Anche quest’anno l’Associazione Guide Turistiche Eolie Messina Taormina parteciperà alla Notte dei Musei, una manifestazione europea che propone l’apertura serale di alcuni luoghi della cultura che, spesso, sono anche chiusi al pubblico. L’Associazione Guide Turistiche Eolie Messina Taormina rappresenta un gruppo di guide turistiche multilingue abilitate della Regione Siciliana.
La Notte dei Musei a Messina
La sera di sabato 14 maggio, le suddette guide saranno disponibili in tre luoghi dalla grande importanza storico-artistica: il MuMe, ossia il Museo Regionale di Messina, dove sarà possibile ammirare le tele del Caravaggio tra cui “La Resurrezione di Lazzaro” e “L’adorazione dei Pastori“, il Museo Archeologico Luigi Bernabò Brea di Lipari e il Castello di Milazzocon la cittadella fortificata visitabile dalle 19:30, dove saranno proposte, ad opera delle guide, le visite studiate per accompagnare il visitatore in un’esperienza culturale immersiva.
In accordo con i Direttori dei musei coinvolti e con il Comune di Milazzo sarà possibile visitare anche il Museo della Tonnara di Milazzo, il Mastio di Milazzo con la meravigliosa sala di Archeoastronomia, e il Museo Etnoantropologico e Naturalistico Domenico Ryolo.
Il biglietto per accedere ai diversi siti, durante l’evento, avrà un costo simbolico di 1 euro. Per prenotare la visita e per avere informazioni aggiuntive è possibile chiamare i numeri dedicati: Messina 3295381130; Milazzo 3473039885; Lipari 3292037436.
Il Kgb (acronimo di Komitet Gosudarstvennoj Bezopasnosti tradotto in Comitato per la sicurezza dello stato) è stato il maggiore organo di sicurezza dell’URSS. Fu istituito nel 1954, quando il leader dell’Unione Sovietica, Nikita Khrushchev, mise mano alla riforma dell’Nkvd (il Commissariato del popolo per gli Affari interni), che aveva operato sotto Stalin, consentendogli di consolidare il potere e gestendo la politica delle purghe nell’Urss alla fine degli anni Trenta.
Nikita Khrushchev nel 1952, un anno prima della morte di Stalin
Nato per essere il supremo organo di sicurezza dell’URSS, il KGB divenne la “spada e lo scudo” del Comitato Centrale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica (Pcus), la leadership politica de facto del Paese. Oltre a garantire la sicurezza delle repubbliche sovietiche, il KGB era anche un’agenzia di servizi segreti e polizia segreta. Tra i suoi compiti, il più importante era sicuramente il controspionaggio, sia nella politica interna che in quella esterna all’URSS.
Come era organizzato
Il Kgb era composto da vari direttorati (upravlenija) e dipartimenti:
Primo Direttorato Centrale – si occupava delle operazioni all’estero (spionaggio), dipendente dal Primo vicepresidente e diviso in 10 dipartimenti: (Stati Uniti-Canada; America latina; Regno Unito-Australia-Nuova Zelanda-Scandinavia; Germania-Austria; blocco europeo; Cina-Vietnam-Cambogia; Africa; Estremo Oriente; Giappone; Cina)
Secondo Direttorato Centrale – si dedicava al controspionaggio e alla sicurezza interna.
Terzo Direttorato – era competente riguardo alla fedeltà delle forze armate
Quarto Direttorato – provvedeva ai Trasporti
Quinto Direttorato – si occupava del contrasto al dissenso politico interno e gli “affari nazionalistici e religiosi”.
Sesto Direttorato – si interessava al controspionaggio economico e sicurezza industriale
Settimo Direttorato – era preposto alla sorveglianza elettronica.
Ottavo Direttorato Centrale – si interessava alle comunicazioni riservate e alla crittografia.
Nono Direttorato – si occupava di Protezione dei leader sovietici.
Quindicesimo Direttorato – era preposto alla Sicurezza delle Strutture governative.
Sedicesimo Direttorato – provvedeva all’ Intercettazione delle comunicazioni
Dipartimento logistica
Dipartimento comunicazioni
Dipartimento ricerche speciali
Dipartimento reparto tecnico
Guardie di frontiera (queste ultime con un organico di circa 250.000 effettivi e un proprio servizio navale ed aereo), riconoscibili dalle mostrine verdi sull’uniforme standard dell’Armata Rossa.
Un monumento a Dzerzhinskij davanti all’edificio del KGB a Mosca, URSS
Il Kgb era conosciuto per i metodi che usava per intercettare il personale dell’ambasciata degli Stati Uniti a Mosca. Una volta, gli agenti sovietici modificarono le macchine da scrivere utilizzate dal personale dell’ambasciata.
Per i diplomatici statunitensi, le macchine da scrivere modificate furono solo la punta dell’iceberg.
L’intero edificio infatti era pieno di dispositivi nascosti per le intercettazioni, perché quando i russi costruirono una nuova ambasciata degli Stati Uniti a Mosca alla fine degli anni Settanta, il Kgb la riempì di cimici nella fase di muratura.
Gli ultimi anni
Il primo direttore della Cia Allen Dulles una volta descrisse il Kgb come “uno strumento di sovversione, manipolazione e violenza, di intervento segreto negli affari di altri Paesi”.
In effetti, gli agenti del Kgb hanno influenzato il corso della Guerra Fredda in molti modi. Ad esempio l’agente del Kgb Bohdan Stashynsky (1931-) è conosciuto per aver ucciso nel 1959 due nazionalisti ucraini antisovietici, con un’elaborata pistola nebulizzatrice che non lasciava segni di morte violenta sulle vittime.
Al culmine della Guerra Fredda, il Kgb gestiva reti di spionaggio e reti di informatori in tutti gli angoli del mondo. L’agenzia operava attivamente sul suolo degli Stati Uniti, anche reclutando ufficiali militari e agenti di intelligence statunitensi per passare i segreti militari degli Stati Uniti all’Urss. Anche se non è possibile stabilire un numero esatto, alcuni ricercatori ritengono che il numero di informatori che hanno lavorato per il Kgb durante la Guerra Fredda sia stato nell’ordine di grandezza di milioni di persone.
Infine il Kgb terminò la sua attività nel 1991, anno nel quale l’agenzia venne sciolta lasciando il posto al Fbs (Servizio di sicurezza federale).
La statua del fondatore del KGB, Feliks Dzerzhinskij, smantellata a Mosca, in Russia, nell’agosto 1991
per le immagini si veda il sito: https://it.rbth.com/storia
Dopo il suo arresto, nessuna prigione volle trattenerlo e, in seguito, Robespierre fu portato dai soldati della Comune di Parigi all’Hotel de Ville, dove si ricongiunse con alcuni seguaci.
Il 28 luglio del 1794 la polizia irruppe nell’Hotel. Arrestò alcuni fedeli di Robespierre e lui ricevette un un colpo di pistola che lo ferì gravemente al volto.
I medici, che avevano avuto il compito di curarlo per evitare che evitasse la ghigliottina a causa della ferita, dissero che non emise mai un lamento sebbene il dolore fosse molto forte. Tutte le persone arrestate furono portate dapprima alla Conciergerie (palazzo storico di Parigi) per un primo riconoscimento e poi in Piazza della Rivoluzione per essere giustiziati.
Robespierre era ferito gravemente alla mascella e un testimone riportò che le sue ferite erano in pessime condizioni. Riferì anche che il prigioniero rimase in silenzio tutto il tempo e che gridò dolore solo quando gli furono tolte le bende dal volto; perse molto sangue: era chiaro che sarebbe morto a breve, così i boia decisero di accelerare l’esecuzione.
Robespierre morì il 28 luglio 1794. Il suo corpo venne gettato il una fossa comune nel Cimitero degli Errancis (Parigi), dove tutt’oggi riposa.
La prima guerra mondiale (o Grande Guerra) scoppiò il 28 giugno del 1914 a causa dell’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono d’Austria, a Sarajevo.
Un mese più tardi, il 28 luglio, l’Austria dichiarò guerra alla Serbia. All’inizio si pensava che fosse una questione facilmente risolvibile tra le due potenze, ma ben presto entrarono in gioco anche gli stati alleati suddivisi in due schieramenti: la Triplice Intesa, composta da Russia (che abbandonò la guerra nel 1917), Francia e Gran Bretagna; e la Triplice Alleanza, composta da Germania, Austria e Italia (si dichiarò in un primo tempo neutrale, ma entrò in guerra l’anno seguente). Il conflitto assunse quindi carattere europeo.
Interventisti contro neutralisti
Nel frattempo, in Italia si svolgeva la diatriba tra interventisti e neutralisti; questi ultimi avevano a capo Giovanni Giolitti, il quale aveva offerto la neutralità in cambio dei territori di Trento e Trieste dall’Austria.
Vinsero gli interventisti e il 24 maggio 1915 l’Italia dichiarò guerra all’Austria.
Il trattato di pace di Versailles
Il 18 gennaio 1919 i capi delle nazioni vincitrici (Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti e Italia) si riunirono a Versailles in una Conferenza di pace. I rappresentanti dei Paesi vinti vennero chiamati solo a firmare il trattato.
Le conseguenze
Dopo il trattato di Versailles l’Europa assunse un nuovo aspetto. La Germania venne riconosciuta come maggiore responsabile del conflitto e fu costretta a pagare i danni di guerra e a mantenere un esercito molto ridotto. L’Italia ottenne dall’Austria il Trentino, l’Alto-Adige, la Venezia-Giulia e Trieste. L’Austria perse gran parte del suo territorio. Gli Stati Uniti furono riconosciuti come i veri vincitori della guerra.
Maximilien-François-Marie-Isidore de Robespierre nacque ad Arras, un paese nel nord-est della Francia, nel 1758 da una famiglia borghese. Fu uno dei protagonisti della Rivoluzione francese (1789-1799); ricordato anche come uno dei padri della Prima Repubblica francese.
Fu tra i migliori studenti del suo corso di retorica e molto amato dai suoi insegnanti tanto che, nel 1775, venne scelto dal maestro per declamare dei versi latini al cospetto di Luigi XVI: il re era giunto in visita nel collegio in cui Robespierre studiava. Il sovrano però, annoiato, non fece attenzione ai versi che il giovane stava declamando.
Studiò i grandi classici latini e greci; ammirava la repubblica romana e l’arte oratoria dei grandi del passato: Cicerone, Virgilio, Livio, Tacito e Catone, anche se molto distanti dai costumi del 1700. Nel 1782, dopo aver completato gli studi, decise di ritornare nella natìa Arras per esercitare, seguendo così le orme del padre, la professione di avvocato.
L’arresto
Nel corso degli anni Robespierre si fece dei nemici. Proprio questi, nel giugno del 1794, fecero girare voce che volesse istaurare di nuovo la monarchia, concentrando tutto il potere nelle sue mani e scegliendo Luigi Carlo come prossimo al trono dopo la morte per ghigliottina della regina Maria Antonietta.
Un mese più tardi, il 26 luglio 1974, Robespierre fece un discorso davanti alla Convenzione per la Salute Pubblica, di cui egli stesso faceva parte. Parlò a lungo riguardo a una possibile cospirazione contro la Repubblica e incolpò, senza fare nomi, alcuni dei membri del Comitato.
Secondo lui occorreva rinnovare il Comitato di Salute Pubblica e quello della sicurezza generale. Le minacce, seppur velate, portarono gran scompiglio all’interno della Convenzione. La maggior parte del Comitato voleva agire velocemente e la Convenzione, colpita dalla retorica di Robespierre, approvò l’idea.
Il giorno seguente, il 27 luglio 1974, Robespierre venne arrestato e le sue ultime parole furono: «La Repubblica è perduta, i briganti trionfano».
Paolo Borsellino viene considerato, insieme a Giovanni Falcone, una delle personalità più importanti nella lotta alla mafia in Italia e a livello internazionale. Nacque a Palermo nel 1940, nello stesso quartiere dell’amico d’infanzia Giovanni Falcone.
La vita e l’ingresso nella magistratura
Nel 1958 si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza presso l’Università di Palermo. Si laureò cinque anni più tardi e nel 1963, dopo aver vinto il bando del concorso per entrare nella Magistratura Italiana, diventò il più giovane magistrato d’Italia e cominciò il tirocinio come uditore giudiziario.
La nascita del primo pool antimafia
Il capo dell’Ufficio Istruzione di quegli anni, Rocco Chinnici, istituì il primo “pool antimafia”, ossia un gruppo di magistrati che si sarebbero occupati esclusivamente dei reati di stampo mafioso e, lavorando in gruppo, avrebbero avuto una visione più chiara e completa del fenomeno mafioso e, di conseguenza, la possibilità di combatterlo in modo più efficace. Chinnici chiamò Borsellino a fare parte del pool insieme a Giovanni Falcone, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta.
Nel 1983, dopo che Chinnici rimase ucciso nell’esplosione di un’autobomba, giunse a Palermo da Firenze il giudice Antonio Caponnetto che ne prese il posto.
Su cosa lavorava il pool
Secondo il racconto dello stesso Borsellino, il pool nacque per risolvere il problema dei magistrati che lavoravano individualmente e separatamente, senza che avvenisse scambio di informazioni fra quelli che si occupavano di materie contigue. Le indagini del pool si basarono soprattutto su accertamenti bancari e patrimoniali, vecchi rapporti di polizia e carabinieri, ma anche su nuovi procedimenti penali, che consentirono di raccogliere un abbondante materiale probatorio. Nello stesso periodo Falcone incominciò a raccogliere le dichiarazioni di due collaboratori di giustizia: Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno. La loro attendibilità venne confermata dalle indagini del pool: infatti, le dichiarazioni di Buscetta produssero 366 ordini di cattura, mentre quelle di Contorno altri 127 mandati di cattura; nonché una serie di arresti eseguiti tra Palermo, Roma, Bari e Bologna.
La protezione all’Asinara e il maxiprocesso
Nell’estate del 1985, per ragioni di sicurezza, Falcone e Borsellino furono trasferiti insieme con le loro famiglie nella foresteria del carcere dell’Asinara per scrivere l’ordinanza-sentenza di 8000 pagine che rinviava a giudizio 475 indagati in base alle indagini del pool. Il maxiprocesso di Palermo, che scaturì dagli sforzi del pool, cominciò nel 1986 in un’aula bunker appositamente costruita all’interno del carcere dell’Ucciardone per accogliere i numerosi imputati e avvocati, per concludersi nel 1987 con 342 condanne, tra cui 19 ergastoli.
Mentre il maxiprocesso di Palermo si stava avviando verso la sua conclusione, Antonio Caponnetto lasciò il pool per motivi di salute e tutti – Borsellino compreso – si aspettavano che al suo posto fosse nominato Falcone, ma, contrariamente alle aspettative, il Consiglio superiore della magistratura nominò Antonino Meli.
Borsellino parlò allora in pubblico raccontando quel che stava accadendo alla Procura della Repubblica di Palermo: «Si doveva nominare Falcone per garantire la continuità all’Ufficio», «Hanno disfatto il pool antimafia», «Hanno tolto a Falcone le grandi inchieste», «La squadra mobile non esiste più», «Stiamo tornando indietro, come 10 o 20 anni fa». A causa di queste dichiarazioni rischiò un provvedimento disciplinare e fu messo sotto inchiesta. Però, a seguito di un intervento del Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, si decise di indagare su ciò che succedeva nel Palazzo di Giustizia.
La strage di Capaci
Nel maggio del 1992, in un attentato dinamitardo sull’autostrada A29 all’altezza di Capaci, persero la vita Giovanni Falcone, la moglie e tre agenti della scorta. Falcone morì fra le braccia di Borsellino in ospedale, senza riprendere mai conoscenza. Borsellino dichiarò a Lamberto Sposini: «Convinciamoci che siamo dei cadaveri che camminano».
Gli ultimi 57 giorni e la strage in via D’Amelio
I 57 giorni che separarono la strage di Capaci da quella in via D’Amelio furono i più difficili per Borsellino, il quale, duramente colpito dalla morte del collega e amico e nonostante fosse consapevole di essere il prossimo obiettivo della vendetta di Cosa Nostra, continuò a lavorare con frenetica intensità; fu ostacolato, però, dal capo della Procura palermitana che arrivò a nascondergli il contenuto di un’informativa del ROS dei Carabinieri che segnalava il pericolo di un imminente attentato nei suoi confronti, circostanza che Borsellino apprese solo casualmente durante una conversazione con l’allora Ministro della Difesa. Borsellino non solo era a conoscenza di essere nel mirino di Cosa Nostra, ma preferiva che non si stringesse troppo la protezione attorno a sé, così da evitare che l’organizzazione scegliesse come bersaglio qualcuno della sua famiglia.
A giugno Borsellino tenne il suo ultimo discorso nell’atrio della biblioteca di Casa Professa: «Giovanni Falcone lavorava con perfetta coscienza che la forza del male, la mafia, lo avrebbe un giorno ucciso. Francesca Morvillo stava accanto al suo uomo con perfetta coscienza che avrebbe condiviso la sua sorte. Gli uomini della scorta proteggevano Falcone con perfetta coscienza che sarebbero stati partecipi della sua sorte. Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché non si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore! La sua vita è stata un atto d’amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato».
Il 19 luglio 1992, alle 16:58, una Fiat 126 imbottita di esplosivo, che era parcheggiata sotto l’abitazione della madre, detonò al passaggio di Borsellino che stava andando a trovarla, uccidendo lui e anche i cinque agenti di scorta.
Circa 10.000 persone parteciparono ai funerali privati di Borsellino; i familiari rifiutarono il rito di Stato: la moglie Agnese, infatti, accusava il governo di non aver saputo proteggere il marito e volle una cerimonia privata senza la presenza dei politici. L’orazione funebre fu pronunciata da Antonino Caponnetto: «Caro Paolo, la lotta che hai sostenuto dovrà diventare e diventerà la lotta di ciascuno di noi».
Fu una strage di Stato?
Molti hanno parlato della strage di via D’Amelio come “strage di Stato”.
Il fratello di Paolo Borsellino, Salvatore Borsellino, ne parlò in modo esplicito: «Perché quello che è stato fatto è proprio cercare di fare passare l’assassinio di Paolo e di quei ragazzi che sono morti in via D’Amelio come una strage di mafia. Devo dire che, purtroppo, una buona parte dell’opinione pubblica, cioè quella parte che assume le proprie informazioni semplicemente dai canali di massa – televisione e giornali – è caduta in questa “trappola”».
Bisogna ricordare
In occasione della ricorrenza dei 25 anni dalla strage di via D’Amelio, Fiammetta Borsellino, ultimogenita del magistrato Paolo, in un’intervista ha detto: «Ai magistrati in servizio dopo la strage di Capaci rimprovero di non aver sentito mio padre nonostante avesse detto di voler parlare con loro. Non hanno nemmeno disposto l’esame del DNA. Non furono adottate le più elementari procedure sulla scena del crimine. Il dovere di chi investigava era di non alterare i luoghi del delitto. Ma su via D’Amelio passò la mandria di bufali».
Alla memoria del magistrato italiano, inoltre, furono intitolate numerose scuole e associazioni, nonché (insieme all’amico e collega Falcone) l’aeroporto internazionale “Falcone e Borsellino” di Palermo (ex “Punta Raisi”) e l’aula principale (Aula I) della Facoltà di Giurisprudenza alla Sapienza di Roma.
Sempre caro mi fu quest’ermo colle, e questa siepe, che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quïete io nel pensier mi fingo, ove per poco il cor non si spaura. E come il vento odo stormir tra queste piante, io quello infinito silenzio a questa voce vo comparando: e mi sovvien l’eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei. Così tra questa immensità s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in questo mare.
Giacomo Leopardi
(In foto) Caspar David Friedrich, Viandante sul mare di nebbia, olio su tela, 1818.
Chi ha dovuto imparare a memoria questo componimento? Tutti, chi dice di no mente!
Giacomo Leopardi (1798-1837) ha composto la poesia a Recanati (MC) nel 1819. I primi versi lasciano pensare che il tema del componimento sia quello del piacere e dello star soli in luoghi nascosti. L’incipit stesso sembra essere narrativo perché il «Sempre caro mi fu» (v. 1) dà l’idea di un legame che rimanda in qualche modo al passato; di seguito, però, è il presente che domina.
Dopo «Ma» (v. 4) il testo parla di un’esperienza vissuta nel momento stesso in cui viene raccontata. E pensare che sia una siepe che suscita l’immaginare spazi infiniti è sorprendente, a farlo dovrebbero essere, piuttosto, spazi aperti. L’Infinito parla di come, in modo graduale, cominciando da esperienze sensoriali concrete, il lettore immagini qualcosa che non ha limiti né di spazio né di tempo.
Il racconto va avanti grazie alla percezione di diversi stimoli sensoriali che colpiscono in modo del tutto casuale il lettore; la siepe, oggetto immobile che chiude, fa pensare in modo contrario all’infinito.
Nella prima parte del componimento, l’idea del silenzio è una parte dell’infinito spaziale. Ma il rumore del vento lascia intuire un infinto diverso: quello temporale. Quest’ultimo è anche il rumore della vita, legato indissolubilmente al presente, ma che, nello stesso momento, ci obbliga a un confronto tra l’evento del momento presente e il passato, arrivando a confondersi con l’eternità.
Il lettore perde così la sua identità e ciò consiste nel perdere le coordinate dello spazio e del tempo: naufraga nell’immensità. Ma non ha paura e si abbandona alla sensazione.
Come già detto, la poesia si concentra sull’immersione dell’io nell’infinito, generata dal rapporto con un luogo reale (il colle di Recanati) e l’immaginazione dell’indefinito. Essa avviene attraverso la vista (la siepe che porta a immaginare infiniti spazi) e l’udito (il rumore del vento tra le foglie che porta il lettore a pensare a tempi senza fine).
La natura, in questo momento della formazione di Leopardi, è ancora locus amenus, idealizzata e piacevole, ben lontana dalla natura matrigna delle opere della maturità. L’autore vuole far conoscere al lettore l’esperienza del sublime, che, per i romantici, non è altro che il senso di impotenza dell’uomo davanti alla natura.
Leopardi spiega, attraverso L’infinito, che il sublime è un’esperienza e che, per poterla vivere, non serve trovarsi in un luogo determinato, ma la propria immaginazione può essere più che sufficiente.
In copertina: luogo commemorativo sul Colle dell’Infinito (MC).
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Gli archeologi in questi giorni hanno riportato alla luce oggetti che aggiungono un nuovo tassello relativo al primo insediamento del popolo etrusco. L’area interessata si trova a un centinaio di metri dall’ingresso al Parco archeologico e naturalistico di Vulci; si tratta della necropoli di Poggetto Mengarelli, dove gli studiosi hanno scavato negli ultimi anni oltre centocinquanta tombe. La terra ha restituito agli archeologi tre urne cinerarie in ceramica d’impasto di forma biconica, coperte da una ciotola e sigillate da una lastra di calcare; tutte rinvenute in tre sepolture a “pozzetto” nell’area di scavo.
“Al momento possiamo dire che le due urne di dimensioni maggiori – spiega Carlo Casi, direttore scientifico di Fondazione Vulci – contenevano le ceneri di due adulti, forse un uomo e una donna; invece l’urna più piccola conservava quelle di un individuo di età tra i 9 e gli 11 anni. Non sono stati trovati oggetti di corredo: questo lascia presupporre un ruolo modesto dei nuclei familiari dei fondatori della prima Vulci. Le prossime indagini – conclude Casi – potranno confermare l’ipotesi”.
In programma a Vulci (VT) un’intensa attività di scavo in cui saranno coinvolte diverse istituti universitari, con l’obiettivo di ricostruire ulteriormente la storia, la cultura, la società e l’espansione dell’insediamento etrusco-romano in questa antica terra. Nella necropoli di Poggetto Mengarelli è in corso un intervento di valorizzazione che porterà i turisti a un viaggio nel tempo attraverso la realtà aumentata. Si tratta di un percorso fruibile anche ai diversamente abili e in cui si potranno avere tutte le informazioni riguardo al sito archeologico.
Il nuovo logo del Parco archeologico di Ercolano è un nodo di Ercole – come viene chiamato – il nodo con il quale l’eroe si allacciava al collo la pelle del leone di Nemea e che nell’antica Roma legava le vesti della sposa il giorno delle nozze, per venire poi sciolto la notte dallo sposo. Ma il nodo non richiama solo il mito. Come ha spiegato alla giornata di presentazione il Direttore del Parco, Francesco Sirano: “è soprattutto il simbolo delle connessioni che il Parco sta intrecciando con tutto ciò che lo circonda”.
Oltre al logo, è stata presentata la futura programmazione del Parco fortemente incentrata sul coinvolgimento e la partecipazione dei cittadini. Non è stato un caso che lo slogan della giornata sia stato “Il mito con il futuro intorno”. Simboleggia infatti un passato che può offrire al presente una così ampia prospettiva da proiettarlo nel futuro.
Il nuovo logo piace. Come afferma Elio Carmi, colui che l’ha ideato, il nodo di Ercole “connette due somiglianze, due corde di pari geometria, in cui la forza dell’una dipende dall’altra. Esattamente come il Parco è parte della città, così Ercolano è a sua volta parte del Parco. (…) È una forma che marca la complementarietà. Le due corde hanno una propria sostanza, ma è solo nell’unione che si rafforzano e determinano il loro legame”. Insomma una corda non può esistere senza l’altra, e devono rimanere in equilibrio perfetto perché il nodo esista.
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