagna dacica avvenne nel 105 d.C., quando Decebalo infranse la pace riarmandosi e stringendo alleanze in chiave antiromana. Tuttavia, quando le forze romane si mossero, il re dei daci fu abbandonato dai propri alleati, e seppur opponendo una disperata ed eroica resistenza,  la sua testa fu infine consegnata a Traiano.

Decebalo si taglia la gola, dettaglio della colonna traiana

In copertina: dettaglio della Colonna Traiana (immagine via Noidiroma.com)

 

News

NEWS | Aspettando l’aldilà: cimiteri cristiani in età tardoantica

Aspettando l’aldilà: cimiteri cristiani in età tardoantica. Un’occasione per parlare di archeologia e antropologia in relazione alle testimonianze più antiche del cristianesimo. L’evento promosso dal Museo Archeologico Nazionale di Taranto (MArTA) si terrà il 27 aprile alle ore 18.00 in occasione del Mercoledì del MArTA

L’ultimo racconto dall’oltretomba

In diretta sui canali Youtube, Facebook e Linkedln del Museo Archeologico Nazionale di Taranto, la direttrice del MArTA, Eva Degl’Innocenti, introdurrà la relazione della prof.ssa Alexandra Chavarria Arnau dell’Università di Padova su “Aspettando l’aldilà: cimiteri cristiani in età tardoantica”. Questo evento costituisce l’appuntamento conclusivo della programmazione del mese di aprile interamente dedicata ai “Racconti dall’oltretomba. Tra archeologia e antropologia dei resti umani” con il coordinamento scientifico della stessa direttrice del MArTA e del dott. Antonio Fornaciari dell’Università di Pisa.

Scavo di una sepoltura del XVIII secolo da Badia Pozzeveri, Lucca

 

Tema della giornata

Le testimonianze più antiche del cristianesimo primitivo si documentano già dal terzo secolo in ambito funerario, quando cominciano a comparire i primi cimiteri suburbani cristiani che poi danno luogo in molti casi a grandi complessi ecclesiastici con carattere funerario e a volte martiriale – spiega la prof.ssa Alexandra Chavarria Arnau, docente dell’Università di Padova, di archeologia medievale. Nello specifico, si parlerà di chiese e sepolture. Si tratta, infatti, di due elementi intimamente legati tra loro, e  grazie alle più recenti tecniche di bioarcheologia, è possibile comprendere meglio i rapporti tra le tombe e gli spazi liturgici.

La professoressa Alexandra Chavarria