Il 20 maggio del 325 d.C. il mondo dovette fermarsi. Era iniziato il Concilio di Nicea, un evento che, in un modo o nell’altro, avrebbe plasmato il futuro dell’umanità intera. Non è, infatti, sbagliato affermare come le scelte fatte in quell’occasione abbiano poi influenzato la storia sino ai nostri giorni. Decreti e dogmi che ancora condizionano la nostra vita, tanto nel sentito religioso quanto nella politica.
Preservare la pace
Grazie all’imperatore Costantino il Cristianesimo passò dall’essere un sussurro diffuso ad un vero e proprio culto religioso manifesto (clicca qui per La diffusione del Cristianesimo in Sicilia). Comparvero così le prime chiese cristiane, fuori e addirittura dentro le mura cittadine. Eppure, in soli 20 anni, si arrivò ad una tale confusione, e anche a tali divergenze in seno alla chiesa stessa, che l’imperatore dovette nuovamente intervenire per plasmare la storia. Venne, quindi, organizzato un concilio nella città di Nicea, in Bitinia, nel 325 d.C. In particolare, fu la natura di Cristo a motivare l’incontro dei 220 vescovi intervenuti in quell’occasione, un argomento di tale portata da poter sbriciolare l’impero stesso.
Un nuovo mondo, fatto di dogmi ed eretici
Quanto deciso dal Concilio di Nicea servì per dar nuova struttura ad uno stato sempre più influenzato dai valori cristiani. Troppi, in effetti. Il Concilio rifiutò con forza l’interpretazione ariana della Trinità che, in particolare, considerava Gesù in maniera subalterna rispetto a Dio: solo una creazione priva della stessa sostanza del Padre. Inoltre, venne decretato come miracoloso il concepimento di Gesù da parte di Maria, quindi non carnale, per opera dello Spirito Santo. Si stabilì, pertanto, un dogma, cioè una verità imposta che avrebbe determinato la fede di lì in avanti. Venne poi riorganizzata la struttura della Chiesa stessa, ad esempio affermando l’autorità dei vescovi di Roma ed Alessandria sugli altri. Eppure, stando alle fonti, il Concilio di Nicea finì per essere un fuoco di paglia. In breve, i movimenti eretici ripresero forza, accompagnando l’impero nella sua progressiva trasformazione.
Nella ricorrenza di oggi, nota ai più come La Festa del Papà, può essere interessante lanciare uno sguardo al passato per intendere quale fosse il valore della paternità. Solo una breve occhiata verso un mondo scomparso che, per certi versi, non era poi così differente dal nostro.
Una storia vecchia quasi quanto la storia
Talvolta, la vita può mettere in crisi il suo protagonista. Traumi, delusioni, abbandoni possono allontanare l’uomo dal centro del suo mondo. Si tratta di fughe, magari fisiche, come l’uscir di casa per non far ritorno, o introspettive, attraverso il rifiuto del dialogo o l’apatia. Per certi versi tale condizione mosse le azioni di un uomo, eroe di uno dei più antichi componimenti mai scritti dall’uomo: Gilgameš. Costui fu realmente un grande re del passato, e attorno la sua fama si costruì un filone di storie leggendarie che, infine, furono riordinate in un’unica opera, l’Epopea di Gilgameš. Seppur le sue gesta siano perlopiù rivolte alla ricerca dell’immortalità, vi è un passo nel componimento che vale la pena citare a proposito dell’odierna festa del papà. Un consiglio dal passato, e forse il senso stesso della vita.
Il saggio consiglio
Gilgameš vaga disperato, incapace di accettare la morte dell’amico Enkidu e, di conseguenza, l’inevitabilità della propria. Nella sua folle ricerca dell’immortalità arriva in un luogo sperduto, in riva al mare, dove incontra la saggia Siduri. Nella versione paleo-babilonese dell’opera i due hanno un breve dialogo, la cui profondità trascende il tempo. È Siduri a parlare, cercando di far ragionare il confuso eroe: Gilgameš ma dove vai vagando? Non troverai mai la vita che cerchi! Da quando gli déi crearono l’umanità riservarono la morte per l’uomo. E quindi il consiglio: Per ciò che ti concerne, Gilgameš […] Guarda con tenerezza il bambino che ti tiene la mano, e che la tua sposa non cessi di gioir nei tuoi abbracci! Tale, infatti, è il destino degli uomini!. Un pensiero di quattro millenni fa, eppure così eterno. Pertanto, in questa giornata dedicata ai papà, tanti auguri anche da parte del nostro passato.
La Missione Archeologica della Sapienza nella Penisola Arabica e nel Golfo (MASPAG) ha esteso la propria ricerca al territorio presso Wadi Al-Ma’awil. Si tratta di un contesto stretto tra due crinali che, alla vista, incorniciano un’ampia piana alluvionale. Proprio su quelle montagne, in apparenza impenetrabili, sono stati individuati dei petroglifi, forse prova di una mobilità antica. Una scoperta importante per il team archeologico italiano che si propone di studiare le relazioni tra uomo e il suo ambiente agli albori della storia.
Capire la terminologia: cos’è un petroglifo
La parola petroglifo non rientra certamente nel vocabolario di uso comune. Significa letteralmente “incisione su roccia” e in ambito scientifico intende l’uso storico di affermare sé stessi, il proprio passaggio, la propria vita, attraverso immagini o scrittura graffiata sulla pietra. L’attenzione di MASPAG si è rivolta anche a questo genere di fonti, così preziose per ricostruire il passato. Il professor Agostini (Filologia Semitica – Sapienza) delinea quest’ambito di ricerca con le seguenti parole: «Con la campagna di quest’anno si è deciso di iniziare a impostare anche le successive ricognizioni epigrafiche. Nella zona sono stati già individuati alcuni petroglifi, che sono piccole incisioni su roccia che, benché spesso di difficile datazione, possono però rivelarci qualcosa di importante sul contesto socioeconomico di chi le ha incise». Più in dettaglio:«L’Oman ha inoltre restituito alcune piccole iscrizioni rupestri in una scrittura non ancora ben interpretata e si spera dunque che nelle successive campagne si possano trovare ulteriori reperti testuali che possano aiutare nella loro comprensione».
Petroglifi e come trovarli
L’archeologia è spesso sinonimo di esplorazione. Lo è almeno per la missione archeologica MASPAG presso Wadi Al-Ma’awil (Oman). Qui troviamo un contesto territoriale molto ampio e complesso da un punto di vista ambientale. Catene montuose, oasi e letti fluviali si intrecciano tra loro disegnando alla vista un paesaggio intricato, quasi labirintico. Infatti, non è facile individuare i resti archeologici che si possono osservare dal satellite, ed ancor più difficile è identificare ciò che la tecnologia non può vedere. Ad esempio, i petroglifi (incisioni su roccia) restano nascosti a qualsiasi indagine aerea. Bisogna cercarli inerpicandosi sulle montagne e spesso un aiuto fondamentale viene proprio dalla gente del posto. A volte l’arrampicata insegue il sentito dire, in altre occasioni sono proprio i locali a guidare il team di ricerca lungo sentieri improvvisati. È faticoso, ma anche appagante quando dietro lo sperone roccioso, magari nascosti e in ombra, appaiono le incisioni, testimonianze della mobilità antica.
Salita sui monti Hajar e vista sull’area indagata dal progetto MASPAG, la piana presso Wadi al-Ma’awil.
La Missione Archeologica della Sapienza nella Penisola Arabica e nel Golfo (MASPAG) opera da più di quaranta anni in Oman. L’area archeologica si trova a ridosso del Tropico del Cancro, ed è facile intendere come il contesto paesaggistico sia completamente diverso da quello nostrano. Lo wadi, l’oasi e il sistema d’irrigazione Aflaj costituiscono l’ambiente omanita, definendo il paesaggioil cui operano i ricercatori italiani impegnati presso Wadi Al-Ma’awil.
Lo Wadi, il fiume dei deserti
Lo Wadi altro non è che un torrente tendenzialmente stagionale, che si gonfia durante la stagione delle piogge e va in secca nei periodi più caldi. Al di la di questo, la differenza con il contesto italiano sta nell’ampiezza raggiunta dal letto fluviale. Ad esempio, il Wadi che domina il territorio presso il sito di Wadi Al-Ma’awil può raggiungere un chilometro di larghezza. Ne consegue che intere aree vengono sommerse, trasformando le numerose alture in isolotti prigionieri delle acque. Le piene possono essere improvvise e devastanti, per questo la scelta del luogo in cui stabilirsi era di fondamentale importanza già agli albori dell’umanità. Esistono comunque Wadi perenni come quello di Wadi Shab: un paradiso le cui immagini ben dimostranol’imponenza e l’importanza di un tale elemento nel territorio.
L’oasi, realtà oltre il miraggio
Le oasi sono letteralmente i polmoni con cui respira chiabita i deserti e le zone aride. All’ombra delle palme si articolano i villaggi, un dedalo di case e aree coltivate o dedicate al pascolo. Questa composizione è dovuta alla necessità di proteggersi dall’arsura che schiaccia l’ambiente superata l’ultima fila di alberi. Tanto oggi quanto in antico l’oasi rappresenta un elemento imprescindibile per la vita dell’uomo. Per questo l’attività di ricerca italiana presso Wadi Al-Ma’awilmira a rintracciare l’antica area verde di epoca storica, sicuramente presente nell’area indagata. L’obiettivo è infatti quello di comprendere i processi di addomesticamento delle oasi, la loro gestione, la loro difesa.Eppure,osservando il territoriorisulterebbe difficile immagine un contesto verde e rigoglioso, sostituito ormai da chilometri di terra brulla. Questo perché le oasi si spostano nel tempo, al ritmo della trasformazione del Wadi piena dopo piena, o per l’esaurimento delle falde acquifere nel sottosuolo.
Aflaj, ossia come l’uomo addomesticò l’acqua
Dire che l’Aflaj sia solo un sistema di canalizzazione è riduttivo e non rende giustizia a questa complessa ed affascinante soluzione per combattere la siccità. Affascinante è proprio la parola giusta perché furono le comunità antiche a ideare e sviluppare la canalizzazione delle acque del sottosuolo, portandole così alle aree abitate. Per approfondire abbiamo chiesto al dott. Guido Antinori di delineare il sistema: «Il falaj è il cuore dell’oasi, e quindi della vita in Oman. Le prime forme di questo tipo di canalizzazione ha permesso all’uomo di addomesticare un territorio difficile, creando piccoli paradisi verdi all’ombra della palme da dattero. Infatti, attraverso un sistema di pozzi e canali sotterranei l’acqua delle falde montane viene indirizzata verso le aree abitate a valle. L’origine del falaj anima il dibattito scientifico, e MASPAG cerca di contribuire studiandone le tracce nel paesaggio di Wadi Al-Ma’awil». Nel video a seguire può essere osservato l’ingresso a un falaj moderno, intendendone così l’aspetto e la struttura. Un colpo sempre d’occhio utile per interpretare il passato.
La Missione Archeologica della Sapienza nella Penisola Arabica e nel Golfo (MASPAG) riprende le attività in Oman. L’area indagata si divide tra il complesso funerario di Daba Al-Bayah e l’oasi di Wadi Al-Ma’awil; quest’ultima indagata per la prima volta. In quest’occasione anche ArcheoMe sarà presente sul campo con il proposito di documentare e condividere l’avanzamento dei lavori.
L’Italia al di là dell’Italia
Non si parla spesso delle missioni archeologiche italiane all’estero, a meno che un importante ritrovamento non riesca a imporsi agli occhi dei media. Si verifica un improvviso picco d’interesse nell’opinione pubblica; poi, tutto tace e la ricerca italiana all’estero torna nell’ombra. Tuttavia, l’archeologia non è sinonimo di scoperte sensazionali, non è avvenirismo, ma lavoro costante, dedizione, e spesso ostacoli difficili da immaginare. ArcheoMe e MASPAG (social: FB- maspag; IG- maspag_archaeo) credono nell’importanza di raccontare la zona d’ombra dietro le grandi scoperte, con l’obiettivo di far comprendere come si arrivi a “riscrivere la storia”, frase spesso usata senza cognizione di causa che non rende giustizia ad una realtà molto più frequente di quanto si possa pensare. Questo viaggio dietro le quinte sarà raccontato da Edoardo Zanetti, dottore in filologia e storia del mondo antico, che avrà cura di documentare una storia diversa, quella degli archeologi italiani oltre i patrii confini.
L’attività di ricerca italiana in Oman
L’Oman è un luogo per certi versi magico: sospeso tra l’oceano e le alte montagne che lo separano dall’aridità del deserto. Questo è almeno il panorama che si può osservare dalla città di Muscat, base logistica per la missione italiana che indaga il contesto archeologico presso Wadi Al-Ma’awil. Sono state, infatti, individuate tracce di un insediamento connesso ad un’ampia necropoli. L’obiettivo del team italiano sarà quella di comprendere il rapporto tra uomo e ambiente agli albori della storia. «Più di quarant’anni di ricerca archeologica in Oman ci forniscono un quadro ampio e complesso dell’origine della società araba, ma c’è ancora tanto da fare» sono le parole del Professor Genchi. Il professor Ramazzotti aggiunge che «le ricerche archeologiche in Oman centro-settentrionale sono un Grande Scavo di Sapienza dal 2019, un’altra gemma dell’archeologia orientale nel mondo». Sarà svolta, pertanto, un’intensa indagine sul territorio con interessanti aggiornamenti che ArcheoMe non mancherà di documentare nei giorni a venire.
“Sacred Landscape Sicily”, persone oltre la ricerca
Non è scontato ricordare che la ricerca, sia questa “sul campo” o “da biblioteca”, è fatta da donne e uomini. Professionisti che hanno dedicato la propria vita allo studio, all’analisi delle fonti, alla comprensione del passato. Non parliamo di astratte collezioni di informazioni, ma di osservazioni mirate su contesti molto particolari, ristretti, così profondi che possono essere intravisti solo dopo molti anni di formazione. Vediamo, quindi, chi sono i protagonisti di “Sacred Landscape Sicily” e quale sarà il loro ruolo nella missione.
I direttori del progetto
La peculiarità della missione “Sacred Landscape Sicily” è quella di essere un’esplorazione fisica del territorio. La dott.ssa Margherita Riso, dell’Università di Leicester, è la mente del progetto. È lei ad aver individuato la linea scientifica da seguire, coinvolgendo in quest’avventura anche la Society for Church Archaeology. A lei si affiancano, in qualità di co-direttori, il dott. Matteo Randazzo e il dott. Andrea Arena. Il dott. Randazzo, dell’Università di Edimburgo, si è occupato della ricostruzione del paesaggio antico e medievale in Sicilia Centrale. A lui si deve la datazione dei siti documentati lungo l’itinerario e la definizione dei possibili percorsi da seguire. Il dott. Arena, specializzato in preistoria e protostoria presso l’Università Ca’ Foscari, si è occupato di aspetti logistici cruciali del progetto. I sopralluoghi preliminari del tracciato e ricognizioni di superficie sono stati condotti sotto la sua supervisione.
Collaboratori accademici
Come spesso accade, le missioni archeologiche sono composte da un team eterogeneo. Grazie al confronto tra i vari membri, ognuno specializzato nel proprio settore scientifico, possono essere risolti gli enigmi con cui il passato mette alla prova i ricercatori. In questo caso il gruppo è supportato dal dott. Giambattista Marras, dell’Università di Cambridge. Lui è l’anima tecnologica del progetto, in grado di fornire analisi informatiche del territorio, così da correggere la rotta terrestre che il gruppo on the field dovrà seguire. Il dott. Antonio Alfano, archeologo specializzato presso l’università Sapienza Università di Roma, accompagnerà, invece, il gruppo in qualità di guida Turistica e Ambientale Escursionistica. È direttore del Gruppo Archeologico Valle dello Jato, e da anni conduce ricerche sul paesaggio rurale nel territorio dello Jato e del Belice destro.
Supporto e progetti paralleli
Non pensiate che i ricercatori siano topi di biblioteca completamente obliati dalle proprie lucubrazioni. In certi casi è così, ma per fortuna non sempre. Il team di “Sacred Landscape Sicily” si arricchisce di esperti i cui interessi vanno al di là del puro focus accademico. Infatti, uno degli obiettivi del progetto è quello di coinvolgere il territorio, e chi lo vive, non solo analizzarlo in maniera asettica. Il dott. Mikel Herran Subiñas, dell’università di Leicester, impegnato nello studio della trasformazione dello spazio domestico all’interno del mondo islamico, ha scelto di intervenire nel progetto ma in qualità di divulgatore scientifico. Sarà il blogger che seguirà la missione, @PutoMikel, il vero ponte tra l’accademia e l’immenso pubblico social. La dott.ssa Eleonora Trebastoni, laureata in Televisione, Cinema e New Media, documenterà il viaggio con la sua telecamera. Sarà l’occhio che osserva e non dimentica, e la vista per il pubblico a casa. Infine, Salvatore Zuccarello, detto scherzosamente “L’Asinaro”, presidente dell’associazione Ciukino, si occuperà del trasporto dei materiali coi suoi asini, i principali “veicoli” del passato.
Archeome e l’impegno per la divulgazione scientifica
Il divario tra la conoscenza accademica e quella del vasto pubblico è spesso abissale. La ricerca scientifica è in grado di analizzare il passato con precisione chirurgica. Tuttavia, ciò comporta una certa difficoltà nel condividere e spiegare i traguardi raggiunti ai non specialisti. Parliamo di minuzie, piccoli aggiustamenti che tuttavia permettono di “riscrivere la storia”, concetto che in questo caso non è solo un modo di dire. Archeomecrede nell’importanza di una sana e virtuosa comunicazione tra accademia e vasto pubblico. Per questo s’impegna a sostenere, documentare e spiegare il progetto Sacred Landscape Sicily, con l’obiettivo di coinvolgere il pubblico e rivitalizzarne la consapevolezza storica e archeologica (anima stessa del nostro paese). Noi siamo la nostra terra: chi non conosce le proprie origini dimentica sé stesso.
Il progetto In the Footsteps of Early Christian Rural Communities (social: Fb – Sacred Landscape; IG – Sacred Landacape Sicily) finanziato dalla Society for Church Archaeology e dall’Università di Leicestersta per prendere il via. ArcheoMe ha scelto di seguire passo passo questa attività di ricerca accademica per la sua singolarità. Non si tratta, infatti, di pura analisi documentaria, ma di un “viaggio nel tempo”: un’esplorazione fisica del territorio per ricostruire la mobilità nella Sicilia centrale tra le prime comunità rurali cristiane dell’isola.
Vivere il paesaggio sacro
L’esplorazione del paesaggio sacro nella Sicilia centrale si concentrerà nelle aree di Enna, Caltanissetta e Catania. Un scelta non casuale: numerosi studi scientifici rivelano l’esistenza di un paesaggio archeologico decisamente ricco e articolato. Scopo della ricerca è quello di individuare i possibili percorsi che, secoli fa, vennero seguiti dai primi cristiani. Parliamo delle comunità rurali che abitarono la regione tra IV e IX secolo d.C. e che lasciarono a ricordo di sé chiese rurali, monumenti, necropoli. Proprio per comprendere le dinamiche di viaggio di quest’epoca così antica l’esplorazione avverrà a piedi ma non senza un piccolo aiuto: per il trasporto delle attrezzature, infatti, ci si avvarrà di due asini, i principali “veicoli” del passato, che contribuiranno a dare il giusto passo all’attività di ricerca. Il progetto Sacred Landscape Sicily riscrive, dunque, la pura attività di ricerca accademica in una forma nuova, sperimentale, uno studio attivo del territorio in cui s’immerge.
Il percorso tra paesaggio ed archeologia
L’esplorazione Sacred Landscape Sicily, che ArcheoMe avrà cura di documentare, sarà guidata dalla dottoressa Margherita Riso dell’University of Leicester, direttrice e ideatrice del progetto. Il viaggio ci permetterà di scoprire un paesaggio siciliano inedito ai più: parliamo di un orizzonte archeologico poco noto, eppure di fondamentale importanza e indescrivibile bellezza. ArcheoMe seguirà il gruppo di ricerca attraverso le ville romane di Gerace, Rasalgone e del Casale; tra il grande villaggio rurale di Philosophiana ed altri insediamenti abitati dalla preistoria al medioevo; lungo l’asse viario di epoca romana imperiale che collegava Catania ad Agrigento. Tasselli di un puzzle separati tra loro, che il team di ricerca tenterà di riunire ancora una volta. Rifacendoci alle parole della dott.ssa Riso, i tempi e le difficoltà di viaggio “verranno sperimentati dal nostro team all’interno di un paesaggio culturale divenuto un vero e proprio contenitore della memoria, individuale e collettiva”.
Prima del primo passo
È bene chiarire che alle spalle di un’indagine sperimentale come quella di Sacred Landscape Sicily corre un lungo tempo di studio e preparazione scientifica. Quella che potrebbe sembrare una “passeggiata spensierata” in realtà non lo è. I possibili percorsi individuati dal gruppo di ricerca non sono influenzati dalla moderna morfologia del territorio ma da quella ricostruibile per l’era passata presa in esame, in questo caso l’alto medioevo. In particolare, la ricerca filologica e le ricognizioni di superficie si accompagnano alle elaborazioni digitali GIS (Geographic Information Sistem). Tramite questo software possono essere mappati i principali elementi del territorio, archeologici e ambientali, elementi con cui intendere l’ipotetico tracciato delle antiche rete stradali. Il riscontro “umano” è indispensabile, a questo punto, per validare o meno il ventaglio di possibilità ottenute dall’analisi informatica.
Non manca molto: il 24 settembre 2022 Sacred Landscape Sicily muoverà il primo passo con una conferenza di presentazione che si terrà a Piazza Armerina, il caratteristico comune ennese che ospita la famosa Villa Romana del Casale e da sempre al centro di una sistematica ricerca archeologica. Presente alla conferenza di avvio anche l’immancabile Gruppo Archeologico “Litterio Villari”, da sempre al fianco degli archeologi che operano sul territorio della Sicilia centrale.
La diga di Makhoul mette in pericolo la sopravvivenza del sito archeologico di Assur, che fu capitale dell’Impero Assiro e ormai patrimonio mondiale dell’UNESCO. Sopravvissuta nel 614 d.C. al saccheggio dei Medi, e poi nel 2015 alle devastazioni perpetrate dallo stato islamico, oggi l’antica capitale rischia di soccombere alle acque del Tigri.
Convivere con il passato
La diga servirà a rafforzare la sicurezza idrica ed economica dell’Iraq, ma anche a proteggere le aree a sud di Samarra e Baghdad dal rischio di inondazioni. Questo è il progetto già ideato nel 2002. Poi, la guerra sconvolse il paese. Oggi, a vent’anni di distanza, i lavori sono ripresi e d il pericolo che l’acqua possa far sommergere il nostro passato torna reale. Il dibattito è acceso: da una parte il pragmatismo di far fronte ai cambiamenti climatici in ogni modo, dall’altra l’idea che non si possa cancellare la storia rinunciando alla nostra identità. Eppure, anche nella terra tra i due fiumi il cambiamento climatico è ormai una realtà, la portata dei corsi d’acqua non è più in grado di nutrire il territorio in cui scorrono. Una soluzione è necessaria, ma i pareri sono discordanti in merito.
L’impatto sociale e ambientale
Il sito scelto per diga di Makhoul si trova a circa 40 chilometri dalla città di Assur. Venne proposto nel 2002 durante il regime di Saddam Hussein, ma già nel 2003 la capitale assira veniva nominata patrimonio mondiale dell’UNESCO. A distanza di anni è necessario capire come affrontare la nuova ondata di siccità. Il progetto, infatti, desta grandi preoccupazioni: potrebbero arrivare a 250000 le persone sfollate dalle acque. Inoltre, si prevede che altri 183 siti archeologici (Marchetti et al.) vengano sommersi. Un sacrificio enorme, a prescindere dalle proprie idee in merito. Khalil Aljbory, ricercatore in archeologia presso l’Università di Tikrit, conclude: “Non sono state effettuate indagini sull’impatto sociale o ambientale. Come persona che è stata allontanata a causa di precedenti conflitti, temo che la costruzione della diga possa causare una seconda ondata di abbandoni nella regione”.
Si è da poco concluso l’11° Colloquium Internazionale del Deutsche Orient-Gesellschaft, tenutosi nella città tedesca di Lipsia (16-19/06/22). Si tratta di un importante appuntamento accademico dedicato allo studio dell’ambiente in cui si svilupparono le società del Vicino Oriente Antico.
Il Vicino Oriente Antico in Europa
Per certi versi, si potrebbe pensare che tale evento riguardi solo da lontano il mondo italiano. Invece, l’interesse nostrano per l’area vicino orientale e la sua forte presenza in ambito internazionale sono una realtà ben affermata, seppur non se ne parli molto.
Parlare di “ricerca” è abbastanza semplice. Eppure, “cosa sia la ricerca” è spesso un mistero. Soprattutto in relazione al campo storico, filologico, archeologico. In effetti, la specializzazione degli studi ha raggiunto una tale profondità da non poter più essere compresa dal cittadino comune, se non per mezzo di un intermediario: il divulgatore scientifico, nei limiti delle sue possibilità. Gli argomenti presentati in occasione dell’11° Colloquium a Lipsia sono, in effetti, molto complessi, seppur assolutamente affascinanti. In relazione all’ambiente, si è parlato del ruolo degli animali in Mesopotamia negli incantesimi, divinazione o addirittura nelle favole. Si è parlato di piante e del loro utilizzo, diffusione, simbolismo. È stato poi analizzato il territorio, in relazione al suo sfruttamento, o alla gestione delle acque. Si è persino parlato di come il meteo influisse sulla vita quotidiana delle persone, o di come queste percepissero la primavera 5 millenni fa.
Il Vicino Oriente Antico e gli studiosi italiani
Nei quattro giorni in cui si è svolto il convegno, un mondo antico, per certi versi perduto, è rinato attraverso le ricche esposizioni dei relatori invitati a parlare. Tra questi figuravano anche accademici di origine italiana. In ordine di programma ecco gli argomenti trattati. La Dott.sa Nicla De Zorzi, professoressa presso il dipartimento di Studi Orientali dell’Università di Vienna, ha proposto un intervento sulla figura degli animali nella Divinazione in Mesopotamia. Il Dr. Carlo Corti, ricercatore presso il dipartimento di Studi Storici dell’Università degli Studi di Torino, ha presentato un intervento sulla viticoltura presso il popolo degli Ittiti. Il Dr. Edoardo Zanetti, ricercatore indipendente, ha parlato di ingegneria idraulica nel III mil. a.C., e di ricostruzione del paesaggio sumerico. Infine, il Dr. Tommaso Scarpelli, dottorando presso l’Istituto di Oriente Antico presso l’Università di Lipsia, ha condiviso i suoi dati relativi all’impatto meteorologico sui viaggi in Mesopotamia.
Il piacere di confrontarsi, il piacere di ritrovarsi
L’evento tenutosi nella storica Biblioteca Albertina, ha richiamato a Lipsia ricercatori provenienti da tutto il mondo, Italia compresa. Non certo una sorpresa, sono moltissimi i colleghi italiani perfettamente inseriti nel contesto internazionale. In ogni caso, una precisazione è dovuta: accademicamente il panorama nostrano è composto tanto da studiosi che operano sul territorio nazionale, quanto da personalità che invece proseguono le proprie carriere all’estero. Gli appuntamenti internazionali, dunque, non solo costituiscono una grande momento di confronto e dibattito, ma offrono soprattutto una preziosa occasione di riavvicinamento tra colleghi connazionali così distanti l’un dall’altro. Da un punto di vista personale, quei sorrisi, quegli abbracci, quegli “A presto!”, scambiati tra una presentazione e l’altra sono uno dei fuochi che alimentano la ricerca stessa, lo stimolo per affrontar le difficoltà, il sostegno per non abbandonare i propri progetti. Una bellezza da difendere nonostante la crisi che colpisce anche il mondo accademico, soprattutto italiano.
Il 9 giugno del 53 a.C. avvenne una delle più umilianti sconfitte di Roma, moralmente peggiore di quelle di Teutoburgo o di Adrianopoli. Infatti, la disfatta di Carre (oggi Harran, in Turchia) non fu tanto l’opera di un nemico forte, ma il risultato della superbia del triunviro Crasso in cerca di gloria e legittimazione.
Il fatto storico
Non si trattò di una battaglia, ma di un massacro annunciato. L’esercito romano era stato logorato dal deserto, e sfiancato dalla guerriglia portata dai parti. In realtà, furono proprio quegli attacchi veloci a spingere Crasso in trappola: li ritenne una prova della debolezza nemica. Alla prova dei fatti, il condottiero romano optò per uno schieramento difensivo, a quadrato, in modo da non lasciar fianchi scoperti. Eppure, la pioggia di frecce tirata dagli arcieri a cavallo partici costrinse la cavalleria romana all’ingaggio. L’esito fu tragico e lo stesso figlio di Crasso, Publio, morì in quella sortita. Crasso decise quindi di ritirarsi nella fortezza di Carre, lasciandosi alle spalle le aquile di sette legioni che finirono in mano nemica. Alla fine, lui stesso fu catturato ed ucciso.
Necessità politiche e strategia militare
Crasso fu uno degli uomini più ricchi di Roma, ma con i soldi non aveva comprato la fama di cui invece godevano i suoi pari, e rivali, Cesare e Pompeo. Decise, quindi, di inserirsi nella politica partica, appoggiando la pretesa al trono di Mitridate contro suo fratello Orode. Oltre 40000 soldati romani penetrarono così in territorio nemico attraverso il deserto siriano, un errore strategico imperdonabile. Crasso cercava, infatti, una vittoria rapida, e questo lo spinse ad esporsi. Da un punto di vista strategico l’esercito romano si ritrovò a resistere ad una sfiancante marcia, in un luogo privo di ripari naturali, in balia di un nemico che faceva della mobilità il proprio punto di forza. Così, lontani dall’acqua, le forze partiche trascinarono i romani in un inseguimento mortale.
Un terribile epilogo e qualche dettaglio interessante
Secondo lo storico Cassio Dione la sorte di Crasso rivela un deciso contrappasso in relazione alla sua superbia. Lui, così avido di ricchezza e potere, morì tra mani nemiche che gli versarono in gola l’oro che così tanto desiderava. Ben diversa fu invece la sorte di Gaio Cassio Longino, che seguì il triunviro nella sua spedizione. Cassio scelse di abbandonare Carre ritirandosi verso la Siria e, in questo modo, riuscì a salvarsi. Sarà lui, nel 44 a.C., a congiurare contro Giulio Cesare, mettendo fine a un’epoca. Il 9 giugno del 38 a.C., invece, le truppe comandate da Publio Ventidio Basso vendicheranno la morte di Crasso, infliggendo una grave sconfitta ai Parti, riportando il confine lungo l’Eufrate, e potendo, per questo, celebrare il trionfo a Roma.
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